giovedì 27 giugno 2013

A Mediaset un Telese non fa primavera (per ora)



Luca Telese, in predicato per trasmigrare a Mediaset.  Altri lo seguiranno?
Comunque si concluda l’epica lotta tra il Cavaliere e la Magistratura italiana (ma l’assaggio della sentenza del Processo Ruby è abbastanza significativo); comunque si decida per la sopravvivenza o meno del Governo Letta; chiunque sia il candidato che la destra contrapporrà a Matteo Renzi, agli addetti ai lavori è chiara una cosa: Silvio Berlusconi non potrà essere ancora per molto tempo la spada e lo scudo del futuro di Mediaset.
Alessandro Salem, Direttore
generale contenuti di Mediaset
Gli speciali ad usum delphini realizzati da Videonews non traggano d’inganno: il problema dell’immediato futuro, per Mediaset, è quello di affrancarsi dai destini politici del Fondatore.  Per non trovarsi domani venduta al ribasso a qualche trader internazionale.
Il modello di business è maturo, la collocazione editoriale del colosso Mediaset non è più centrale, il suo peso d’opinione è oggi ridotto. Ma la sua capacità di raccolta pubblicitaria, nonostante la terribile crisi che colpisce il mercato interno e allontana i big spenders multinazionali, rimane molto forte. Così come la penetrazione in una parte importantissima (anche se oggi un po’ meno “vitale”) del pubblico televisivo, il cosiddetto "target commerciale".
Pier Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri.
Quindi la domanda –lasciando stare per un attimo le polemiche è più o meno ideologiche – rimane: come si muoverà, nel breve, Mediaset per riacquistare autonomia politica e centralità editoriale in un mercato in cui il concetto di duopolio è ormai in via di evaporazione, perché satellite (Murdoch) e digitale terrestre rappresentano ormai  molto più di un terzo della torta? Non è solo la Rai che deve ritrovare un’identità e un ruolo. Il problema esiste, allo stesso modo se non di più, per Cologno Monzese. E’ per questo che potremmo trovarci, in tempi non biblici, di fronte a qualche sorpresa anche sui canali Mediaset. (Sempre che le iniziative di Cologno non vengano impallinate da Arcore, perché il Fondatore da quell'orecchio non pare proprio sentirci).

Mettiamo (ma non diamo per scontato) che ci provino. Nel caso, basterà qualche segnale “politico” di accoglimento dei tempi nuovi (segnali tutti da verificare, per ora) o non servirà anche una nuova visione del futuro? Perché di Silvio Berlusconi tutto si può dire (e tutto è già stato detto). Ma non che un’idea dell’Italia, del mondo e delle sue tv non ce l’avesse chiara e netta.

martedì 25 giugno 2013

Film a casa, subito: impariamo dai coreani

Django Unchained è uno dei film che sono stati distribuiti in VOD (pay-per-view)  nella Corea del Sud
mentre erano ancora nelle sale.
Secondo il Wall Street Journal in questi mesi Disney e Sony in Corea del Sud hanno sperimentato la distribuzione in pay per view di alcuni blockbuster cinematografici mentre i film erano ancora nella sale. Si tratta di Django Unchained e dei disneyani Ralph e Brave. E' la prima volta che accade (quando ci hanno provato negli Stati Uniti, gli esercenti li hanno inseguiti brandendo l'accetta). E' vero che se girate per Seul troverete veri e propri negozi che vendono dvd taroccati di qualunque cosa, quindi il rischio per le due major è minimo (al massimo si fanno qualche soldo in più da un mercato che è già micidiale per la proprietà intellettuale). Però la notizia riapre l'annosa discussione tra produttori, distributori ed esercenti.
E cioè: davvero la prospettiva centrale dei prodotti cinematografici è la sala? Sì, lo sappiamo che l'home video è in crisi. ma è in crisi proprio perché i film arrivano in distribuzione quando anche l'ultimo amico dell'amico dell'amico nerd ti ha passato la chiavetta o il dvd con il film (o la serie tv) "torrentata" (o quando ti hanno girato l'indirizzo per vederla in streaming su un sito balengo). E non cominciamo con la litania che i film scaricati si vedono male, che scaricare illegalmente è un colpo al cuore per l'industria dell'intrattenimento, che è un furto per chi ci lavora, che il fascino del grande schermo bla bla bla. Sono tutte cose giuste, ma mi ricordano quello che voleva fermare il vento con le mani. La pirateria si sconfigge se mi date modo di vedere quello che voglio vedere, velocemente, a basso prezzo e dove pare a me.
Il noleggio Amazon negli Stati Uniti (4 dollari).
 "Ma senza distribuzione nelle sale il film non si fa l'aura che lo nobilita", ecc. Vero. E quindi? E quindi distribuitelo due settimane dopo. Sei mesi dopo è morto e sepolto. La grande sala? A parte il fatto che 1) tolti pochi titoli fortunati, la sala mentre guardate il film d'autore, l'opera prima o la commedia francese tanto carina è pressoché vuota. E che 2) spesso il film è proiettato in digitale, quindi un buon video proiettore o un televisore da 50 pollici sostituiscono degnamente "l'esperienza di visione". E che 3) la roba piratata si vede sempre meglio, grazie agli algoritmi di compressione sempre più efficienti...
A parte tutto questo: ma lo vogliamo capire che tra un po' nessuna istituzione scucirà più un euro per finanziare i film, alla faccia dell'"eccezione culturale"? Mica dico che sia giusto, eh. Dico che però bisogna prepararsi. Non è possibile che durante la crisi del '29 andassero tutti al cinema e durante questa crisi (che se la batte allegramente con la "Grande Depressione") siamo capaci solo di piangere sul destino cinico e baro che ci ha dato i film e la serie piratati gratuitamente sulla Rete. Facciamoli pagare. Sulle tv "smart", su un player apposito (perché la Rai, ad esempio, non ne fa uno ad hoc, centralizzato?), in pay per view e in streaming. Pochi, maledetti e subito. Ma sono sempre soldi. O volete aspettare che arrivino Hulu e Netflix? O Apple? O Amazon?

mercoledì 12 giugno 2013

Apple: da lepre a cacciatrice?


La Human Interface di iOs7.

Sir Jonathan Paul Ive, dello Jony Ive, è il designer britannico (45 anni ben portati) che ha rivoluzionato lo stile delle interfacce dei computer dirigendo l'Apple's Industrial Design Group. Ive amava lo stile modernista, streamlined dei mitici televisori e radio Braun (quelli disegnati negli anni sessanta da Dieter Rams). Ma quando fu in momento di disegnare l'interfaccia (anzi, la human interface, come la chiamano a Cupertino) dei telefoni e tablet Apple, Steve Jobs, che lo aveva voluto al suo fianco, gli chiese di non esagerare con il nitore "svizzero". Le icone della Applicazioni dovevano, quando necessario, ricordare oggetti reali e manipolabili.
Jony Ive.
Fu così che il bookstore e l'edicola di Apple furono fatti assomigliare agli scaffali delle librerie universitarie americane, con quelle venature tristi da impiallacciatura che chiunque abbia frequentato un corso estivo in qualche college ben conosce. "Trova gli amici" sembrava uno stemma di cuoio cucito sui jeans, "mappe" non erano altro che un dettaglio della classica cartina stradale nordamericana, e così via. Questo stile, che i dotti chiamano scheumorfismo, fu una fissa dell'ultimo Jobs, portata avanti soprattutto da 
Scott Forstall, un fedelissimo del fondatore (che fu però licenziato, guarda un po', a dicembre del 2012). 

L'interfaccia di Samsung.
Adesso, con il WWDC13, l'annuale convegno degli sviluppatori Apple che si è appena tenuto a San Francisco, Jony Ive, che nel frattempo ha fatto carriera, ha presentato l'iOS7, la nuova interfaccia dell'iPhone e dell'iPad: rivoluzione. Tutto di nuovo streamlined, semplificato, geometrico. C'è un problema però: quella era proprio la strada scelta dai designer di Android, il sistema operativo concorrente, quello usato da Google e soprattutto da Samsung, che con i suoi Galaxy sta succhiando fette di mercato ad Apple. Quindi per la prima volta da anni Apple sembra, almeno su questo terreno, correre dietro al vincitore. Magari recupererà (nel campo dell'hardware, ad esempio, l'annuncio del nuovo, totalmente ridisegnato MacPro sembrerebbe voler dimostrare che le capacità rivoluzionarie di Apple sono intatte), ma per adesso è più cacciatrice che lepre, un ruolo inusitato per gli inquilini di Infinite Loop. L'unica cosa sicura è che questa rivoluzione avrà conseguenze nella nostra vita di tutti i giorni. Perché spingerà tutti i designer del mondo alla semplificazione e al nitore grafico. Intanto noi italiani stiamo alla finestra a guardare. Ah già, ma non eravamo i campioni del design? Vi ricordate l'Olivetti di cinquant'anni fa?


Il nuovo Mac Pro.
Update: Il nuovo Mac Pro (annunciato, ma non ancora in produzione) dovrebbe essere il primo prodotto Apple -dopo tanti anni di totale outsourcing- "assemblato, e in parte prodotto" negli Stati Uniti. Il rinnovo della linea professionale dei computer Apple sembra quindi rispondere anche ad un'esigenza "politica" di Cook: utilizzare questa linea di prodotto per rispondere all'isolamento in cui l'azienda di Cupertino si è trovata nei confronti dell'opinione pubblica per le sue pratiche fiscali (comuni a molti altri big dell'elettronica). Dimostrare di far parte del gruppo di aziende che "riportano il lavoro in America", rispondendo così ad una sollecitazione di Obama, potrebbe essere quindi la strada per rifarsi l'immagine. Anche se lo stabilimento scelto per realizzare l'assemblaggio dei componenti non occuperebbe, secondo gli esperti, più di qualche centinaio di lavoratori americani. E sarebbe con ogni probabilità ubicato nel Texas, stato in cui le tasse locali a carico delle aziende sono quasi inesistenti.

domenica 9 giugno 2013

Avviso ai naviganti: guardate tanta tv

L'anno televisivo ha gli stessi tempi dell'anno scolastico. Per fine giugno è finito tutto, si bruciano i libretti e si pensa all'anno nuovo. Anche se adesso il concetto di "periodo di garanzia" (cioè l'idea che gli ascolti fossero importanti solo in alcuni mesi strategici per gli inserzionisti) sta andando in crisi, i soldi sono talmente pochi che in estate si produrrà comunque ai minimi.
Quindi, se l'anno sta per finire, occorre cominciare a pensare ai proponimenti per l'anno nuovo. Il primo tra questi ha un contenuto che potrebbe essere considerato sinistro: bisogna guardare più televisione. Perché i gusti stanno cambiando. Lo dico anzitutto a me stesso, ma credo che la cosa riguardi tutti gli addetti ai lavori. E non solo. Ecco perché. 
La crisi non allontana il pubblico dalla tv. Anzi. Ma sta sedimentando una divisione netta nel pubblico televisivo: una maggioranza che aderisce, come e più di prima, alla tv generalista; questa maggioranza è divisa in due parti, in proporzioni ineguali. E una consistente minoranza che se ne è distaccata, anche nella abitudini quotidiane, in favore della galassia del digitale terrestre gratuito o della pay-tv. Sempre televisione, comunque.
Ciò cambia seriamente i termini della domanda da parte dei telespettatori. Le esperienze degli anni Novanta del secolo scorso, ma anche del primo decennio del nuovo secolo, sono sostanzialmente superate. Adesso c'è 
1) un vasto pubblico generalista che chiede intrattenimento "di base" e rassicurante, nella fiction, nei games, nel light entertainment. Un grande villaggio vacanze, senza pretese che non siano di mood (e in questa grande parte di pubblico ci sono anche molti giovanissimi); 
2) un'altra fetta di pubblico generalista adulto che chiede rassicurazione in termini di adesione alle sue apprensioni, sostanzialmente politiche e legate alla profondità della crisi. E le chiede in termini di "correttezza politica", di solidità culturale e di scelta di campo: il grosso del pubblico di Raitre -e anche in parte de la 7, almeno per com'è ora; 
Una famiglia americana davanti alla tv (1958).

3) una galassia, prevalentemente urbana, prevalentemente affluente, o che perlomeno si considera ancora tale, che sceglie la pay-tv come suo prisma di lettura della realtà e della televisione, e che a fatica prende in mano il telecomando di base della tv per schiacciare i primi sette tasti. Un pubblico che magari va anche su Realtime o D-Max proprio perché non li considera parte della "vecchia tv".
E' chiaro che non esistono confini precisi tra questi tre mondi, che al contrario si compenetrano e intrecciano continuamente, soprattutto quando un programma tv è considerato un "evento". Ma è altrettanto chiaro che certi giochi linguistici, certe strizzatine d'occhio, certe "seconde letture" che prima, anche in programmi destinati al pubblico generalista, venivano quasi teorizzati da tanti professionisti della tv, oggi non funzionano. Perché parlano ad un pubblico che sta da un'altra parte. La saldatura tra pubblici diversi (com'è accaduto, ad esempio, con il Sanremo di Fazio) passa non dalla sagacia delle doppie letture ma dalla capacità di costruirsi una rocciosa e corretta, anche se piacevole, "centralità", un ancoraggio all'interno del quale faccia la sua parte anche il dover essere del consumo culturale, del middlebrow come segno di elevamento sociale (ingiustamente disprezzato, a conti fatti, dai teorici tv degli anni Ottanta e Novanta).
Anche la politica italiana, dopo i suoi primi date con la Rete e i social network, impara che comunque gli orientamenti politici continuano a passare dalla tv, e che il second screen è, sostanzialmente, un amplificatore -e non un amplificatore hifi, anzi, abbastanza distorto- di ciò che avviene sugli schermi del salotto. Anche se "mio figlio sta sempre davanti al computer" e "i miei amici i programmi li vedono il giorno dopo in streaming". Che è la versione 2.0 del vecchio "non conosco nessuno che voti democristiano".
Perché, a conti fatti, streaming o non streaming, sempre di tv si parla. Ma non di una tv: di tante tv. E di tanti modi per fruirla. Ecco perché ci toccherà passare più sere davanti al teleschermo. Ed ecco perché tra un po' vedremo anche Beppe Grillo in un bel talk show.

giovedì 6 giugno 2013