giovedì 30 agosto 2012

Mediaset e il paradigma Minzo


Augusto Minzolini e Silvio Berlusconi.
Immaginate che ci sia un'azienda televisiva privata che sta facendo i conti con il proprio futuro. Deve rinnovare la sua offerta, deve razionalizzare i costi (troppe redazioni giornalistiche sono un costo insostenibile) e deve cominciare a sganciarsi dall'immagine troppo schiacciata sul suo Fondatore, soprattutto sapendo che tra qualche mese, a meno di imprevedibili rivolgimenti (e nel suo caso, mai dire mai) il partito del Fondatore, comunque si chiami, sarà all'opposizione.
Che cosa faranno i manager di quell'azienda (chiamiamola Mediaset)?
Cercheranno, muovendosi felpati come gatti soriani, di rimescolare le carte, accorpando testate, abbassando i toni degli “ultimi giapponesi”, magari facendo qualche acquisto sul mercato di conduttori e giornalisti non assimilabili al berlusconismo d'antan
Laura Berlinguer:
in forza a Tgcom24.
 
Nel bel mezzo di questa danza alla Pina Bausch, di questo recitar danzando in slow motion, chi ti capita? Il Fondatore stesso, il quale, secondo alcuni giornali (e la voce si fa sempre più insistente) spinge perché sia nominato direttore del Tg4 nientemeno che Minzolini. Che in fatto di ultimi giapponesi potrebbe essere anche nominato Gran Mogol.
Ma come? Si saran detti a Cologno Monzese. Proprio adesso che volevamo accorpare le redazioni risparmiando un sacco di soldi? Proprio adesso che Toti (che non è esattamente uno di sinistra) faceva un tg equilibrato e apprezzato, con benefici anche per l'immagine di Rete4? Proprio adesso che con Tgcom24 avevamo cominciato con qualche successo a fare le all news, dimostrando qua e là velleità informative?
Eh, ma vaglielo a spiegare al Fondatore. Il quale ha ben altre gatte da pelare.
Come finirà questa storia? Ecco una cartina al tornasole molto attendibile per capire il futuro di Mediaset. Fondi pensione, borse, giornalisti economici, aguzzate gli occhi e spalancate le orecchie.

lunedì 27 agosto 2012

Apple contro Samsung, cosa cambia


Un Apple Store.

Il processo Apple contro Samsung è uno spartiacque importante nella storia della concorrenza industriale e tecnologica. Certo, tutta la storia della tecnologia è storia di plagi, di furti e di semi-furti. Ma né Meucci contro Bell, né Farnsworth contro Zworykin avevano puntato sul design e le interfacce per dimostrare il furto di idee. (Tipo: Ehi, Zworykin, il tuo televisore si accende girando un pomello, come il mio, maledetto russo!). Se uno invece ha la pazienza di leggersi le carte del processo Apple v. Samsung e di ascoltare i racconti post-sentenza dei giurati (alcuni dei quali erano ingegneri, visto che la causa si teneva proprio nella Silicon Valley) c'è un cardine definitivo e fondamentale della vicenda: Samsung ha perso perché l'attenzione del dibattimento è stata tutta o quasi sull'interfaccia e il design del prodotto. Sullimmagine del prodotto e sullinterazione con lutilizzatore (finale, of course).
L'llustrazione qui sotto rende tutto molto chiaro:
Smartphone Samsung prima e dopo l'iPhone.
I due prodotti, iPhone e Smartphone Samsung, si somigliano in modo impressionante. A partire dagli spigoli arrotondati e dalle icone quadrate delle App. Gli avvocati di Samsung si sono arrampicati sugli specchi, sostenendo che ormai la GUI, cioé l'interfaccia grafica a touch screeen, dell'iPhone era "uno standard industriale de facto" e quindi non era difendibile come patent, come brevetto. E sono caduti sul pinch-to-zoom, cioè sul gesto ad allargare, fatto con due dita, che oggi è, in base alla legge americana, proprietà di Apple.
Gira già una leggenda metropolitana (me lha raccontata Riccardo Meggiato) secondo la quale i diabolici avvocati di Infinite Loop hanno sfidato le loro controparti della Samsung (uno studio legale coreano-americano, chissà se è stata una grande idea ingaggiarlo) a distinguere un iPhone e un Galaxy a 5 metri di distanza. E secondo la stessa chiacchiera (non confermata) gli avvocati di Samsung non ci sarebbero riusciti.
Il nuovo Samsung Store di Sydney. L'ambiente ricorda gli store Apple.
Il fatto che sia il design (che poi è anche la GUI, la graphical interface! Cioé l’interfaccia tra l’uomo e il device) l'elemento considerato distintivo e da tutelare è il vero punto della questione. D'altronde il successo di Apple deriva proprio dall'idea base di Jobs, che non si laureò (come milioni di persone gli hanno sentito raccontare nella suo celeberrimo speech all'Università di Stanford) ma seguì un corso di calligraphy, di grafica applicata all'uso dei caratteri tIpografici. Insomma, il genio di Jobs, comunque lo si giudichi, sta nel fatto di avere compreso che il design è il linguaggio e che i device informatici (computer, tablet, cellulari intelligenti) si distinguono non tanto per la loro potenza di calcolo ma per la gradevolezza e immediatezza dellinterazione che riescono a creare con lutilizzatore (oltre che per la stabilità di sistema che riescono a garantire).
Philo Farnsworth.
E la Samsung? La Samsung e Google sono gli unici veri competitor mondiali di Apple. Samsung ha realizzato nell'ultimo decennio ottimi prodotti. Ha stracciato la concorrenza nel mercato dei televisori, mettendo fuori mercato Philips e stringendo allangolo Sony: perché ha fatto un gran lavoro sul design, sull'integrazione tecnologica, proponendo buoni prodotti a prezzo competitivo. E oggi lancia una linea di nuovi televisori che tentano di precorrere le novità tecnologiche dei più volte annunciati prossimi tv Apple, primo fa tutti il controllo a comando vocale.
Ma sul mercato decisivo del "mobile", che i device Apple hanno radicalmente cambiato, l'unica strada per essere competitivi devessere sembrata ai manager di Samsung quella di mettersi sul solco delliPhone. E in effetti, commercialmente quella rischiosa scelta ha pagato.
I nuovi Smart Tv di Samsung.
Ma i device mobili della Apple hanno trasformato il mercato, hanno fatto conoscere internet come strumento quotidiano a centinaia di milioni di persone, hanno praticamente distrutto il web e i social network così come li conoscevamo, stanno determinando la crescita di twitter e la crisi di facebook, stanno facendo sudare freddo le telecom... E come giocare col fuoco. E se un po' di affari sul mercato dei contenuti andranno in porto, Apple potrà far evolvere il suo ecosistema chiuso comprendendo anche la tv del salotto. 
Certo, Samsung è l'unica che può battere o perlomeno confrontarsi con Apple. Dopotutto è anche tra i suoi maggiori fornitori di spare parts, e pare che pagherà una parte del miliardo di dollari deciso dal tribunale californiano in sconti sulle sue forniture di componenti al partner/competitor/nemico. Miracoli del capitalismo.
Laltro competitor da non sottovalutare è Amazon, di cui si attende il nuovo Kindle Fire e forse anche uno smartphone. Ma tutte queste previsioni oggi sono legate alla risposta alla seguente domanda: quanti elementi delle interfacce Android dovranno essere rivisti dopo la sentenza californiana? O peggio, quanto dovranno pagare le aziende che utilizzano Android in royalties per gli elementi che la sentenza americana ha considerato patent infringement? Intanto Apple si prepara alla presentazione in pompa magna delliPhone 5 e del nuovo iPad Mini.

P.S. La giuria americana ha punito duramente il piglio corsaro dei coreani. Ma Samsung ha ancora molto da dire sul mercato mondiale, e la battaglia è tutta aperta. E' una battaglia, per inciso, che ha già lasciato sul campo dei sicuri sconfitti. Che non sono né Apple, ovviamente, né Samsung.
Gli sconfitti a livello planetario sono i manager cresciuti a botte di business school anni '90, che si sono dimostrati totalmente impreparati ad una nuova fase aggressiva di competizione in cui le regolette imparate nelle università più prestigiose valgono poco. Stay hungry, stay foolish. E stai in campana. Ci vuole una visione e una
ingenuity. Gli schemi ossificati del management, ormai, non portano più a niente, parlano di un'altra epoca.

Update: Su questo tema ieri è uscito un articolo molto interessante sull'Economist.

domenica 26 agosto 2012

L'ultima madeleine: la notte della luna


Neil Armstrong mette piede sulla luna (luglio 1969).

Domani parleremo del processo Apple-Samsung, che a suo modo è il processo del decennio. Ma sono obbligato ad un'ultima madeleine.

L’ultima madeleine dell’estate è obiettivamente triste. Neil Armstrong è morto. Ma il primo uomo sulla luna, per noi italiani, rimane Tito Stagno. Invitai Stagno ad un programma di Raiuno quattro anni fa, nel quarantesimo anniversario della notte della luna. Per farlo dovetti battermi, i colleghi dell’Endemol mi dicevano “ma a chi frega più qualcosa della notte della luna”? E il pezzo con Stagno fu pesantemente tagliato. 
Neil Armstrong.
Con molta sincerità, Stagno raccontava che buona parte della sua telecronaca era stata, diciamo così, creativa: la traduzione simultanea che gli arrivava in cuffia era abbastanza imprecisa, e la fantasia italica prendeva talora il sopravvento. Si parlò per decenni del contrasto in diretta tra lui e Ruggero Orlando, mitico inviato a Houston, per stabilire chi dei due avesse dato al momento giusto la notizia dell’allunaggio (Stagno anticipò Orlando di una mezza minutata).
Tito Stagno.
In realtà, facendo un esperimento molto semplice (e cioé mettendo al passo la telecronaca italiana di Stagno, Barbato, Piero Forcella e professor Medi, e quella americana della CBS, condotta da un solitario Walter Cronkite), mi è sembrato che nessuno dei due (né Stagno né Orlando) avesse colto davvero il momento esatto dell’impatto del Lem con la superficie della luna. Ma chissà, il viaggio verso la luna appartiene sempre più alla materia di cui sono fatti i sogni.
Eppure i tre astronauti americani, Armstrong in primis, non erano personaggi mediaticamente  affascinanti. Erano tre eroi, ma soprattutto tre professionisti. Anche la storica frase (“A giant leap”, un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per la storia dell’umanità) parrebbe scritta e suggerita in anticipo da qualche writer della Nasa.
La notte della luna organizzata dalla Rai fu invece il programma più bello del decennio, e forse di tutta la storia della televisione italiana. Era completo, ricco, elegante, modernissimo per i tempi, intelligente, e dimostrava anche una notevole padronanza tecnologica. In un filmato d’epoca si vede la regia (la piccola regia dello studio 3 di Via Teulada, a Roma, affollata di teste pensanti, tra cui Aldo Falivena, Ezio Zefferi e Biagio Agnes).

Walter Cronkite.
Fu una grande operazione televisiva (25 ore previste, no-stop, che poi diventarono 28, tre studi), piena di idee, di modulazioni, di innovazioni linguistiche.  Se la confrontate con la notte della luna della CBS (ovviamente disponibile in un cofanetto di DVD), quella americana è più puntuale e secca, mentre quella italiana è un fantastico racconto verniano, e vince il confronto con l’ equivalente delle tv di altri Paesi. L’introduzione di Andrea Barbato, alle sette di sera del 19 luglio 1969, vale da sola un immaginario Emmy.
Neil Armstrong è morto. Molti di coloro che pensarono e realizzarono quella notte (e magari si divertirono a realizzarla) non ci sono più. E lo spirito di quella Rai? Speriamo che un giorno torni dal cielo.

giovedì 23 agosto 2012

Agenda digitale: sveglia ragazzi



Agenda digitale: siamo ancora indietro, e c'è il rischio che finisca in gran chiacchiere. Ma chiariamo una volta per tutte: banda larga e informatizzazione della burocrazia sono oggi l'equivalente di quello che un secolo e mezzo fa è stata la costruzione delle ferrovie e cinquant'anni fa la realizzazione delle autostrade. Anche loro hanno subìto, all'epoca, il controcanto dei problemaltristi e dei populisti (quelli che "sono altri i problemi degli italiani"). [Mi ha sempre fatto ridere la storia della polemica contro la costruzione del raccordo anulare a Roma, combattuto, ai tempi, con l'argomentazione che "il popolo ha bisogno d'altro"].
Stessa cosa per le start-up. Parliamoci chiaro, oggi come ieri in questo Paese avere un'idea imprenditoriale e cercare di realizzarla è impresa da pazzi, da sognatori o da ammanigliati (solo gli ultimi ce la fanno, di solito. E non è che abbiano le idee migliori). 
Lo stato delle ferrovie italiane nel 1861. Ricorda qualcosa?

Comunque, su tutte svetta la questione del digital divide. Non è pensabile avere mezzo Paese dove internet è una caricatura: 3G finto (quante balle dai provider, Telecom compresa), wifi che distribuisce -quando c'è- a centinaia di utenti una connessione già lentissima, rendendola praticamente inservibile per tutte le applicazioni che non siano le email (in entrata!) e i siti solo testo. 
Ma se Amazon e Yoox funzionano è perché hanno un sito efficientissimo e in 48 ore reali fanno arrivare il tuo acquisto dovunque. Quante aziende del sud (ma non solo del sud) possono trovare nel loro territorio un'infrastruttura così efficiente? O davvero pensiamo che fra 10 anni la maggior parte della gente comprerà i vestiti nelle boutiques e nei negozietti? E, ahimé, i libri nelle librerie? Per non parlare dello storaggio in cloud. E' evidente che sta per diventare lo standard obbligato per le aziende e i professionisti. E anche un gran risparmio. Ma senza un efficiente backbone, cosa te ne fai del cloud?
Ecco, questo è un terreno nel quale Monti, Passera & c. possono dimostrare se sono davvero un governo e non solo degli onesti curatori fallimentari. 

lunedì 20 agosto 2012

Quando Quelli che il calcio erano pochi



Fabio Fazio con Peter Van Wood e Idris.
Ripropongo qui, nell'ottica del riciclo intelligente, l'articolo pubblicato sull'ultimo Venerdì di Repubblica.


All'inizio era per pochi. A quei tempi Fazio faceva ancora l’imitatore e la Ventura lavorava alla Domenica sportiva. Quelli che il calcio, durante la Prima Repubblica, andava già in scena ogni domenica pomeriggio, ma per un ristretto circolo di privilegiati.  Per seguirlo dovevi essere un apparatchik della politica. Sì, perché alle due del pomeriggio del dì di festa le sedi della Rai si aprivano ad un selezionato gruppetto di ministri e deputati ed offrivano loro il frutto proibito: la possibilità di seguire le partite in diretta. Dagli stadi arrivavano le immagini degli incontri di campionato. Che non venivano trasmesse, ma registrate per realizzare Novantesimo minuto. Le cronache narrano un episodio avvenuto alla guardiola del Centro di produzione tv di Napoli, dove un ignaro vigilante si vide arrivare Cirino Pomicino e un big del Psi pronti a seguire le prodezze di Maradona. Non avendoli fatti entrare, passò i suoi guai.
Forse anche per questo intollerabile privilegio cadde la Prima Repubblica. E con la Seconda arrivò, inizialmente su Raitre, il programma di Fabio Fazio (e di Paolo Beldì, di Buno Voglino, di Marino Bartoletti). Non è che si vedessero i gol: però si vedevano altri happy few (dello spettacolo: la mutazione del potere era già avvenuta) mentre si deliziavano a gustare i gol che noi comuni mortali non potevano seguire.
C’erano già stati dei precedenti, ovviamente. Le tv locali già da tempo campavano aggiornando in tempo reale l’ipotetica schedina del totocalcio (ancora non esistevano anticipi e posticipi, la giornata di campionato si bruciava in due entusiasmanti orette).
Victoria Cabello.
Ma Quelli che il calcio ebbe, onestamente, una marcia in più. Spesso si irride il buonismo di Fabio Fazio, ma in realtà la sua tv è abbondantemente intrisa di ironia. E di quello che oggi chiamiamo il gusto del cult. Due carte (la capacità di giocare con le nostre comuni debolezze in quanto telespettatori, ma anche di farlo in modo esplicito) che assicurano al fazismo un posto nella tv intelligente.
Il passaggio di mano alla Ventura non disperse del tutto la cifra iniziale. Idris, Suor Paola e Peter Van Wood furono sostituiti da comici e imitatori professionisti, come Maurizio Crozza, Max Giusti e Lucia Ocone. Nel frattempo però, lo spazio del calcio, lentamente, implodeva, esposto ai mutevoli contratti tra Rai e Serie A (un anno i diritti li aveva la Rai, una anno Mediaset ecc.). Ma soprattutto, qualcosa stava minando anche la Seconda Repubblica, che aveva in Rai e Mediaset i due capisaldi: Sky, con le partite integrali.  Adesso la Cabello (da difendere con le unghie e con i denti) dovrà vedersela con una stagione in cui la Rai non ha i diritti delle partite durante il pomeriggio. Il calcio nazional-popolare, lentamente, è evaporato. E si è trasferito sui millanta canali del satellite e di Sky Go. 
E dài, proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno: abbiamo dovuto abbattere due Repubbliche, ma almeno non occorre più essere ministri per vedere la squadra del cuore in diretta.

sabato 18 agosto 2012

Madeleines: Topolino, Don Camillo e Zavattini

Miracolo a Milano (1951).

Oggi la cronaca imporrebbe di scrivere del titolo Mediaset, che continua a lievitare aspettando l’emiro. E anche della caduta della raccolta pubblicitaria a giugno e luglio per le tv commerciali, mentre invece si aspettava un “effetto alea” dovuto agli Europei. Ma siamo in vacanza, e sotto l’ombrellone, ecco un’altra madeleine.

Madeleines. Se avete meno di trent’anni, quello che segue è un racconto storico. Se siete in zona  quaranta, è un pezzo della vostra vita.
Volevo farvi sapere che siete tutti un po’ figli di Luzzara, uno dei paesi dell'Emilia colpiti dal terremoto di quest’anno. Lo siete principalmente per un motivo: perché nella vostra formazione è stato fondamentale un signore che si chiamava Cesare Zavattini. Che era nativo di Luzzara, Reggio Emilia.  E che da quel mondo non si è mai veramente staccato.

Cesare Zavattini a Luzzara.
E non solo perché Zavattini ha scritto i film più importanti del nostro dopoguerra (Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D., Miracolo a Milano). Ma per un altro motivo, forse anche più importante.  Perché Zavattini è, assieme a Federico Pedrocchi,  il padre di Topolino, almeno come lo conosciamo noi in Italia.
Nel 1936 Arnoldo Mondadori assunse Zavattini e gli affidò l’incarico di direttore editoriale. Le riviste Mondadori dipendevano da lui.  Anche i fumetti. Anche Topolino. Qualche storia a fumetti la scrisse Zavattini stesso, come la famosa saga di Saturno contro la terra, pubblicata a puntate sul giornale Topolino dal ‘36 al ‘41. O Zorro della metropoli, scritto con Guido Martina, in cui una specie di giustiziere proletario sconvolge una grande fabbrica e riesce a strappare migliori condizioni di vita per i suoi operai (1937, disegnata da Walter Molino).
Nel dopoguerra Mondadori decise di rilanciare Topolino. Il colpo di fortuna arrivò nel 1949, grazie alla nuova rotativa acquistata per stampare Selezione dal Reader’s Digest, che spinse Mondadori a ridurre a formato tascabile anche l’allora mensile disneyano.  Il nuovo formato “libretto” ebbe un enorme successo.  Qualche anno prima Zavattini aveva consigliato a Mondadori di assumere un suo amico, sodale e conterraneo di Luzzara, il grafico e pittore Mario Gentilini.  E Gentilini divenne direttore, per trent’anni, del Topolino “classico”, quello che va dal 1949 al 1980. Quello che ha formato almeno due generazioni di italiane e italiani.
La redazione di Topolino (1966).
Ho fatto in tempo a conoscere la vecchia sede della Mondadori, che era in Via Bianca di Savoia, a due passi dal Naviglio. A un muro di distanza dall’ufficio di mio padre c’era la redazione di Topolino, con Gentilini e il professor Martina. Ma non ci sono mai entrato, forse per un timore reverenziale.  Ogni tanto passavano due signori con il camice bianco da grafico editoriale, erano i “letteristi”. Quelli che scrivevano a mano, col normografo, i testi delle nuvolette.
Ma se ci pensate, il Topolino italiano (mi riferisco alle storie create e disegnate in Italia, cioé circa il 70% di quelle pubblicate dal giornale mondadoriano) non fa che seguire il precetto di base della poetica di Zavattini: il mix di realismo e fantastico. In Miracolo a Milano Zavattini fa volare Totò il buono e suoi amici sopra il Duomo di Milano, ma la base del racconto è la miseria reale degli anni della guerra. Zavattini pubblica una minuziosa rubrica settimanale su un giornale di cinema, “Cronache da Hollywood”, in cui dettaglia feste e amori tra le palme di Los Angeles, ma la scrive da Milano, perché non ha mai messo piede negli Stati Uniti.
Frigo americano e decor italiano (Paperin
meschino, 
di Martina e P.L. De Vita, 1958)

E’ grazie a questo robusto ceppo giornalistico, satirico e insieme fantastico che il Topolino italiano sopravvive al tramonto quasi planetario dei comic books disneyani (negli Stati Uniti non li pubblicano più da oltre un decennio) e la sua scuola (l’Accademia Disney) è ormai la più importante del mondo.
Non sono mai stato a Luzzara, città padana ai confini dell’Oltrepo’ Pavese, novemila abitanti. Però so che ha dato i natali a Cesare Zavattini e Mario Gentilini. E anche a Bruno Fortichiari, uno dei fondatori del Partito comunista. Vi ricordate Peppone e Don Camillo? Li aveva scritti un’altro di quelle parti, Giovannino Guareschi. Distantissimo, politicamente, da Zavattini. Ma, guarda un po’,  anche suo allievo in un convitto di Parma. E in seguito, suo amico. Nelle storie italiane di Topolino e Paperino scritte e disegnate nel dopoguerra c’è questa incredibile crasi tra gli sfondi della provincia americana (staccionate di legno, casette unifamiliari con backyard) e quelli del paesino italiano alla Don Camillo (la chiesetta col campanile, i palazzi intonacati, la scuola, la piazza). Sembrano ambientate tutte a Luzzara (o in mille altri comuni dello stivale).
Anche la vicenda di Topolino ci ricorda che, comunque la pensiamo, apparteniamo ad una memoria condivisa. E che siamo tutti, chi più chi meno, un po’ figli di Luzzara.

giovedì 16 agosto 2012

Madeleines: Linus come bildungsroman

Il primo numero di Linus.

Volevo scrivere un post sul fatto che Mark Thompson, direttore generale uscente della BBC, sia stato nominato direttore generale del New York Times. In pratica, l’opposto di quello che succede di solito dalle nostre parti. Nel mondo anglosassone si ritiene che l’esperienza acquisita nella gestione di un grande broadcaster pubblico e generalista sia fondamentale per trovare nuove strade al publishing nell’era di internet. Poi però ho pensato che oggi è il giorno dopo Ferragosto, che avete sicuramente mangiato troppi dolci e non avete voglia di impegnarvi. E così, ecco un’altra madeleine: stavolta è situata nella notte dei tempi, gli anni sessanta del secolo scorso.

Madeleine. Se mi chiedete su cosa mi sono formato (domanda che potrebbe agevolmente rientrare nel campo d'interessi del Grande Capo Estiqaatsi) vi risponderò che mi sono formato sulla rivista Linus. Non sul primo numero, che ho recuperato in seguito, né sul secondo. Linus costava all'epoca 300 lire e la mia paghetta, anche sommando nonni agiati e nonni meno agiati, si aggirava sulle 500: per ragioni di budget il capitolo di spesa sarebbe stato incongruo, considerando nella spending review l'alto prezzo di 
Il primo supplemento di Linus.
un Camillino Eldorado. Il mio primo acquisto fu un supplemento, uscito a novembre, e dedicato a un grandissimo comic inglese di fantascienza, Jeff Hawke. Il supplemento costava 150 lire ed era più abbordabile. Jeff Hawke è un grandissimo novel di anticipazione, intelligente e pieno di humour britannico.  Secondo me, è da lì che George Lucas rubò simpaticamente l'idea del bar di Star Wars. La storia si chiamava Jeff Hawke contro Il Dominatore, ed era ovviamente un capolavoro. Il villain, protagonista assoluto della storia, era il mariuolo intergalattico Chalcedon. E tu stavi naturalmente dalla sua parte.
Prima e dopo la storia di Sydney Jordan c’erano alcune tavole domenicali di Charlie Brown e di The Wizard of Oz, anch'essi dei capolavori. Ecco, Linus pubblicava solo capolavori. Fu amore a prima vista e anche se facendo la quinta elementare capivo una parola su due, Linus fu il mio romanzo di formazione.
Linus era una sciccheria, era la quintessenza dell'intellighenzia milanese di quegli anni. Lo avevano fondato i coniugi Gandini, titolari  della meravigliosa libreria in via Verdi, la Milano Libri. A dar loro manforte c'era il notaio Cavallone, che si prese l'impegno di tradurre le strisce di Schulz e coniò, per tradurre l'intraducibile marshmallow, il neologismo toffolette. C’era anche l'elegante illustratore Guido Crepax, che avrebbe creato la saga di Valentina. E poi c'era, ovviamente, Oreste del Buono, che più tardi ne divenne direttore. Che bella Milano era quella di Linus. Quanta cultura viva, quanta sprovincializzazione rispetto alla stampa dell'epoca. Basta leggere il dibattito che aprì il primo numero: con Umberto Eco e Elio Vittorini a discutere di fumetti con odb (Oreste Del Buono, naturalmente). D’altronde era una Milano straordinariamente viva e pulsante. Sono stato fortunato a trovare Linus sulla mia strada.
Tra le lettere dei lettori pubblicate da Linus (metà delle quali erano meravigliosamente false) ne ho trovata una di uno studente di Roma. Si chiamava Renato Nicolini. E qui, naturalmente, il cerchio si chiude.

martedì 14 agosto 2012

Madeleines: i tempi dello Squeezoom

Il depliant della Vital che illustrava le meraviglie dello Squeezoom (1980).
Visto che è estate e in vacanza vi piace leggere le madeleine, vi racconterò una storia degli albori della tv commerciale. La storia dell'M50. O meglio, dell'M1, poi diventata M50. L’M1 era la sala di montaggio più importante della Fininvest, ed era il regno di Valerio Lazarov.
Lazarov era un regista rumeno, naturalizzato spagnolo, di cui Berlusconi si invaghì nel 1980 perché lo aveva visto realizzare per la Rai un programma a suo modo abbastanza rivoluzionario, che si chiamava Tilt. La protagonista di Tilt era Stefania Rotolo, una conduttrice e ballerina che sarebbe morta giovanissima, incarnando un mito postumo per i ragazzi degli anni ottanta. La particolarità di Tilt consisteva nel fatto che Lazarov (rubusto, tarchiato, capigliatura da tenore ottocentesco, enormi scarponi e un curioso accento) aveva fatto uso estensivo delle prime tecniche digitali applicate alla televisione. L'apparecchio, chiamiamolo così, era lo Squeezoom, un processore realizzato da un'industria della Florida, la Vital, antenato degli effetti digitali successivi. Fu una rivoluzione così importante per l’immagine televisiva che qualche anno dopo, quando i comunisti decisero di realizzare un rotocalco per le tv "di area", lo chiamarono proprio così, Squeezoom.
Valerio Lazarov.
In pratica lo Squeezoom consisteva in una memoria di quadro che permetteva di modificare in diretta (moltiplicandola, schiacciandola, distorcendola) un'immagine televisiva. Applicato al chromakey (che per un decennio fu il giocattolo preferito dei registi, da Mixer al Tg1) consentiva, ad esempio, di girare un balletto usando un'unica ballerina, moltiplicata come in un gioco di specchi. Ovviamente questo metodo apparentemente risparmioso risultava, all'atto pratico, più costoso del reclutamento di un intero corpo di ballo, perché Lazarov, per realizzarlo, occupava per una settimana intera la sala di montaggio più sofisticata di Milano 2. Appunto, la M1, poi M50.
Era un costoso giocattolo (il processore da solo costava 300 milioni di lire dell’epoca) che però serviva a stupire i visitatori. Enzo Biagi in un memorabile articolo su Berlusconi si soffermò proprio nella descrizione di quella sala, dagli effetti, per l'epoca, mirabolanti. E Lazarov divenne direttore generale di Videotime, la società di produzione tv della Fininvest.
Squeezoom look.
In seguito, passata Videotime nelle mani più razionali di Franco Ricci, la sala venne rinominata M50 e fu ristrutturata sul modello delle più lussuose editing suite americane, con il sopralzo per il producer. Naturalmente noi di Target snobbavamo quell'estetica, che avrebbe inondato la tv di immagini rotanti, sfoglia-pagina e zoomate su titoli inutilmente invadenti e avrebbe avuto la sua epifania negli spot dei mobilieri della Brianza.
Ma all'inizio degli anni ‘90 ci mandarono proprio lì a montare Target. Nel frattempo Lazarov era andato in Spagna a dirigere la Cinco, lo Squeezoom era stato sostituito dall'Ado dell’Ampex e dai costosissimi prodotti della Quantel e la M1 era diventata M50. Per noi borderline era comunque una specie di riconoscimento, come se ci avessero consegnato le chiavi dell'Enterprise. Dall'M50 uscirono fior di montatori che poi divennero bravissimi registi.

Montare all’M50, con un grande mixer, una miriade di monitor e quattro Ampex che facevano girare in sincrono altrettante bobine da un pollice, era un gran divertimento. Finivamo la post-produzione di Target talmente tardi che spesso eravamo costretti a mandarlo in onda direttamente dalla sala di montaggio. Sento già una vocina: “C'era libertà?” Onestamente sì. Magari c'era anche un po' di autocensura, ma neanche tanta. Ci sentivamo nella cutting edge della tv. Più avanti degli altri. Poi tutto cambiò, naturalmente. E io mi ritrovai a Viale Mazzini. Ma come dicono i mediocri narratori, quella è un'altra storia. E non necessariamente più divertente.

domenica 12 agosto 2012

Quanto sono importanti i promo

Il promo dedicato alla giuria di X Factor (Sky, agosto 2012).

Il primo lavoro che ho fatto in televisione è stato quello del promoter. Lavoro molto istruttivo (devi essere un po' copy, un po' regista, un po' grafico, un po' produttore ecc.). Ai tempi nessuno sapeva neanche cosa fosse un promoter e cosa fossero i promo (cioé i filmati autopromozionali). Alla Rai li chiamavano “gli spot” e li facevano ritagliando una sequenza di un film o chiedendo al conduttore di presentare il suo programma in modo cortese e accogliente. Quando arrivai a Retequattro, che all’epoca era di proprietà della famiglia Mondadori-Formenton, scoprii un mondo completamente diverso. La Mondadori aveva avviato una collaborazione con l’americana ABC. Arrivò un vecchio producer americano e ci spiegò che c’erano delle regole di comunicazione per fare dei buoni promo, anzi, come la chiamava lui, un’efficace on-air promotion. Ci lasciò un libro, una specie di vademecum  introvabile in Italia, che riproducemmo clandestinamente come un samizdat e mandammo a memoria. Ci inventammo anche un pay-off: “naturalmente su Retequattro”. I mezzi di Retequattro però erano molto limitati: quando ci arrivò il vhs con una copia della presentazione dei programmi dell’autunno della ABC ci venne quasi un capogiro. Alla Fininvest invece avevano mezzi molto più sofisticati, c’erano lo squeezoom e Valerio Lazarov (ci vorrebbero una dozzina di post solo per spiegare i due concetti), quella che spesso mancava era la voglia di andare oltre l’imbonimento (che è sempre stata l’idea che della pubblicità aveva ed ha tuttora, credo, il fondatore: la comunicazione come fatto più quantitativo che qualitativo).
Di acqua sotto i ponti ne è passata molta, da allora. Ma io continuo a pensare che la salute e la modernità di una televisione (o se volete, di un broadcaster) si misurino molto dallo sforzo che impiega nei promo e nell’impaginazione di rete. E nella creatività che ci mette. Quando ho visto (incuriosito da uno scambio di tweet tra Scrosati e Gori) il promo per la nuova edizione di X Factor, mi sono detto: beh, hanno una marcia in più. Non significa magari niente sull’immediato, ma sicuramente frutterà loro per il futuro. Come i promo della 7, sono più avanti degli altri. E ci mettono sopra anche più soldi. Insomma, distinguono tra investimento per il programma e investimento per la promozione, il che è fondamentale se vuoi imporre un brand. Sì, lo so che c’è gente bravissima che lavora ai promo in Rai e a Mediaset. Ma quanto sono ascoltati dai piani alti? I promo oggi sono più importanti di ieri, perché se sono belli prendono la strada virale e vengono rimbalzati per tutto il web. Dare importanza ai promo significa dare importanza all’aspetto specificamente televisivo del tuo lavoro di broadcaster. In qualche modo, significa anche avere un’idea precisa di quello che è la tua televisione. Il che, di questi tempi, non è poco. E non è da tutti. 

mercoledì 8 agosto 2012

50 sfumature di fantascienza


Sono arrivato al 25% di Cinquanta sfumature di grigio. Farebbe 12 sfumature e mezza. Il mio dovere l’ho fatto. Non so dirvi esattamente la pagina perché con gli e-book è così.  Per capirci: è il punto del libro in cui Christian Grey e la finta tonta iniziano a trombare sul serio. A giudicare dalle descrizioni, non è un brutto romanzo d’amore, è uno scadente romanzo di fantascienza.
Talmente brutto che, anche volendo, lo schemino tipo del corsivista all’italiana (“adesso parlo bene di una cosa di cui tutti stanno parlando male, così mi si nota”) qui non è proprio applicabile. Neppure Rondolino ce la farebbe (anzi, per dirla tutta, come scrittore di sesso se la cava meglio lui).
E allora perché tutto questo successo? Elementare Watson: perché il libro è rivolto ad un pubblico femminile, a una parte decisiva del pubblico femminile di oggi. Consapevole del suo diritto ad una discreta vita sessuale, anche fantasmatica. Quello di Uomini e donne, per capirci. Per cui gli Harmony non bastano più. Dopotutto, internet e i social esistono già da un bel po’. Quindi il serial di E.L. James rivela una certa sapienza di marketing che fa premio sulla sciattezza della scrittura (e anche della traduzione: ragazzi, ma davvero si può tradurre fuck con fottere, nel 2012?).
La colpa di tutto questo è nella scarsa professionalità dell’industria del porno, rimasta senza maestri e senza soldi. Non ha saputo rispondere al nuovo mercato ed ha lasciato praterie a E. L. James. Sono problemi anche questi, diciamo. 

lunedì 6 agosto 2012

Madeleines: Nicolini, l'Estate romana e la tv

Renato Nicolini (1942-2012).

Ho dei ricordi felici ma confusi della grande stagione dell’Estate romana voluta e realizzata da Renato Nicolini, che cambiò Roma, la vita nelle nostre metropoli e anche un po’ la sinistra italiana. Ma poiché molti invece non ne hanno alcun ricordo, perché all’epoca non erano neanche nati, mi permetto di scriverne.
Detto in poche parole, l’Estate romana di Nicolini ci permise in qualche modo di uscire dagli anni di piombo. E anche dalle liturgie della vecchia sinistra, sempre preoccupata di non essere abbastanza seria, abbastanza pedagogica, abbastanza severa con i moti dell’animo.
Il grande cinema alla Basilica di Massenzio (1977).
Al centro dell’estate romana c’era la riscoperta del cinema, del cinema come piacere della visione. Della visione di massa. Del Napoleon di Abel Gance ma anche del cinema hollywoodiano, fino alla riproposizione dei sottogeneri di Cinecittà. Arrivavano anche da noi, lentamente, le riletture dei Cahiers du Cinéma ecc., e l’idea che il cinema non fosse solo impegno ma anche liberazione delle nostre pulsioni. Qualcuno ri-scopriva vecchie tesi sepolte sotto i macigni della cultura marxista, la possibilità di mescolare, come si diceva allora, “cultura alta” e “cultura bassa”. Al fondo, l’idea che la vita non dovesse consistere soltanto in una sconfinata quaresima dominata dall’impegno, ma anche in un salutare carnevale. E che uno dovesse battersi non solo per la giustizia, ma anche, almeno un po’, per la felicità.
Non era estraneo a tutto questo il movimento studentesco del 1977, una svolta storica che ancora non è stata studiata sul serio perché si porta dietro troppi brutti ricordi. Eppure fu lì che i vecchi miti della sinistra iniziarono a sgretolarsi.

Il logo del primo Patalogo (Ubu Libri),
Uno dei motori decisivi di tutto questo sommovimento, stanno ai racconti di chi l’ha vissuto, furono i cineclub. Tempo fa Carlo Freccero mi ha fatto un bellissimo racconto di ciò che furono i cineclub in Liguria: da una parte quello “ufficiale”, in cui si proiettavano i classici del cinema impegnato, con successivo “dibattito” (vedere, sull’argomento, il definitivo capitolo de Il secondo tragico Fantozzi). E dall’altra un pulviscolo di cineclub “alternativi”, in cui –a irrisione della linea ortodossa rappresentata dai cineclub “di partito”- si proponeva una lettura diversa e un diverso cartellone, che da Ozu arrivava fino al poliziottesco italiano.
Franco Quadri.
Ecco, “poliziottesco”, ad esempio, è un’invenzione del Patalogo: un fantasmagorico annuario stilato dalla fine degli anni settanta da un gruppo di giovani intellettuali liguri e delle regioni vicine sotto la protezione di Franco Quadri e Gianni Buttafava. Si chiamavano Carlo Freccero, Enrico Ghezzi, Aldo Grasso, Marco Giusti, Mimmo Lombezzi, Oreste De Fornari, Roberto Turigliatto. Una summa del nuovo e del diverso che iniziò, anno dopo anno, ad occuparsi anche di televisione. E che scoprì la categoria del cult: per il cinema, e in seguito anche per la tv. Uno di loro, Freccero, fu preso da Berlusconi per mettere in ordine la sua library di film. Gli altri presero altre strade. La storia segue vie spesso contorte. Senza l’amore per il cinema non ci sarebbe stata l’Estate romana, e neanche la tv commerciale. Una bella contraddizione, ma le contraddizioni mandano avanti il mondo.

giovedì 2 agosto 2012

Apple e "Sto arrivando!"

La nuova sede di Apple (in costruzione).

Avrete capito veramente la filosofia di Apple solo se vi sarete trovati a litigare con i suoi algoritmi di autocorrezione. Milioni di italiani sono ormai rassegnati allo sciagurato caso in cui una parola inizia con S-a. Potrebbe essere Saluti, Sabato, Sarebbe. Ineluttabilmente, il vostro iPhone scriverà "Sto arrivando!". Col punto esclamativo. Uno può pensare che questo behaviour dipenda da una frettolosa "localizzazione" in italiano del sistema operativo Apple. Invece no. Negli Stati Uniti c'è perfino un sito, DYAC (Damn You Auto Correct, al diavolo l'autocorrezione) per raccogliere i casi più ripetitivi e da mal di testa delle autocorrezioni di iOs. 
Steve Jobs da giovane.
Ecco, "Sto arrivando!" è oggi la filosofia di Apple. La stessa filosofia aziendale che ha portato quelli di Cupertino a mollare progressivamente il mondo dei computer e delle applicazioni professionali (il Mac Pro che non si rinnova da tre anni, Final Cut trasformato in un programma prosumer, l'abolizione della linea dei server ecc.). Non produciamo più computer ma oggetti cool per le masse. 
Intendiamoci, è una scelta, come si dice adesso, vincente. Nella più spaventosa crisi economica dai tempi della seconda guerra mondiale Apple fa i soldi con la pala. In fondo, è l'estremizzazione della scelta iniziale di Jobs: di fronte a un sistema operativo, quello della Microsoft, che solo un nerd poteva padroneggiare e sistemare in caso di guai, il mac si presentava con un'interfaccia semplice, chiara ed elegante. E nel caso di Mac OsX, molto robusta perché basata su Unix. Certo, volutamente limitata. 

La scelta di impedire l’uso di Flash sui dispositivi mobili Apple, voluta esplicitamente da Jobs, lo conferma. Flash fa girare milioni di siti web ma occupa molte risorse, come dicono i tecnici. E in fondo l’iPad è un computer al quale sono state tolte una serie di possibilità e di porte che potrebbero renderlo più versatile ma anche più esposto a guasti di sistema. 

Il punto è: questo paternalismo cool, che ha dalla sua la praticità e il nitore, potrà durare all'infinito? O a un certo punto verrà a noia? Lo scontro con la meno stabile, meno elegante ma più versatile piattaforma Android e il suo portabandiera, Samsung, dimostra che non si tratta solo di uno scontro commerciale ma di due filosofie che si contrappongono. Onestamente, non ho ancora una risposta. Comunque, Sto arrivando!

mercoledì 1 agosto 2012

Il futuro di Mediaset? Riguarda tutti

La torre di trasmissione di Mediaset a Cologno Monzese.

Oggi il titolo Mediaset ha fatto il tonfo in Borsa. Con quella Semestrale c'era da aspettarselo.  Probabilmente c'è dietro anche un segnale preciso dai fondi americani. Erano scontati anche ammiccamenti e strizzatine d'occhio di fronte al moloch berlusconiano pericolante. 
Ma la forte flessione in Borsa del principale gruppo di comunicazione italiano privato può solo preoccupare le persone serie: perché significa mettere in crisi tutto il comparto dell'industria televisiva, il suo indotto, le prospettive dei giovani creativi e dei lavoratori qualificati di quel settore. 
La verità è che non c'è soltanto la crisi, pesantissima, che spinge gli inserzionisti a tagliare gli investimenti pubblicitari. C'è anche un'azienda che ha urgente bisogno di rinnovarsi: nella sua offerta, nel suo rapporto con il pubblico, con la Rete e con la politica. 
Oggi si tocca con mano il dubbio che anche in questo blog abbiamo espresso tante volte: siamo sicuri che gli interessi del Berlusconi politico e dell'azienda che ha fondato non stiano ormai divergendo? Siamo sicuri che in questa situazione il principale gruppo privato italiano di comunicazione non abbia bisogno della libertà di riaprire le vele, di prendere strade nuove, idee nuove, nuovi modelli di gestione e nuovi interlocutori? Non è che a Cologno non si rendano conto della situazione. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo tante cose. (Tra cui, non ultima, la prossima campagna elettorale). 
Mediaset è sostanzialmente un'azienda sana, ma ha sempre corso in rettilineo (nonostante i pit stop dai Palazzi di Giustizia). Ora è il momento delle svolte.