sabato 28 luglio 2012

Noi, Danny Boyle e la cultura pop


La Regina, scortata da James Bond, va a prendere l'elicottero.

Quando ero piccolo mio nonno materno mi portò al cinema a vedere Mary Poppins. Dopo oltre due ore di balli di spazzacamini sui tetti di Londra, nannies volanti, ammiragli in pensione che cannoneggiavano la città ecc., uscii dalla sala estasiato. Mio nonno mi guardò severo e pronunciò una sola parola: “Americanate”.
Mio nonno non era un intellettuale, era un commerciante. Possedeva un albergo e leggeva il Borghese, figuriamoci. Però disse così.
Mary Poppins.

Vedendo oggi alcuni commenti alla smagliante serata di inaugurazione delle Olimpiadi orchestrata da Danny Boyle (quante imitazioni mal fatte ci sorbiremo, nei prossimi anni?) mi sono chiesto se la nostra cultura dominante non sia rimasta drammaticamente indietro rispetto a quella pop culture che ha segnato, quasi cinquant’anni fa, il tentativo di  comprensione, da parte degli intellettuali anglosassoni, dei meccanismi e delle poetiche della società di massa.
Ad esempio: la categoria “Disneyland”, usata in senso spregiativo (Maltese su Repubblica), è un segnale preciso di incomprensione della modernità. L’uso estensivo del termine kitsch (Grasso sul Corriere) per inquadrare humour e autoironia, pure. 
Fellini 8 e 1/2.

La forza della cultura britannica, in questi ultimi cinquant’anni, è stata proprio quella di comprendere l’elemento circense della mass culture e lavorarlo come un plus espressivo. Dai Beatles ai Monty Python, dal palinsesto di Channel 4 al rock degli anni settanta-ottanta, fino ad oggi. Sì, d’accordo, loro hanno fatto la Riforma e noi siamo ancora nella Controriforma, ecc. “Brains are optional but sense of humour is compulsory”.
Però. Però eravamo il Paese di Fellini e di 8 e 1/2

giovedì 26 luglio 2012

Niente politica in tv nel mese dello spread?


Formigoni a In onda con la coppia Facci-Lusenti.

Com’è possibile che, in un Paese che -facendo le corna- rischia il default, il servizio pubblico non abbia pensato ad un talk politico anche durante l’estate? Tutto è demandato alla 7, che indubbiamente fa un ottimo lavoro. (Peraltro, è evidente che, con le varie strambate rispetto al palinsesto ufficiale, Mentana voglia anche sottolineare il suo ruolo di vero kingmaker della linea editoriale della 7, vedi anche le sue incursioni a In Onda). 
Santoro su Raidue.
Ma è altrettanto evidente che alla Rai farebbe molto bene (anche dal punto di vista della sua collocazione sul mercato) non abbandonare il presidio sul pubblico interessato all’informazione. Che non può essere accontentato semplicemente con la seconda serata di Raidue il venerdi: ci vorrebbe un peso massimo. Certo, di talk in generale non se ne può più: ma per fare qualcosa di diverso da un talk (come fa Report e come faceva anche Raiuno con il Tv7 d’antan) ci vorrebbero redazioni aperte tutto l’anno, una macchina produttiva sempre accesa e competenze editoriali che vanno oltre il lavoro di cercaospiti. Tutte cose che costano e che  vanno pianificate per tempo. E che non sono nel dna delle redazioni dei tg, ci vogliono gruppi di lavoro dedicati.

Ma, in generale, credo che nella possibile agenda di Tarantola e Gubitosi dovrebbe entrare una risposta pratica alla domanda: quali sono i plus della Rai? Dov’è che la Rai riacquista e conferma una sua centralità? E dov’è che la perde? Chiedere a Raidue dopo lo scivolo a Santoro. 
Se la Rai vuole fare una politica efficace anche dal punto di vista commerciale (e cioé recuperare fatturato pubblicitario, oltre che abbonamenti) deve dimenticarsi i “periodi di garanzia” e tutti gli altri ammennicoli della tv commerciale anni ’90, e deve fare una sua politica commerciale legata al fatto di essere servizio pubblico 24/7 x 365 giorni. 
Gad Lerner ed Enrico Mentana.
Mediaset ha un problema diverso, continua a tentare talk politici ma non ce la fa. Per non fare discorsi complicati: se vuoi fare ascolto con un talk politico sulla tv di Berlusconi devi avere un conduttore di centro-sinistra (ma che dici? sì, dico) e un panel di ospiti non squilibrato (lo schemino tre-quattro pesi massimi di centrodestra e qualche vocina di centrosinistra è un gioco talmente scoperto da risultare trasparente anche al pubblico meno attento: quelli di sinistra non lo guardano e quelli di destra nemmeno, perché non c’è il confronto). 
Se per ragioni famigliari non te lo puoi permettere, allora tanto vale ributtarsi sul gossip, sapendo però che è una tattica difensiva e non espansiva, sembrano notizie da un mondo in rapido fading. 
Ma torniamo alla Rai. Ci sono tanti modi per risparmiare soldi, anzitutto cominciando ad eliminare duplicazioni frutto della trentennale lottizzazione. Ma ci sono pochi modi per farne, di soldi. Fondamentalmente, un servizio pubblico fa più soldi se è più amato e rispettato dal pubblico (e dagli opinion leader). Allora sarà più facile fare la voce grossa sul canone, e anche andare dagli inserzionisti chiedendo loro se vogliono investire sulla serie A. Non sulla bocciofila pensionati.

venerdì 20 luglio 2012

Vivremo senza libri, dischi, dvd?


Addio scaffali?


E così la Sony comprerà la Gaikai. Cos’è la Gaikai? E’ un servizio che consente di mettere  “sulla nuvola” i videogiochi. Traducendo: oggi per far girare un videogioco evoluto devi avere, oltre al televisore, una console (Playstation Sony, XBox Microsoft, Wii ecc.) e un dvd che contenga il (costoso) software del videogame. Con il sistema Gaikai, invece, basterà uno scatolotto collegato a Internet. Voi giocate da Roma, o da MIlano. Ogni vostro comando viaggia alla velocità della luce fino a un server in America, dove risiede il programma, che lo traduce in una visualizzazione che apparirà sul vostro tv. Tutta l’intelligenza è spostata in cloud. 
In parole povere: se oggi potete cominciare a rinunciare 
- alla vostra discoteca (con iTunes e iCloud ve la portate dietro, ma in realtà è soltanto un database puntato su un lontano server); 
- alla vostra libreria (Amazon ecc. vi fornisce gli e-book); 
- alla vostra collezione di dvd (i film e le serie saranno disponibili in streaming, nessuna necessità di supporto fisico, e neanche di spazio sul vostro hard disk);
-allo stesso modo, da domani potrete rinunciare anche allo scaffale con i dischi dei videogiochi. Un aspetto fondamentale per l’industria: non potrete più utilizzare videogiochi craccati e masterizzati dall’amico compiacente. Perché i programmi saranno custoditi sulla nuvola, in pratica dentro grandi datacenter.
Un videogioco in streaming.
Fin qua il discorsetto da blog tecnologico. (Anzi, loro potranno farvelo molto meglio di me, le notizie più fresche le ho raccolte da Riccardo Meggiato, mio specifico guru sui videogame).
La domanda che mi faccio è un altra: questa eliminazione tendenziale del supporto fisico è stato teorizzata da Steve Jobs quando ancora a noi sembrava fantascienza (e Jobs, passando dalle parole ai fatti, aveva boicottato la diffusione dei bluray escludendoli dalla configurazione interna dei mac; adesso i suoi epigoni hanno addirittura eliminato il lettore dvd dai nuovi MacBookPro). Chapeau alla lungimiranza. Ma, mi domando: in ogni civiltà è presente l’elemento del possesso fisico, l’elemento feticistico, insomma: il collezionismo.
Crescono gli e-book, diminuiscono i libri di carta.
Tutti noi collezioniamo qualcosa che ci serve non per il suo valore d’uso ma per il suo valore simbolico: l’intellettuale (mosche bianche, ok) ha la sua libreria. E anche se non riaprirà mai più in tutta la sua vita il 90% dei libri che possiede, la presenza di quei libri ha un senso. Ha una forte valenza simbolica. La presenza di un libro sullo scaffale è in qualche modo una scrittura. Scrive di noi.
L’amante della musica avrà la sua collezione di dischi (anche se la maggior parte dei pezzi li sente dall’iPod o da un hard disk). Il ragazzo appassionato di videogiochi avrà il suo scaffale dei games. E l’appassionato/a di cinema terrà tantissimo alla sua collezione di dvd e bluray, piena di “edizioni speciali” di classici del cinema. 
Sono nicchie? Sì, ma messe assieme non lo sono più. Come il bambino che segue le serie di Ben 10 o degli orridi Power Rangers ma pretende anche la sua collezione di pupazzi, supereroi, alieni e villains. A questo aspetto della questione (il feticismo) i teorici del cloud non hanno ancora pensato. Di solito la risposta è: guarda che si tratta di un fatto generazionale, i ragazzini non hanno più bisogno di queste cose. Ne avranno bisogno comunque, magari in forme diverse. Sì, ma quali? Cosa racconterà di loro, domani?

lunedì 16 luglio 2012

Se Rai Due assomigliasse a Channel 4


La home di Channel 4.

Ma la Rai vuol essere un editore? La questione l’ha riproposta Stefano Balassone (il co-fondatore della Raitre di Guglielmi e uno dei pochi che ci capiscono di televisione in Italia) in un bell’articolo uscito oggi. Poiché Balassone ha citato come esempio Channel 4, mi limito a una segnalazione di ordine generale. Perché Channel 4 è parte decisiva del sistema della tv pubblica britannica.
Mi spiego meglio. Il sistema dell’offerta televisiva pubblica in Gran Bretagna è così concepito: c’è la BBC, che vive solo di canone; e c’è Channel Four, per il quale non si paga canone, perché vive di pubblicità. Ma è comunque parte del sistema pubblico. (Poi ci sono i canali privati ITV e Channel 5. E sul satellite c’è Sky Uk).
I compiti di Channel 4 sono stabiliti dalla legge. In pratica Channel 4 deve garantire:
- innovazione, sperimentazione, creatività;
- multiculturalismo;
- contribuire al servizio pubblico anche con programmi che abbiano finalità “educative” (4Mation)
- esibire caratteristiche “originali”.
Black Mirror (Channel 4).
Schematizzando: diciamo che Channel 4 è un pezzo della migliore Italia Uno d’antan che incontra la Rai4 di Freccero con qualche sprazzo di Rai Tre e della 7. Channel 4 ha ospitato e proposto per prima i reality in Gran Bretagna (suscitando polemiche, ovviamente) ma è anche il canale che sperimenta serie di altissimo livello come Black Mirror, per capirci. Channel 4 produce documentari di alta qualità ma anche daytime popolati e innovativi (tutto il filone del cibo da Gordon Ramsey a Jamie Oliver, ad esempio); ha un bel telegiornale, affidato all’agenzia ITN; ha proposto le migliori serie americane (dai Simpson a The Big Bang Theory, da Glee a Six Feet Under, Sopranos, West Wing ecc., tanto per dirne qualcuna) ma ha promosso serie britanniche interessanti, da No Angels a Shameless.  Channel 4 ha, naturalmente, una veste grafica di altissima qualità, un linguaggio molto fresco, piace al pubblico giovane, è irriverente e talvolta scorretta, fa discutere. Cerca il nuovo ma è molto esigente con i copioni e la recitazione. Channel Four stabilisce una regola fondamentale nella tv di oggi: puoi prevedere quanto vuoi che un domani il palinsesto lineare morirà, ma questo non richiede meno brand, ma più brand. Qualcosa che dia una chiave di lettura a tutti i prodotti che proponi. Se non vi piace brand, chiamiamola una poetica.
Channel 4 non produce niente in casa: ma i prodotti di Channel Four sono inequivocabilmente “di Channel Four”. Perché Channel Four è un bravo editore. E in questi modo ha fatto vivere un tessuto di piccole e medie società di produzione che sono fucine di idee e non di raccomandazioni. Naturalmente Channel 4 non è perfetta. Nessun modello vale dovunque e per sempre. Ma sarebbe bello se un giorno Rai Due potesse assomigliare a Channel 4. Almeno un po’. 

sabato 14 luglio 2012

E' sempre obbligatoria la messa cantata?


L'Isola dei famosi ai tempi della Ventura.

Uno dei problemi che hanno i commercializzatori di format quando devono “localizzare”, cioé adattare un programma di successo al mercato italiano (bello, brutto od orrendo che sia) è che in origine si tratta quasi sempre di programmi che durano un’ora, e che sempre più spesso, non prevedono uno studio. Lo schema classico del programma di primetime italiano invece prevede la “messa cantata”: e cioé una durata monstre (fino a tre ore, e se dura più di tre ore, tanto meglio) e uno studio centrale, grande, magari grandissimo, riempito di pubblico. Non è che all’estero non ci siano programmi fatti in studio e con una live audience, naturalmente: ma sono sempre meno. 
Celebrity Survivor, versione filippina.
Non solo per una sorta di “spending review” naturale, ma anche perché il pubblico post-televisivo, al contrario di quello anziano e più tradizionale, non sente così fortemente il bisogno dello studio. A fare casa e brand ci pensano una buona grafica, il montaggio, la musica, persino la fotografia.
Lo studio di Report.
Se qualcun altro che non è la Rai si fosse preso L’isola dei famosi/Celebrity Survivor! (che nella crisi dei reality rimane ancora uno dei formati più modulabili, fanno bene a tenerselo) avrebbe potuto pensare di abolire lo studio. E magicamente tutto sarebbe costato molto meno. Ma sulla Rai, come fai? Se devi durare tre ore e raccogliere anche lo zoccolo del pubblico più tradizionale non c'è altra strada dello studio: un luogo rassicurante dove si parla, si parla e con le talking heads si fa minutaggio.  Naturalmente, ci sono vistose eccezioni. Quando un programma (qui siamo in una zona molto lontana da quella dei reality) ha un'identità forte, allo studio si può rinunciare. Report spesso batte il varietà di RaiUno. Con servizi fatti bene e con uno studiolo francescano che serve solo a lanciare i "filmati".
E’ anche un problema di cultura televisiva. I grandi broadcaster italiani, particolarmente quello pubblico, tendono a vedere i programmi come “studi con ospiti”.  Ma come avrebbe detto il bardo immortale, ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne possa contenere un teatro di posa.

venerdì 13 luglio 2012

Glenville: oltre 60mila visualizzazioni


Glenville ha superato oggi le 60mila visualizzazioni complessive, grazie a tutti per l'attenzione.