domenica 29 settembre 2013

Chi non ricorda OdB è scemo



Oreste del Buono (1923-2003).
Esattamente 10 anni fa moriva Oreste del Buono. E la cosa che mi fa più incazzare è che molti di voi non sanno chi fosse. Perché Oreste del Buono (OdB per gli amici, quindi per moltissimi, a turno, tra quelli che lo conoscevano) è stato, oltre che un meraviglioso rompiballe, uno degli intellettuali più importanti per l'Italia degli anni sessanta, settanta e anche ottanta del secolo scorso. OdB è stato una potentissima e soave forza modernizzatrice e sprovincializzatrice della cultura italiana. Lo è stato nei confronti non solo dell'America, ma in generale di ciò che di vivo ribolliva nella cultura di massa: dai comics al crime, al calcio, alla pubblicità.
Oreste del Buono e Pier Paolo Pasolini in tv.
Ha diretto Linus, ha diretto i Gialli Mondadori, ha diretto quasi tutto, sempre andandosene, dopo un po', sbattendo la porta. Riusciva a dirigere un' importante testata della Mondadori la mattina e un'altra di Rizzoli il pomeriggio, sempre insoddisfatto degli interlocutori ma a suo modo paziente verso le meschinità e le rozzezze altrui. Ma quando sbottava, sbatteva la porta. Aveva una pazienza ad orologeria. E così è andato avanti per tanti anni: a scrivere (bei) libri, a sbottare e a sbattere la porta. Tutti sono diventati suoi amici, molti sono poi diventati suoi nemici, e alla fine tutti quelli che lo conoscevano l'hanno pianto.
Il numero in edicola di Linus
con il ricordo di OdB.
Un giorno, mentre mi accompagnava in macchina non so dove (ero appena stato a visitare le sue redazioni, Linus e le sue girl dai Rizzoli e i Gialli Mondadori sopra le carpe di Segrate) ci trovammo a parlare di un film grandioso e misconosciuto di Spielberg: 1941. (Se vi capita, recuperatelo, scaricatelo, comperatelo: è uno dei flop più meravigliosamente geniali mai concepiti). 1941 narra a suo modo la paura americana di uno sbarco giapponese sulla costa occidentale, durante la seconda guerra mondiale. A un certo punto OdB mi disse: "Vedi, è come se noi italiani avessimo fatto un film comico sulla Resistenza. Noi non lo potremmo fare. Loro l'hanno fatto". E' per questo che quel vecchio comunista di OdB amava tanto l'America.

Non so se infrango qualche diritto, ma mi sembra giusto riproporvi la più formidabile tavola rotonda che io abbia mai letto: quella sui fumetti e Charlie Brown tra Umberto Eco, Oreste del Buono e Elio Vittorini.  Era l'apertura del primo numero di Linus, nel 1965. Quasi cinquant'anni fa. Quella lettura cambiò la mia vita, e facevo la quinta elementare. "Charlie Brown sono io", raccontava OdB a Eco. Com'eravamo moderni, Oreste.

Charlie Brown e i fumetti
Umberto Eco intervista Elio Vittorini e Oreste Del Buono


(da Linus, n.1, maggio 1965, pp.1-2)

Eco
Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente fri­vola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai conosciuto Charlie Brown?

Vittorini
Io mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occu­pavo anche ai tempi di “Politecni­co” e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti ame­ricani parlandone non soltanto sot­to il profilo sociologico, come suc­cede di solito, ma anche sotto il profilo storico

Eco
Di che cosa avete parlato a quel­l'epoca?

Del Buono
Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.

Vittorini
Sì, avevamo anche cercato di ser­virci dei fumetti come mezzo di di­vulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno “spirito di fumetto” c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il Politecnico dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubbli­cazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su Poli­tecnico ne riportammo due o tre.

Eco
E Charlie Brown?

Vittorini
Charlie Brown è venuto per un ac­cidente. Io mi facevo mandare dal­l'America, da amici che ho lì, i sup­plementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giu­sta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mon­dadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato “forze di libera­zione". Incuriosito, me lo sono fat­to dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.

                                                                                                   
Eco
Il primo numero di Linus, direttore Giovanni Gandini.

Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?

Vittorini
Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza anda­re nel difficile. io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.

EcoAllora secondo te è più artista Schulz?

Vlttorini
Certamente. Salinger, resta, se vo­gliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, ri­mane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio “hard-boiled”, soddisfa meglio cer­te esigenze di impegno). Salinger è un “patetico” che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il “ signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo ma­turo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.

Eco
E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?

Del Buono
Io sono un convertito a Charlie Brown, All'inizio non mi piaceva affatto, Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avven­turoso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo pun­to è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono as­solutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Char­lie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua, Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto co­me diagnosi, prognosi ed esorci­smo.

Vittorini
E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quel­lo che dice Del Buono: lui denun­cia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Char­lie Brown. Il primo contatto in ef­fetti non soddisfa; una singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella quan­tità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' co­me le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e una variabile l'altra, si ha allora un "continuo” che approfondisce non solo numericamente il signifi­cato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.

Eco
Questo mi pare importante perché molte volte quando si cerca di spie­gare a qualcuno, che non è abitua­to ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti, questo qual­cuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di ro­manzo, una pagina letteraria. Leg­ge un brano isolato, due o tre pa­gine e non vi trova effettivamente nulla, Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente, bi­sogna tener conto proprio della lo­ro tecnica di distribuzione e di consumo, così come certe epiche po­polari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio attraverso il ripe­tersi delle avventure. È quindi im­possibile giudicare il fumetto con i criteri che si applicano alla lette­ratura normale. Questo non signi­fica che il fumetto non possa esse­re un prodotto letterario: solo che esso va giudicato in un “sistema” di lettura (e quindi anche di crea­zione) diverso.

Vittorini
Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di “scatto di totalità”. Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità espressi­va, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non ab­biamo che la vignetta, una vecchis­sima conoscenza giornalistica, co­stituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un corpo solo quel­lo che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplica­zione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento della successione tem­porale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbia­no la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l'insieme riducendo le figure a non ave­re che dei compiti stereotipi, di de­scrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pitto­grafici. È questo terzo elemento che fa della strip un'unità espressi­va, perché rende puramente para­digmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'inter­no del proprio decorso) l'elabora­zione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire prege­vole lo riuscirà solo a livello di mas­sima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è pre­caria, può essere banalissima o co­munque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rappor­ti, gli oggetti in essa trattati ritor­nino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momen­to e aspetto su aspetto, perché noi si possa entrare nel merito qualita­tivo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato "scatto di totalità", cioè si è for­mato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il sen­so di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...

Eco
E qui viene fuori allora una conclu­sione abbastanza strana: mentre abitualmente i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, gior­no per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono riu­sciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni matti­no: proprio perché sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo cosi acquistano senso.

Del Buono
Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me, da ragazzo, erano stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi insom­ma, visti tutt'insieme nella riedizio­ne odierna entrano in crisi, proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo im­peratore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare, Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari dra­ghi sdentati, eccetera, è una ripe­tizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in luce dalla raccolta delle strisce, una mo­notonia casuale, non una ripresa si­gnificativa.

Eco
La forza di Charlie Brown è che ri­pete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo, qualche elemento fondamentale. Come cer­to jazz ripete con ostinazione una certa frase musicale.
Potremo quindi concludere dicen­do: il buon fumetto è quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra povertà d'invenzione.

venerdì 27 settembre 2013

C'è vita di pomeriggio? L'ansia del politically correct


Un programma di infotainment del pomeriggio su RaiUno.

Sapete cos'è il "colonnino destro"? Nelle versioni online dei quotidiani il colonnino destro è quello in cui si mettono le notizie acchiappa-contatti, quelle che fanno lievitare le visualizzazioni del vostro sito. E così, mentre le due colonne di sinistra ospiteranno una pensosa articolessa sulla crisi di governo, nel colonnino destro riluceranno miss seminude, incidenti spettacolari, gossip reali e Belen.

I programmi di infotainment del pomeriggio sono sempre stati - non solo in Italia - il "colonnino destro" dei canali generalisti. Il pubblico che accende la tv a quell'ora (sempre più anziano e tendenzialmente femminile) chiede l'equivalente tv delle riviste "lette dal parrucchiere".
L'edizione 2013-2014 de La vita in diretta
e il difficile equilibrio tra ascolti e mission del servizio pubblico.

Ogniqualvolta una nuova dirigenza Rai viene chiamata a sistemare i conti e a "dare una svolta in direzione del servizio pubblico" scopre a proprie spese che il primo obiettivo, per quanto sembri incredibile, è molto più raggiungibile del secondo. È successo con la tv dei professori, con la tv di Prodi e anche con la tv post Monti.

Ma qui c'è un equivoco di fondo: l'idea che "servizio pubblico" significhi fare una tv "politically correct", che non dà fastidio a nessuno, composta, pulitina, acqua e sapone, una tv "filo di perle". Una tv di cui, sostanzialmente, non frega niente a chicchessia. Come le ragazze carine e dimesse che un tempo facevano tappezzeria alle feste.

Questa storia del politically correct fa parte di una koinè sempre più diffusa nel nostra Paese (in America il tema aveva sbomballato una quindicina di anni fa), ed è quella che anima, ad esempio, gli afflati etici del Presidente della Camera. Verso la quale si è sempre combattuti (almeno, così capita a me) tra un'istintiva simpatia e un certo imbarazzo per gli accenti spesso moralistici di alcuni suoi interventi.
Pomeriggio 5, condotto da Barbara D'Urso su Canale 5.

Comunque: se il problema è Belen, o il matrimonio della Marini, ci si può legittimamente chiedere "ma la tv pubblica deve occuparsi di queste cose?". La risposta, però, non è semplice come sembra. Quando ci si limita ad un po' ipocrita "no" si finisce per assomigliare a quelle mamme che, se il pupo non mangia, gli ribattono "guarda che in Africa i bambini muoiono di fame".

Ovviamente il fatto che il pupo italiano mangi o no non cambierà nulla nelle disponibilità alimentari dei bambini dell'Africa. Allo stesso modo, che lo vogliamo o no, a quell'ora del giorno il pubblico vorrà comunque sapere (dal servizio pubblico, o da Mediaset, o da chi c'è c'è) dei processi di cronaca nera e dei matrimoni vip, com'era d'altronde già ai tempi del feuilleton e dei Misteri di Parigi, o dei rotocalchi di massa nella seconda metà del ventesimo secolo.

E allora? Allora il problema non è se di questi temi (temi che interessano il pubblico che occupa la tv in quelle fasce orarie) si debba parlare o no, ma di come se ne debba parlare. Imponendo uno stile, un formato, una tridimensionalità ai problemi e alle storie personali. Non escludendo ma includendo. Con un linguaggio fresco, fatto più di buona televisione che di freddezza da telegiornale.

Intendiamoci: abbiamo assistito tante volte in passato a cadute di gusto, di stile, ad una cinica rincorsa al sentimentalismo, alla truculenza, ai mezzucci più bassi per "fare ascolto" (che, tra l'altro, non sempre funzionano). Ed è giusto che una tv pubblica fornisca uno standard più dignitoso. 

Il che magari non significa fare un programma più "carino": in certi casi può significare fare un programma più cattivo, meno corrivo con i potenti, indisponibile alle marchette ma comunque curioso di tutti gli aspetti della vita. Per non dover dire, qualche mese dopo, "e va bene, rimettete il colonnino destro".

lunedì 23 settembre 2013

Cosa ho imparato dalla BlogFest


Un momento della premiazione ai Blog Awards 2013 (foto: Alessio Jacona).

Caro Diario, 

ho partecipato alla tre giorni della BlogFest, organizzata a Rimini da quella specie di infaticabile folletto che è Gianluca Neri. Ci tornerò su, ma per ora volevo appuntarmi quello che ho imparato:

Il Roma Web Fest.
1. Sul web italiano c’è un giacimento di creatività e anche di professionalità che alligna in Rete ma lambisce soltanto il corpaccione della comunicazione tradizionale (galassia Gutenberg e paleo-televisione, per capirci). Si tratta di una realtà che è invece tenuta sott’occhio dagli editori e dagli operatori del mercato (televisivo, pubblicitario e non) più accorti e più capaci di intercettare il nuovo. (Questi sagaci fiutatori di giacimenti sono, com’è ovvio, una minoranza).

Andrea Delogu, madrina de facto
della BlogFest (foto: Alessio Jacona).
2. Parlando anche solo di televisione, tanto per fare un esempio, ci sono gruppi che fanno satira con molta più potenza di fuoco di tanti altri spacconi in giro per gli uffici dei vari broadcaster.

3. La creatività legata ai temi della cucina, dell’alimentazione, ecc. (non parlo solo dei blog, il 50% dei quali è dedicato al food) può essere una risorsa centrale per l’immediato futuro, e quando uno come Farinetti parla del fatto che bisognerebbe partire anche da qui per rilanciare la nostra economia sul mercato mondiale non fa solo esercizio di retorica. Mi sembravano chiacchiere e mi sono sbagliato: questa roba oggi è come la moda negli anni ottanta del secolo scorso.

Un manifesto del Fiction Fest di Roma.
4. Parlando sempre del campo che conosco un po’ meglio, il fatto che tra qualche giorno a Roma ci sia il Roma Web Fest, dedicato al mondo delle web series, e che le istituzioni che organizzano il pressoché contemporaneo Fiction Fest non siano riuscite a coordinare le due iniziative non è una buona cosa. Da dove devono venire i nuovi creativi e anche i nuovi modelli produttivi per rilanciare il mercato della fiction nostrana se non da lì? Errore da non ripetere, secondo il mio modestissimo parere.

5. Il mare di Rimini è pulito.

giovedì 19 settembre 2013

Silvio smarmella

Due video-messaggi (2013 e 1994).
Riporto qui, con qualche integrazione, il mio pezzo sull'Huffington Post di ieri sera.

La libreria è molto più ampia rispetto a quella del set realizzato ad Arcore nel 1994. Le foto di famiglia ci sono ancora, anche se sono cambiate (ai figli si sono aggiunti i nipoti). La luce è più smarmellata, come avrebbe detto Pannofino in una puntata di Boris: una micidiale diffusa che toglie drammaticità e pathos al discorso. È la luce che di solito pretendono le star, quando temono l'affiorare dei segni del tempo sul loro volto.

La libreria (bianca) sarebbe stata bocciata da qualunque esperto di comunicazione (la prima regola per rendere visivamente incisivo un discorso consiste nel rendere il fondo meno luminoso dell'attore, e se possibile leggermente fuori fuoco. Ma con tutta questa luce è impossibile, anche perché a occhio e croce le ottiche e i mezzi di ripresa sono molto tradizionali e lavorano a panfocus). Insomma, il contrario dei video di Obama, abilissimi anche nella costruzione visiva. Eppure dietro la camera doveva esserci Gasparotti, che non è certo uno sprovveduto.

Un discorso tv di Obama (2012).
I costumi sono quelli di 19 anni fa (non escludo che si tratti perfino dello stesso doppiopetto, magari un po' aggiustato dal sarto). I capelli alla Mao Tse Tung sono il punto più debole della mise en scène, ma ci sono imprese tecnicamente complesse anche per i più grandi professionisti.

Il copione è sempre solido e la recitazione, anche se tradizionale, non smentisce il grandissimo mestiere. Ma il format sembra un po' logoro, e così il mood, come quando giri una scena sapendo che, nonostante le promesse, la nuova stagione della serie non è garantita.

Il vecchio leone vuole ancora battersi. E si batterà. Ma nel 1994 interpretava in modo impressionante lo spirito del tempo, mentre oggi sembra rivolgersi ad un target preciso, invecchiato come il protagonista.

mercoledì 18 settembre 2013

Videogames: memo per genitori disperati


Super Mario Galaxy 2 (Nintendo, 2010).

Memo per genitori disperati perché i loro bambini parlano solo di videogiochi e console, gli sfilano di mano iphone e ipad, trasformano il televisore del salotto in monitor per la Wii o l’Xbox o la P3: non riuscirete a fermare il vento con le mani (era questa la citazione?).
Consolatevi con i precedenti:
-vent’anni fa la televisione (“basta abbandonare i bambini davanti alla tv!”)
-quarant’anni fa i fumetti (“basta abbandonare i bambini alla lettura solitaria di questi giornalini diseducativi!”)
Grand Theft Auto 5, appena uscito in tutto il mondo
per Playstation3 e X Box.
Adesso i fumetti contro i quali tuonavano gli editorialisti dei giornali vengono distribuiti come supplementi degli stessi quotidiani, con l'allure di un reperto culturale assimilabile al libro d’arte. Diabolik docet. I vecchi cartoni giapponesi e i telefilm d’antan vengono sviscerati e studiati con la cura che si prestava ai preraffaelliti. E fra dieci anni i codici sorgente di Super Mario saranno l’argomento di dotte disquisizioni tecno-artistico-filologiche.
Diabolik pubblicato dal Corriere  nella
collana 100 anni di fumetto italiano.

Fate una cosa più semplice, cari genitori: stabilite un tempo, una quantità di minuti da dedicare ogni giorno alla condivisione di quell’esperienza con i vostri figli. E magari fategli fare qualche gioco all’aperto, andando a litigare nelle assemblee di condominio che vietano ai bambini l’uso dei cortili (esiste ancora il sostantivo cortile?). E compratevi Grand Theft Auto 5. E’ molto meglio di qualunque film americano e vi permetterà di parlare di qualcosa che interessa anche ai vostri figli. E di dialettizzarne la violenza e il sottotesto ironico.
E non stupitevi se preferiscono il tablet al plasma 50” o se vedono i film sul computer: hanno sostituito il piacere della prossimità a quello della socialità, non gli interessa il “cinema di casa”, perché non gli interessa la sala se non per il 3d. Non gliene frega niente neanche del surround, perché è roba per gente nata nel secolo scorso.
Non vogliono un’interazione sociale, come nella sala del cinema. Vogliono un’interazione social. In cui la condivisione non sia un’opportunità obiettiva, ma una scelta soggettiva o un tasto virtuale da premere ("condividi?"). O due Nintendo da collegare in bluetooth. E' un modo per difendersi.
E quando troverete l’appello allarmato dell’educatore/educatrice contro i videogiochi ecc., ricordatevi che il corso di scherma o di pallavolo o di vela può avere momenti noiosi, ma Super Mario Galaxy 2 no.








sabato 14 settembre 2013

Al cinema con l'iPad?

Al cinema con l'iPad (dal promo Disney per The Little Mermaid).
Disney sta sperimentando l'uso del "second screen" (nel caso specifico, dell'iPad) durante la proiezione dei suoi lungometraggi animati nelle sale cinematografiche. Il test è per ora circoscritto ad un cinema di Los Angeles (El Capitan) ed inizia domani (15 settembre) con proiezioni speciali di The Little Mermaid (La Sirenetta). Gli spettatori (soprattutto i bambini, ovviamente, com'è reso esplicito nel promo che trovate qui) vengono esortati a scaricare una App che consentirà loro di trovare giochi, karaoke e quiz sincronizzati con la proiezione del film.
L'home page della App Disney.
Ma non è solo la Disney a muoversi. Al posto del consueto "per favore, spegnete i vostri telefonini" potremo aspettarci molte sale che nell'immediato futuro, all'inizio della proiezione, chiederanno di accenderli, e magari di puntarli sullo schermo mentre passa un prodotto inserito nel film. Engadget fa l'esempio dell'orologio di James Bond, o dell'esperienza aumentata che può scaturire dalla segnalazione, con un vibracall, durante la proiezione, di indizi aggiuntivi per risolvere il caso, com'è avvenuto con un film olandese, App (vedi trailer). Nel frattempo, per quanto riguarda l'home video, Disney stessa ha realizzato un'App che può interagire in modo sincronizzato durante la visione di un suo blu-ray.
Il second screen del film olandese App (2013).
Per la televisione, naturalmente, il discorso è già molto avanti e gli esperiementi in atto o in preparazione sono molti. E le possibilità, anche molto intriganti, sono tante. Ma la sacralità dell'esperienza cinematografica ecc. ecc.? Il second screen al cinema sarà una bufala come il 3D? O un puro e semplice sistema di baby-sitting durante le proiezioni? Dobbiamo augurarci che fallisca miseramente? O no?

venerdì 13 settembre 2013

Omaggio a Ray Dolby, che cambiò le nostre vite



Ray Dolby.
Ieri è morto Ray Dolby e mi sembra giusto ricordarlo. Perché dalle nostre parti sembra sempre che la tv l’abbiano fatta i commediografi, i giornalisti, i politici, i registi e non anche gli ingegneri. Invece no: la tv l’hanno fatta essenzialmente gli ingegneri. Come Nipkow, Rosing, Baird, Farnsworth, Zworykin, ma anche Alessandro Banfi e tutti gli ingegneri torinesi che costruirono la Rai.
Il Kinescope in azione.
Dolby lavorava alla Ampex, una società californiana fondata nel 1944 da un ingegnere russo, Alex Poniatoff.  Bing Crosby, che all’epoca era la più grande star della radio, dopo  essersi battuto perché venisse realizzato un “magnetofono” americano (il registratore audio a nastro l’avevano inventato i tedeschi e gli americani l’avevano scoperto nel corso della guerra) cominciò a battagliare perché venisse sviluppata una tecnologia per registrare anche il video. All’epoca i programmi televisivi venivano conservati con un sistema rudimentale, il Kinescope, o film recorder (che in Italia venne tradotto con un elegante neologismo latinista, vidigrafo).

Uno dei primi Ampex.
Il vidigrafo consisteva in pratica in una cinepresa a 16mm puntata su un televisore. Tutti i programmi che la Rai ha conservato fino a metà degli sessanta (e molti anche successivi) sono registrati su pellicola via vidigrafo. Ma a Crosby questa tecnologia non bastava. I suoi programmi tv dovevano essere spediti subito da una costa all’altra alle varie emittenti senza perdere di qualità e solo una registrazione magnetica poteva partire subito per l’altra costa senza aspettare i tempi di stampa della pellicola. Così un team di giovanissimi ingegneri (tra cui, preminente, un genietto diciannovenne come Ray Dolby) svilupparono la soluzione: per magnetizzare su un nastro tutta l’informazione necessaria a generare un singolo fotogramma televisivo (enormemente maggiore di quella necessaria a memorizzare un suono) trovarono la soluzione della scansione elicoidale. In pratica, le testine non stavano ferme mentre il nastro (con dentro l’ossido di ferro da magnetizzare) scorreva da una bobina all’altra: giravano anche loro perpendicolarmente (in seguito trasversalmente) al nastro. Così lo spazio fisico per memorizzare l’immagine nell’unità di tempo si moltiplicava. L'Ampex Quadruplex arrivò alla Fiera del NATPE nel 1956, e in Italia un po’ più tardi.
La scansione sul nastro.
Una singola bobina da un'ora, grossa due pollici, era enorme e costava come un mese di stipendio di un tecnico, ed è questa la ragione per cui tanti programmi tv di quell’epoca non sono stati conservati.
Ricordo i primi Ampex della Rai, visti da bambino: erano grandi come un frigorifero e attorno a loro si muovevano silenziosamente ingegneri sempre in camice bianco.
Poi Dolby si mise in proprio e inventò vari sistemi analogici di riduzione del rumore di fondo. Il sistema ottico di incisione del suono (la traccia a lato del fotogramma nella pellicole dei film) produceva un soffio costante.
Ray Dolby e i suoi colleghi attorno al primo Ampex Quadruplex.
Il nastro magnetico soffriva di un problema simile. Dolby pensò di farlo sparire, o perlomeno ridurre, accentuando in registrazione il livello dei suoni deboli per poi comprimerli in fase di ascolto: rendendo così meno udibile il rumore di fondo. Poi proseguì con le sue invenzioni e i Dolby Laboratories, da lui fondati, svilupparono tecnologie per comprimere il suono multicanale, in sala e anche in casa, per l’home video e per le registrazioni digitali. Dolby ebbe la sagacia di chiedere royalties per ogni apparecchio che utilizzasse le sue tecnologie, e così divenne ricchissimo. Che bella storia americana, eh?

giovedì 12 settembre 2013

Paragone, Rey Mysterio e il wrestling politico

Gianluigi Paragone nel promo de La gabbia (La 7).
Dobbiamo essere grati a Gianluigi Paragone. Perché con il suo La gabbia ha realizzato il più ambizioso progetto di reverse engineering della storia dell'informazione televisiva. Se non sapete cos'è la reingegnerizzazione affidatevi a wikipedia, la sostanza comunque è che Paragone -che già su Raidue aveva messo a profitto i meccanismi fondamentali e anche la traiettoria dei principali talk show politici della tv italiana per portarne all'estrema conseguenza la deriva- sulla 7 ha potuto finalmente realizzare l'opera. Ha preso tutti i componenti strategici del talk alla Santoro (l'antipolitica, lo studio "cattivo", perfino i tools come la Santanchè e Travaglio) e li ha utilizzati per passare dalla lotta libera al catch. Finalmente abbiamo il wrestling politico-televisivo. Seguendo logicamente questo percorso gli ospiti di Paragone, già nell'immediato futuro, potranno indossare rilucenti abiti di scena (l'Uomo-molla, la Pitonessa, il Coguaro, Super-invisibile ecc.).
Rey Mysterio nel magistrale 619.
La sospensione d'incredulità, il principio su cui si basa il wrestling, grazie a Paragone è stata applicata al talk politico. Allo stesso modo in cui lo spettatore tipo degli incontri di wrestling si diverte pur sapendo benissimo che un lottatore non può essere sbalzato dal ring facendolo volare fino alla quinta fila della platea, il telespettatore di Paragone e della Gabbia (nomen omen) accetta con gusto la finzione dello scontro Travaglio-Santanchè e se ne abbevera, giudicando poi le rispettive prestazioni dei due campioni con un metro di misura che c'entra con la politica come le prodezze di Edge o Rey Mysterio c'entrano con lo sport. 
Nel suo abile nichilismo (il ragazzo è bravo, eh) Paragone raffigura plasticamente il punto d'arrivo di un modello che non produce più senso: il talk politico. Un genere che si rattrappirebbe d'incanto nel momento in cui il più grande di tutti i wrestler della politica italiana si ritirasse - per sua scelta o per costrizione - dall'arena.

mercoledì 11 settembre 2013

La guerra dei talk politici ieri in tv: vincitori e vinti


Luca Telese, da la7 a Canale 5 con Matrix.

L’alluvione di politica sotto forma di talk show continua ad imperversare sulla televisione italiana. E poiché le puntate sono per ora monotematiche (gli argomenti iniziano con B- e finiscono con –oni) è interessante guardare più da vicino i dati.
Si scopre (almeno questa è la prima impressione) che:
1. Quando c’è già la politica dalle altre parti, l’offerta della 7 soffre (poco più dell’1% per il film “La donna di paglia”, neanche l’1% per Night Desk, arrivato fuori tempo massimo, quando già tutti avevano sminuzzato la polpetta che inizia con S- e finisce con –oni).
2. Ballarò rimane il motore immobile della politica italiana in tv. Stavolta fa il 13% solo perché su Raiuno c’era la partitona (in parte, lo stesso pubblico), ma appena la partita finisce schizza fino al 21%.
3. Porta a porta tiene botta (circa il 12%) ma sale solo dopo che è finito Ballarò. Temi già bruciati, Vespa come sempre è un ottimo passista ma la serata è durissima.
Ballarò è sempre leader, nonostante la partita.
4. Matrix con Telese. Meno del 7%, non credo si aspettassero molto di più contro Ballarò (che è andato un po’ più lungo, magari non per caso) e Vespa. Comunque la curva è in salita, quasi sincronizzata con il lento scioglimento di Telese, che all’inizio era molto rigido. Non so se Telese abbia sciolto anche la diffidenza del pubblico Raitre/la7 verso un talk che va in onda su Mediaset, anche se ieri sera ci ha provato. Per ora il target è quello dello zoccolo di Canale 5: più donne che uomini, un pubblico con un baricentro più giovane rispetto a quello degli altri talk sulle reti Rai e di Cairo, pochini i  laureati. Per il futuro vedremo.
Schifani e Latorre a Porta a porta.

Come andrà a finire? Avranno fortuna le variazioni sul tema (Zoro sta per arrivare e, anche se a dosi massicce, verrà apprezzato perché in questi mesi “caldi” svilupperà un racconto con modalità diverse rispetto al talk tradizionale). In generale, si sente una certa insofferenza verso la formula del talk con politici. Appena ci si sposta ad indagare nella società (come fanno Iacona e Report, ma non solo loro) sembra di avvertire un refolo di aria fresca. Questo non significa che i talk non faranno ascolto, almeno finché il derby della vita della più grande star italiana non finirà in un modo o nell’altro. Finche Lui rimane sulla breccia, è sempre star system.

martedì 10 settembre 2013

"La tv la guardo sul computer, il giorno dopo"


Girls, seconda stagione: è diminuito il pubblico di primo passaggio ed
aumentato quello che rivede il programma registrato o sulle piattaforme digitali.

Se lavorate in televisione è probabile che incontriate un sacco di gente che vi dice “non guardo la tv”. Non è una novità: sentivo la stessa frase già negli anni ottanta. Ma da un po’ di tempo sono aumentati quelli (soprattutto giovani, con case affittate da poco, ecc.) che aggiungono: in casa la tv non ce l’ho proprio.
Poi uno guarda i dati (e io tendo a credere abbastanza ai dati Auditel, per lo meno a quelli macro) e vede che i telespettatori non sono diminuiti, che i minuti davanti alla tv dell’italiano medio sono perfino aumentati rispetto all’anno scorso.  E allora?
Allora bisogna andare un po’ più a fondo. Quelli che dicono “la tv non ce l’ho proprio” se scavi e scavi aggiungono che “se un programma mi interessa me lo vedo/rivedo sul computer”. Che di solito è un laptop, una specie di coperta di Linus che fa tutt’uno con lo zainetto (per i maschi) e con la borsetta (o borsone) per le donne. Oppure un tablet.
Aumentano progressivamente gli spettatori della tv via laptop.
Gli americani, che sono velocissimi a categorizzare le tendenze, li chiamano da tempo  delayed viewers”. Dave Morgan, CEO di Simulmedia, una società che si occupa di mettere i Big Data al servizio del marketing televisivo, li dipinge così su Broadcasting & Cable: “Gli spettatori delayed tendono a lavorare fuori casa e ad avere bambini in età scolare. Guardano la tv via computer la mattina presto e la sera tardi”.
Uno dei problemi della programmazione televisiva, in questa nuova situazione, è dato dal fatto che se non guardi la tv “di flusso” non incontri neanche i promo che lanciano i nuovi programmi. Per cui nessuno te ne parlerà, e non andrai a cercarteli: a meno che i tuoi amici di facebook o i tuoi follower di twitter non li commentino a ripetizione, suscitando la tua curiosità.
Per una volta bisogna riconoscere che gli strumenti per la visione ritardata della tv in Italia sono abbastanza efficienti (rai.tv e via discorrendo) e guardare il concerto di Jovanotti il giorno dopo non è un problema complesso, anzi. La rilevazione di questo ascolto ritardato, avvenendo tramite IP, salta il campionamento dei meter e può essere calcolata con precisione millimetrica (il che creerà qualche problema, prima o poi, alla privacy, ma commercialmente è un’arma formidabile. Sarebbe ora che entrasse da subito nel computo). Ad esempio, per Jovanotti gli spettatori “ritardati”, perdonate la traduzione leterale, su rai.tv sono stati, finora, circa 160mila.
Jovanotti, oltre 160mila spettatori in più da rai.tv.
Negli Stati Uniti, ovviamente, la questione ha un’evidenza macroscopica: l’audience della prima puntata della seconda serie di Girls è scesa di 300mila spettatori rispetto alla prima dell’anno scorso, ma è aumentato l’ascolto ritardato. Secondo HBO, l’ascolto medio, sommando il primo passaggio sulla rete via cavo, le repliche, quelli che l’hanno vista registrata sui vari Tivo ecc., quelli che l’hanno seguita su HBO on demand e su HBO Go (tablet ecc.) arriva a 4,6 milioni di spettatori. E sempre secondo HBO il 27% dei risultati arrivano proprio da HBO on demand e da HBO Go
 (Fonte: Hollywood Reporter). E’ il dato più alto tra tutti programmi americani di quest’anno e riguarda, non a caso, un serie che ha un target molto generazionale.
Insomma, chi sono questi infedeli del video? Sono quelli che non rientrano nel grande numero dei telespettatori tradizionali (che sono rimasti vicini allo schermo di casa, semplicemente guardano meno di prima i primi sei canali e un po’ di più il resto dell’offerta digitale terrestre e satellitare).
E’ il classico pubblico che “non si conta, ma si pesa”. Popolazione attiva, giovani, trentenni, che vivono soprattutto nelle grandi città, che sono sensibili alle trasformazioni nei modi di consumare, che seguono le serie americane e inglesi, che escono la sera ecc. Insomma, una parte minoritaria della popolazione italiana (siamo un Paese di vecchi) ma centrale per il futuro, e anche per il presente, di questa martoriata nazione. Se fossi un network non li snobberei.

martedì 3 settembre 2013

Perché Lorenzo non ha fatto flop


Lorenzo Cherubini.
Il concerto di Lorenzo Jovanotti (il montaggio della sua tournée, con il titolo Lorenzo negli stadi) ha raccolto su Raiuno circa 3 milioni di spettatori medi. Secondo qualcuno è stato un flop. Ma in realtà flop non è stato. Perché grazie a Lorenzo Cherubini Raiuno ha rotto l'isolamento rispetto a fasce fondamentali della popolazione attiva (raccogliendo il 17% sui ragazzi dai 15 e i 24 anni, ad esempio, e oltre il 17% tra i laureati. A cui andranno aggiunti tutti quelli che vedranno il programma grazie a rai.tv, dal loro pc o dal loro tablet).
Tutto bene allora? Per moltissimi spettatori di Raiuno l'esperienza, anche solo l'esperienza visiva, delle due ore di Jovanotti sarà stato una specie di shock culturale. In pochi istanti lo zoccolo di Raiuno è passato da un linguaggio televisivo tradizionale, che non ha avuto particolari evoluzioni rispetto alla memoria degli anni ottanta, all'alfabeto post-televisivo proprio della generazione che fruisce il video principalmente sul computer. Da una narrazione tradizionale, spesso basata sulla mistica della diretta (una mistica molto latina e quasi sconosciuta in gran parte del mondo) ad un racconto pieno di ellissi, non solo visive. 
Forse il mix audio, che sembrava più adatto ad un impianto stereo che agli orrendi altoparlantini degli odierni televisori, non avrà sempre aiutato (non accentuava la gamma sonora più adatta a creare emozione su diffusori da poco prezzo). E forse la strepitosa esperienza visiva che Lorenzo e il gruppo dei Ragazzi della prateria sanno creare durante i concerti grazie alle kinect e ad altre tecnologie non ha lo stesso impatto quando la segui in un video, tra l'altro ovviamente ed esplicitamente post-prodotto. E forse si potevano rendere più narrative le due ore di cammino con Lorenzo e l'emozione on the road del suo tour.
Ma il punto vero è se un canale family come Raiuno debba o non debba allargare il suo uditorio anche a quel pubblico centrale, quello che "si pesa" e non solo "si conta", che da tempo se ne è abbastanza distaccato. Sapendo bene che rinnovare il patto con quel pubblico non significa per Raiuno solo lanciare segnali in occasioni specifiche, ma anche rinnovare complessivamente, anche se cautamente, il suo linguaggio.
Si avvicina l'anniversario del 60 anni della tv italiana: quando la Rai mandò in onda Lascia o raddoppia, 58 anni fa, tre quarti degli italiani parlavano in dialetto e seguivano a fatica la lingua nazionale. La Rai non mandò in onda 20 programmi in 20 dialetti diversi, preferì spostare in avanti l'asticella. E fece del bene all'Italia. Prima o poi bisognerà ricominciare.