domenica 27 maggio 2012

La tv nella tempesta: perché la Rai non ne discute?

L'Olandese volante.

Chi, per ragioni anagrafiche, ha letto per vent'anni gli studi e le ricerche pubblicati dalla Rai in volumetti editi sotto l'imperscrutabile acronimo VQPT (che stava in realtà per "Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi") non può non rimanere colpito dal fatto che oggi, mentre crisi, digitale e internet scuotono dalle fondamenta il sistema televisivo, non ci sia un adeguato luogo di riflessione sul futuro promosso dalla tv pubblica.
Mentre invece Link, il trimestrale pubblicato dal marketing Mediaset, una rivista con indubbia libertà di espressione (ci scrivono periodicamente molti studiosi, compresi Grasso e Freccero, ma anche molti giovani ricercatori) dimostra se non altro la presenza di uno spazio critico e di una certa consapevolezza del momento dentro le mura della tv commerciale. Questo mese è uscito il numero 11 di Link, dedicato proprio alla crisi (con un titolo significativo, La tempesta).
 Segnalo l'intervento di Carlo Alberto Carnevale Maffé, Sapersi adattare. Che ad onta del titolo sbarazzino è in realtà un ambizioso tentativo di sistematizzazione della crisi attuale. Per molti aspetti stimolante. Le questioni poste da Carnevale Maffé non sono di poco momento e i vettori indicati non sono banali. Vorrei tornarci su in questi giorni, anche perché, se portate alle estreme conseguenze, le sue considerazioni porterebbero a una vistosa riconversione del modello di business della tv privata, nel post-crisi dominato dai giganti di Internet. Per ora però mi limito a dire: ma è possibile che in questa situazione da Viale Mazzini non parta una riflessione di uguale gittata, che vada oltre l'immediato, per domandarsi cosa sarà la tv pubblica italiana dopo i tagli, i ritagli e le frattaglie? Così, tanto per dire, da uno che comunque vuol bene a quel pezzo importante della nostra cultura che è stata la Radiotelevisione italiana.

mercoledì 23 maggio 2012

Minoli, la Rai e la storia



Lo studio de La storia siamo noi.
Gioia Avvantaggiato e l’associazione Doc.it, che raggruppa molti documentaristi italiani, mi hanno inoltrato la preoccupata lettera aperta che hanno inviato a Presidente e Direttore generale della Rai sul futuro della struttura di Giovanni Minoli.
Se devo essere sincero, non ho nessun motivo particolare di gratitudine né di amicizia verso Minoli, né ci avrò mai a che fare sul lavoro.
Ma se andiamo oltre il personale, devo dire onestamente che Minoli è riuscito in questi anni a fare due cose che nessun altro è riuscito a fare alla Rai, e cioè:
-far lavorare con continuità vari gruppi di lavoro di giovani documentaristi italiani;
-realizzare prodotti che hanno sempre mantenuto uno standard alto, non solo per i contenuti ma anche per il linguaggio televisivo.
Giovanni Minoli.
Minoli appartiene  a quella stagione di dirigenti televisivi che hanno sempre avuto un rapporto esplicito con la politica (come Agostino Saccà, ad esempio) ma se hanno usato la politica, è stato, sostanzialmente, per fare televisione. Mentre oggi avviene spesso il contrario. Uno come Minoli è uno che ama il suo lavoro. Poi lo farà con i suoi metri di misura, con i suoi obiettivi e i suoi rapporti di potere ecc. Ma comunque ha il gusto del prodotto televisivo. Se cambi canale e trovi un programma di Minoli (anche se magari non è stricto sensu un programma “di” Minoli ma è un prodotto che è stato richiesto  e approvato dalla sua struttura e realizzato da un documentarista esterno) comunque il brand lo senti e lo vedi: uno stile, un’attenzione a regole televisive che lo rendano paragonabile ai prodotti internazionali che girano per le tv pubbliche d’Europa, una cura anche formale che è ormai raro vedere.
Minoli ha sempre avuto la fissa di avere una factory interna, ha fatto bene a costruirla e spero che non la smontino. Altri, meno fortunati, se la sono dovuta creare fuori dalle mura di un broadcaster. Con tutte le riserve che uno può avere sul modo in cui Minoli ha gestito in questi anni il suo ruolo, credo che ci abbia insegnato (dai tempi di Mixer) che la televisione è innanzitutto prodotto. E che vive prima di tutto di brand: di uno stile, di una coerenza, di una riconoscibilità. D'altronde, anche Report c'è perché l'ha voluto Minoli.
Tanto le dovevo, come direbbe Totò.

martedì 22 maggio 2012

Mediaset: bye bye dtt



Marco Paolini, che è il direttore del marketing strategico di Mediaset e quindi è uno di quelli che a Cologno hanno l’occhio più lungo [no, non è mio parente] ha detto venerdi a Milano in un convegno che il digitale terrestre potrebbe essere già preistoria, mentre il futuro è nella connettività della rete.  Alla salute del mitico Mauro Masi, l'ex direttore generale della Rai che (ve lo ricordate?) rinunciò a 50 milioni di euro di Sky pur di rendere competitivo il famoso dtt. Adesso Masi scrive instant book e chi dirige le aziende fa i conti con la realtà.
Marco Paolini poi ha detto, secondo le agenzie,  che mentre prima il problema per Mediaset era il gruppo Murdoch, adesso le preoccupazioni si chiamano Google, Apple e Facebook.  Il punto, come ha ricordato anche lui, è che con la contrazione del mercato pubblicitario le risorse sono troppo ristrette per far vivere un sistema fatto di sette reti nazionali (di cui tre Mediaset) più un numero molto alto di canali digitali che da esse dipendono.  Quello che non ho capito (ma penso che sia un interrogativo anche a Cologno Monzese)  è quale sarà il nuovo modello di business. Peraltro, in una situazione in cui le future relazioni di Mediaset con la politica potranno comodamente definirsi “complicate”.
Mediaset potrà basarsi sempre e solo sulla pubblicità tradizionale? Con quali soldi si svilupperanno i nuovi prodotti? Cosa noleggerà il pubblico sulle nuove tv connesse, solo partite e serie americane? E in ogni caso, quali saranno i prodotti “premium” che generano valore?  Basterà l’Auditel o c’è da interrogarsi su altri metri di misura (la capacità di fare brand, di imporre prodotti innovativi, la web reputation ecc.)?  La risposta più banale potrebbe essere: “Ma con queste cose e non si mangia”. Ma poiché Marco Paolini non mi pare un uomo banale, so già che questa risposta non sarebbe la sua.

lunedì 21 maggio 2012

Retequattro e il quaderno di Ricotti


Oggi vorrei ricordare Giancarlo Ricotti, che è morto l’altro ieri a Milano. Nessuno storico della televisione sa chi era Giancarlo Ricotti, quindi è giusto che ve lo racconti io. Ricotti era il capo spedizioniere del T.O.C., il centro di coordinamento dell’emissione di Retequattro quando Retequattro era, nel 1983, la tv di Mario Formenton e della famiglia Mondadori. Cioé la tv di Enzo Biagi, di Dynasty, di Dancin’ Days, di Enzo Tortora, di M’ama non m’ama, di Giorgio Bocca e di Costanzo (il Maurizio Costanzo Show nacque proprio su Retequattro).
Retequattro in realtà esisteva grazie a Ricotti, che riusciva a far arrivare in tutta Italia le cassette con i programmi alle tv locali che le avrebbero messe in onda. La sede di lavoro di Ricotti era un capannone a Lavanderie di Segrate, poco distante dal famoso traliccio che costò la vita a Feltrinelli. Tutti i film di cui Retequattro aveva i diritti erano registrati in un apposito database che era il quaderno di Ricotti. Un quadernetto nero sul quale Ricotti aveva appuntato, in sommario ordine alfabetico, quello che si poteva mandare in onda.  Quando saltava un programma si chiamava Ricotti; e se la telefonata non arrivava, certe volte era lui a decidere il film di mezzanotte.
M'ama non m'ama, di Steve Carlin (1983)
Il capannone di Lavanderie era un posto totalmente fuori dal mondo, a pochi passi dalla Provinciale Cassanese. Condivideva gli spazi con altri capannoni della Mondadori, la cui sede era poco distante. Ricordo che un giorno, quando Leonardo Mondadori perse il contratto con la Walt Disney (“ma dove volete che vadano senza di noi?”) e la Disney si mise a stampare Topolino in proprio, tutte le tavole originali dei vecchi giornalini finirono sul marciapiede davanti ai magazzini. Non proprio tutte, qualche anima pia ne rubò qualcuna, per fortuna.
Al civico accanto c’era la sede di Videodelta, alias il centro tecnico di Retequattro. Chi faceva programmi per Retequattro prima o poi doveva litigare con Ricotti. Naturalmente la ragione era di Ricotti, perché i produttori consegnavano i programmi sempre in assoluto ritardo, e lui doveva congegnare delle consegne sempre più complicate nelle tante tv regionali che erano federate al canale della Mondadori.
Chi non ha vissuto quel periodo non può comprendere il complicato impasto di culture aziendali, di sensibilità lombarde, di professionalità operaie che furono al centro dei primi anni dei network privati in Italia.  Qualcosa che aveva molto di più l’odore della fabbrica brianzola che quello dei caffé snob di Milano centro.
Poi arrivò Berlusconi che comprò Retequattro, pressoché in fallimento anche per l’ingenua scelta di puntare tutto su Venti di guerra, un polpettone rosa-militarista, contro gli occhioni di Richard Chamberlain, il pretino di Uccelli di rovo. Mondadori spese quattro miliardi dell’epoca in pubblicità per una linea Maginot che si rivelò una specie di Caporetto. E il centro tecnico operativo di Retequattro diventò l’emissione di Mediaset.  Chissà dov’è finito il quaderno nero di Giancarlo Ricotti. 

sabato 19 maggio 2012

Mai morire di sabato in Italia (2)



E' successo di nuovo. Come per la Costa Concordia. A Brindisi succede qualcosa di sconvolgente, che non era accaduto neanche nel periodo più buio degli anni di piombo, e le tv generaliste italiane (comprese quelle pubbliche) proseguono per tutta la mattina la loro programmazione di talk leggeri e frivolezze varie. La risposta standard in questi casi è: ma ci sono i canali news. Che anche stavolta si sono fatti onore, RaiNews e TgCom24 in testa. Ma non è una risposta convincente. Quando accadono casi come questo, che toccano la sensibilità di un Paese e confermano, contemporaneamente, un pericoloso cambio di passo del clima generale, le reti generaliste hanno il dovere di modificare la loro programmazione. Succede in Inghilterra, succede in Francia, succede anche negli Stati Uniti dove il 95% dei canali sono privati. Non succede il sabato in Italia. Perché è sabato. Perché per i tagli dei costi molte cose che sembrano in diretta e vanno di sabato sono registrate. E perché di sabato la catena decisionale si rallenta. Sono certo che da stasera tutti i canali saranno impegnati a parlare di quello che è accaduto, a tutte le ore. Ma la velocità dell'informazione è una di quelle cose che nell'era di internet, di twitter, dei social network decide della centralità o meno di un mezzo. E non esserci quando serve rende più difficile chiedere sostegno quando serve. Sono felice di pagarti un canone, e tu sarai felice di servirmi. Altrimenti cara tv pubblica vorrei farti presente che il primo tg generalista in onda oggi con gli aggiornamenti su Brindisi è stato il Tg4. Buon tweet a tutti.

UPDATE: Mi era sfuggita l'edizione flash del TG1 alle 11.00. Mi scuso per l'imprecisione, ma il problema rimane.
SECONDO UPDATE: Oggi il terremoto in Emilia è stato coperto molto meglio dal servizio pubblico. E' significativo, nel merito, il comunicato dei giornalisti del TG1.

L'estetica Vimeo


L'home page di vimeo.
Se non sapete cos'è Vimeo (leggi: Vii-mio) e lavorate in televisione, è probabile che facciate parte della tv generalista tradizionale. Molto tradizionale. Il che non è un male, ovviamente. Comunque: vimeo.com è il sito che ospita la vetrina di tutti i videomaker del mondo, bravi e meno bravi. Una specie di youtube per addicted, professionali e amatoriali "evoluti", con circa 2 milioni di iscritti. Su vimeo i giovani registi postano i test dei loro corti, dei loro video musicali, delle loro stop motion e delle animazioni che fanno trend. Ciò avviene ormai da otto anni, Vimeo è nata nel 2004. Vimeo si fa cruccio della qualità, anche tecnica (molti video postati sono in hd) ed è anche il luogo deputato per ospitare i test delle nuove tecniche di ripresa e delle nuove videocamere. Anche se videocamere è ormai un termine desueto (non parliamo poi di "telecamere", locuzione che produce un immediato sorrisino di compatimento tra i video addicted sotto i trent'anni. perché oggi le camere di ripresa video sono spesso delle macchine fotografiche digitali evolute, o sono corpi macchina di nuova concezione che ospitano ottiche fotografiche o cinematografiche per avvicinarsi il più possibile alla resa della vecchia macchina da presa in pellicola).
Canon 5d Mark III con rig Zacuto.
 Vimeo è stato protagonista di questa transizione "linguistica", che è nata otto anni fa con le videocamere Panasonic a scansione progressiva (la mitica Panny 100) ed è proseguita quando industriosi tecnici hanno inventato gli adattatori, prima costosissimi, poi a buon mercato, per applicare obiettivi fotografici e cinematografici a quelle videocamere. Ottenendo così il Sacro Graal di questa nuova estetica: lo Shallow DOF. Che tradotto in italiano significa scarsa profondità di campo.
Oggi questa che chiameremo per comodità estetica vimeo si è imposta quasi ovunque (a parte le tv generaliste, ma anche lì comincia ad fare capolino). E' quello stile di ripresa per cui se l'occhio del personaggio in primo piano è a fuoco, le orecchie già non lo sono. Come nei vecchi film hollywoodiani degli anni trenta e quaranta. Questa estetica, che ha rinnovato l'immagine video mandando all'inferno la piattezza della vecchia telecamera, ha altri vari corollari: l'uso estensivo della stop motion, del time-lapse (vi ricordate Koyaanisqatsi?) e della ripresa ad alta velocità (in modo da ottenere uno slow motion morbidissimo). E soprattutto l'estrema cura della correzione del colore. La color correction, fino a qualche anno fa limitata alla produzione cinematografica, agli spot e ai video musicali per l'alto costo delle macchine che la consentivano, si è democratizzata. Il DaVinci, un complesso hardware-software che dieci anni fa veniva evocato con terrore dai produttori cinematografici, anche perchè costava come una Ferrari ("Non sai quanti turni di DaVinci, quel regista lo caccio!"), adesso nella versione base è addirrittura un software gratuito, grazie al fatto che la vecchia snobbissima DaVinci è stata acquisita dalla superdinamica Blackmagic, una specie di piccola Apple australiana che sta sconvolgendo il mercato dell'hardware video.
DaVinci Resolve Lite 9.0
 Per cui il mondo dei video si sta popolando di direttori della fotografia (anzi: d.o.p.) smanettoni, di videomaker informatissimi sull'ultima lente e sull'ultima camera, di colorist più o meno improvvisati che trasformano ogni ripresa in una disneyland dell'immagine televisiva.  E' una generazione che dà molta più importanza (finalmente!) all'espressività visiva di ciò che realizza.
Il rischio di questa estetica, come sempre, è nell'accademia. Il pericolo della scolastica vimeo è quello cioé di creare una generazione di professionisti (presenti e futuri) del video con grandi skill sull'immagine ma con scarsa capacità di raccontare una storia. Perché se fare una bella inquadratura e realizzare un'immagine espressiva è il 50% del problema, l'altro 50% (generalmente il più difficile) è quello di saper dirigere il set e di saper narrare una bella storia. E per quel 50% non c'è tecnologia che risolva il problema. (Comunque, se per caso non conoscete vimeo, fatevi un ripassino subito qui).

mercoledì 16 maggio 2012

Saviano, un mito televisivo nel profondo Nord


Fazio e Saviano alla 7.


Come dice sempre un noto critico, la tv ha unito l'Italia. L'ha unita, sì, ma senza esagerare.
Ieri non ho potuto vedere la seconda puntata di Quello che (non) ho, perché ero in treno. Dalle descrizioni degli amici mi pare di capire che sia stata una puntata più vivace e più "laica", rispetto alla prima. (Fazio si avvale di Duccio Forzano, un regista che ha una grande capacità di raccontare con le immagini, e il livello visivo della narrazione l'ha molto aiutato, secondo me, in una prima puntata che soffriva non poco di teatralità solenne). In ogni caso qualunque direttore di rete dovrebbe desiderare un programma che riesce a dare quasi il 13% alla 7.
Ma la cosa che mi interessava raccontare in questo post (si tratta comunque di un programma di qualità, lascio ad altri il gioco di società delle critiche benevole e malevole a Fazio & Saviano) è la reazione del pubblico, divisa per zone geografiche. 
Secondo l'Auditel la performance di Fazio e Saviano ha avuto risultati estremamente diversi tra una regione all'altra. Si va da1 12,8% della Lombardia (perfettamente allineata con il dato nazionale) ai dati lusinghieri del Lazio (16%), Marche (15%) , Toscana (19%), Liguria (17%), al risultato più che decoroso della Sicilia (quasi l’8%). Calabria e Campania invece sono sul 4%. Ovviamente bisogna tenere presente la copertura non ottimale del segnale televisivo della 7 su alcune parti del territorio nazionale. E la tendenza generale, regione per regione, è la stessa dei programmi di prima serata di Rai Tre.
Udine: in Friuli quasi il 30% per Fazio e Saviano.
I dati clamorosi sono altri: il primo è il Friuli-Venezia Giulia, che arriva al 28%. Nei dati di dettaglio il risultato friulano-giuliano è ancora più clamoroso, 30% sul pubblico femminile (in pratica ieri a Udine e a Trieste una telespettatrice su tre guardava Fazio e Saviano) e 40% sui laureati, quasi un plebiscito. Ora, gli antennisti friulani saranno particolarmente bravi ma non si può spiegare tutto con la copertura del segnale.
L'altro dato clamoroso è la Basilicata: meno del 2% (uguale allo share medio della 7 sull’intera giornata). Secondo l’Auditel in Basilicata neanche una persona tra i 4 e i 44 anni ha visto Fazio. E neanche una oltre i 65.  E allora qual è l'eroica famiglia auditel che da sola, a occhio e croce, ha fornito il quoziente per il dato squadernato da AGB? Per carità, è evidente che più il campione è basso e minore è la precisione statistica dell'Auditel, però se incontrate un pensionato della Basilicata che abbia visto almeno per un minuto Saviano mandate una foto a Pancini.
Errori statistici a parte, finiti i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, gli italiani sembrano rivelare, come dire?, sensibilità diverse. E qua non si parla delle élites ma dei grandi numeri. D’altronde mi ricordo che una volta feci su RaiTre una puntata di Gaia dedicata al Vesuvio; e il responso Auditel fu: 15% in Friuli e 4% in Campania. Ecco un tema di riflessione per tutti. Hai voglia a scrivere Gomorra.

lunedì 14 maggio 2012

Altro che Auditel, qua non ci sono i soldi



A Mediaset puntano a chiudere l'anno di Publitalia con un meno a una cifra sola (8-9%), e gli andrebbe di lusso. La Rai farà fatica ad arrivare a tanto, nonostante gli Europei. Sky continua a ricevere disdette sugli abbonamenti. Premium è collocata troppo bassa sul mercato, tra quelli che non spendono più. Telecom sta cercando disperatamente di vendere la 7. MTV è in una situazione difficile. In questo contesto, discettare sui dati d'ascolto di questo o quel programma è un po' ridicolo. A parte produzioni chiave che fanno brand, e i cui ascolti in qualche modo "si pesano", gli ascolti che "si contano" non spostano più di tanto gli investimenti pubblicitari. La crisi è quasi al suo massimo storico, e non sappiamo cosa cambierà di strutturale quando questa tragedia sarà in qualche modo conclusa. Ma certamente qualcosa cambierà.
E' chiaro che prima o poi anche su un pubblico demograficamente vecchio come quello italiano l'over the top, insomma i programmi che si possono/potranno vedere via internet, sul pc, sui tablet e ora anche sui televisori, sfonderanno. Più tardi che da altre parti, certamente. Ma ce la faranno. Questo non significa che la gente smetterà di vedere la tv di flusso (magari utilizzando diversi strumenti per vederla, anche in contemporanea con l'emissione: tablet, ecc. ecc.). Ma significa che le risorse messe a disposizione dalla pubblicità per la tv di flusso non cresceranno quanto i costi. Punto. E siccome i tagli sulla carne viva dei contenuti tv non possono durare all’infinito, pena l’asfissia dell’offerta, il problema è serio.
Una smart tv di Samsung.

Per capirci: la tv generalista negli ultimi due decenni ha rinnovato l’offerta agendo su tre comparti: 1) le reti cadette, RaiDue e Italia1, che oggi soffrono per i tagli dei budget e anche per problemi più complessi che non è il caso di analizzare ora;
2) i programmi di seconda serata, terreno privilegiato della sperimentazione di nuovi formati e talenti, che rischiano un duro ridimensionamento sotto la mannaia dei tagli;
3) e ultimamente i canali tematici digitali, su cui però gli ultimi tagli sono stati pesantissimi, tali da metterli virtualmente nell’impossibilità di produrre in modo consistente.
E’ chiaro che non si può chiedere a RaiUno e a Canale 5 di fare esperimenti estemporanei in questo momento, quindi tutto il sistema rischia di imballarsi. E di rendersi periferico nei riguardi del pubblico disposto (magari domani) a spendere.
Ma perché dico che ci può essere un problema oltre i confini temporali (purtroppo lunghi) di questa colossale crisi economica? Non solo perché le agenzie si rivolgeranno sempre di più al web. L'efficacia dell'advertising sul web non è finora entusiasmante. Sul web conta la reputazione complessiva, i forum, i blog, i social network, il virale, il tam tam insomma. Non basta un clic per vendere, anche se è un clic mirato. Ma è il volano complessivo dell’advertising che non ha più una mission chiara in questo nuovo contesto.
E allora? E allora bisogna, umilmente, gradualmente ma decisamente ragionare di un sistema diverso e di un diverso modello di business. Che si affianca a quello tradizionale legato alla pubblicità ma che conterà sempre di più. E' il modello in cui il consumatore si riappropria della decisione di spesa. Con i micropagamenti. Pagando non genericamente ma precisamente singoli prodotti che vuol vedere in quel momento. E' un discorso che in un modo o nell'altro vale per tutti gli attori del sistema dei media. Lo so, è un altro mondo. E' non è detto che sia una passeggiata.

sabato 12 maggio 2012

Se l'Ikea fa i televisori e l'Apple li reinventa



La notizia è di un mese fa, ma è passata abbastanza inosservata sulla grande stampa. Ikea venderà televisori: televisori integrati in un mobile che conterrà tutto il sistema audio-video, senza cavi liberi e con un unico telecomando. Ovviamente li farà costruire dai cinesi della TLC (quelli che hanno acquisito i marchi Electrolux e Thomson). Perché dovranno costare poco, molto poco.
Quelli che fanno televisione (intesa come contenuti) almeno da noi si disinteressano nel modo più assoluto degli aspetti hardware, cioé dei televisori. Molti creativi e manager tv hanno in casa televisori che farebbero rabbrividire qualunque geek. E d’altronde, di solito non li usano. E invece le tendenze dell’hardware sono importanti.
Il sistema integrato Uppleva dell'Ikea in versione top.
 Ikea sulla fascia bassa del mercato, Apple sull’altra (con il nuovo televisore intelligente, che adesso dicono dovrebbe chiamarsi iPanel ed è in dirittura d’arrivo) potrebbero rivoluzionare il mercato. In che direzione? Prima di tutto in direzione di una semplificazione dell’uso, un’architettura più user friendly rivolta anzitutto al mercato femminile. D‘altronde il televisore è ormai una commody, non rientra nelle novità per smanettoni, è sempre più vicino alla lavatrice e quindi le responsabili d’acquisto (e le utilizzatrici finali) sono sempre di più le casalinghe, le quali - dicono quelli del marketing- non vogliono due cose: selve di incomprensibili telecomandi e selve di cavi acchiappapolvere.
Ed è in questa direzione (ma di fascia medio-alta) che si muove Apple, con uno schermo che individua il volto e segue in modo intelligente (almeno ci proverà) gli ordini dati a voce dell’utente, grazie alla tecnologia di Siri. Il tv Apple non conterrà lettori di dischi ottici, ma si sa che Jobs era convinto della rapida obsolescenza dei supporti come dvd e bluray a vantaggio dell'online, e sulla lunga probabilmente avrà ragione (diventeranno un prodotto di nicchia).
Il televisore Apple secondo Cult of Mac.

Invece il tv dell’Ikea, che dovrebbe essere disponibile su alcuni mercati, compresa l’Italia, già da giugno, dovrebbe avere 4 formati (da 24 a 46 pollici) e dovrebbe essere integrato con uno schermo HD a LED, un sistema home theatre (solo 2.1) con un subwoofer separato ma wireless, connessione internet, lettore cd-dvd-bluray. Tutto in uno e con un unico telecomando. Comprandoli separatamente in un mall (mobile compreso) e anche andando raso terra verso LG,sarebbe una spesa attorno ai 900 euro, oltre alla scocciatura dei cavi. Pare che il combo Ikea, nella versione base, dovrebbe aggirarsi sui 700 euro, che è poco anche se non è un prezzo rivoluzionario. (Sulla qualità del display e dell’audio non so niente, ma vedremo. Ikea promette 5 anni di garanzia post-vendita, qualcosa di eroico).
Cambia qualcosa per chi fa televisione? A occhio, tutto questo accellererà la diffusione della fruizione via IP, via internet, insomma, sul pubblico tradizionale. E anche l’abitudine alla visione HD (entro 5 anni l’SD, cioé la definizione standard, dovrebbe sembrare davvero anacronistica anche alla famiglia tradizionale).

venerdì 11 maggio 2012

Di chi parlano i comici?


Bisio e Cortellesi a Zelig.


Quanto è difficile far ridere gli italiani. Zelig per la prima volta dopo tanti anni fa fatica, i programmi di satira più o meno impegnati della 7 non decollano, gli esperimenti comici di Raidue non raggiungono un ascolto soddisfacente.
Come dico sempre non sono qui per dare giudizi, e tantomeno per fare il critico televisivo. Anch’io sto cercando di capire che strada dovrebbe prendere un programma comico nella tv del 2013 e non ho ancora tutte le idee chiare.
Una cosa però l’ho capita. E come tale ve la propongo.
Secondo me non puoi far ridere senza esprimere una visione del mondo e delle cose. Non per forza una visione ideologizzata. Ma una visione, un’idea, giusta o sbagliata non importa, che rappresenti in qualche modo lo spirito del tempo. Quando Beppe Grillo –absit injuria verbis- faceva sganasciare platee di manager aziendali o teatri pieni di buona borghesia dicendo cose che gli stessi spettatori non avrebbero mai accettato dai propri rappresentanti politici, interpretava in qualche modo lo spirito del tempo. 
Il Trio Medusa e Laura Barriales in Italia Coast2Coast.
E quando i Gialappa’s prendevano in giro su Italia 1 i nuovi mostri delle tv locali degli anni ’90 cosa facevano se non rappresentare in qualche modo lo stupore e assieme la voglia di stare dentro quella colossale trasformazione che, volenti o no, coinvolgeva anche gli “intellettuali tradizionali” del nord Italia, in bilico tra il rifiuto della tv commerciale e l’accettazione della sfida del rapporto con un mondo di sogni e di consumi? E quando sulla Rai degli anni ottanta e novanta fino alla soglia del duemila veniva rappresentata la satira dei tipi umani dello sviluppo nostrano (da Arbore a Verdone a Max Tortora, per capirci) c’era dietro un’idea irridente ma in qualche modo compassionevole verso le contraddizioni di quell’Italia. Quando, nel periodo più hot del berlusconismo, Crozza, Dandini, Guzzanti ecc. se la prendevano con gli epifenomeni del Cav, c’era dietro comunque un’idea forte di opposizione a quel mondo, esplicita, ideologica se si vuole ma anche rappresentativa di un pezzo importante del Paese. Perfino il Bagaglino degli anni d’oro rappresentava un’idea forte della società (quella andreottian-pariolina fatta di accettazione e gestione dei tratti più levantini dello spirito italiano) in cui comunque milioni di persone si potevano riconoscere.
E adesso? Adesso vedo in gran parte smarrimento, o il ripercorrere vecchie strade che sembrano anacronistiche, o incapacità di raccontare (o forse persino di saper riconoscere) la nuova Italia della crisi.
Ma i comici questo hanno sempre fatto: cogliere prima degli altri il lamento, la doglianza, perfino il dolore e trasformarli in riso. Sotto i bombardamenti, a Roma i teatri erano pieni. Adesso, invece si notano i vuoti nelle famiglie auditel. Chi è in ascolto?


giovedì 10 maggio 2012

mercoledì 9 maggio 2012

Lucia, Huffington, il quadro e la cornice




Lucia Annunziata dirigerà l’Huffington Post italiano. Uno dice: ma quanto è internettara Lucia? E’ su facebook? Su twitter? Ha un profilo su Linkedin? Le piace smanettare con i device e civettare con i blog? Per come la conosco io, no.  E neanche gliene importa.
Ci sono un sacco di persone del ramo in Italia che hanno il pedigree di nativi digitali (o, più spesso, di digitali acquisiti). Mentre alla parola “nativi digitali” Lucia Annunziata può commentare con parole irriferibili.  
Eppure: chi sarebbe in grado di trovare le notizie tra tutto questo fighettume straconnesso?
Tanti (ma tanti) anni fa, durante un corteo, salvai (o perlomeno, credetti di avere salvato) Lucia Annunziata da uno sprangatore di Lotta Continua. Lei era minuta, bella e del Manifesto. Compiuta la prodezza, le sorrisi e lei mi rispose con una battuta che esattamente non ricordo, ma del tipo “sennò lo menavo io”.  Lucia Annunziata le notizie le troverà, a costo di addentare alle gambe mezza Montecitorio.
Ma sì, hanno fatto bene: hanno scelto il quadro invece della cornice.  In bocca al lupo a Lucia Annunziata. (Comunque,  Lucia, prenditi qualcuno, anche uno che ti stia un po’ sul cazzo, per quella parte frivola del Post che non leggeresti mai).




lunedì 7 maggio 2012

Yahoo Answers: Decalogo per comperare la 7




Quando non sai una cosa, rivolgiti a Yahoo Answers. Un personaggio famoso lo ha appena fatto. Riportiamo qui il thread.

Vorrei comperare una televisione. Cosa mi consiglia? Ho saputo che la 7 è in vendita. (Editore@dubbioso34)

Miglior risposta – Scelta dai votanti

Caro Editore@dubbioso34, ecco alcuni consigli dai nostri esperti.
1. Non metta grandi giornalisti della carta stampata a dirigere una tv commerciale. Di solito la tv fa loro abbastanza schifo e non la vedono mai, la frequentano solo come ospiti dei talk show. Casomai opti per i loro figli o nipoti.
2. Alla prima telefonata di un celebre agente che rappresenta molti artisti televisivi faccia la voce chioccia, finga di essere la sua segretaria e si dichiari fuoristanza.  Risponda però alla quarta telefonata, dicendo che vorrebbe usare solo gente nuova. Poi ingaggi tutti a metà prezzo.
3. Impedisca il varo di nuovi programmi di cucina.
4. Non punti a fare una tv intelligente, punti a fare una tv vivace.
5. Vieti twitter ai suoi dirigenti.
6. Costringa invece ognuno di loro ad aprire un diario facebook visibile a tutti, non solo agli amici e agli amici degli amici. E si iscriva ai loro diari per avere gli aggiornamenti.
7. Per i primi sei mesi non controlli le note spese dei suoi direttori, così dal settimo mese in poi avrà una scusa legale per far fuori qualunque rompicoglioni.
8. Convochi il portiere del palazzo e una parrucchiera e li promuova suoi assistenti alla programmazione.
9. Assuma Freccero, lo chiuda in un’alta torre e lo liberi una volta alla settimana per farsi proporre idee di palinsesto.
10. Prima però gli tolga il telefono.

domenica 6 maggio 2012

Perché le battute di Obama funzionano


Se vi guardate il discorso di Barack Obama ai corrispondenti alla Casa Bianca del 28 aprile scorso (in realtà è un party a cui partecipa tutta l'élite democratica, Hollywood compresa) vi potete rendere conto di alcune cose molto interessanti. La prima è che negli Stati Uniti il tempo della politica non è finito, e quindi tornerà anche da noi, trovando qualcuno a rappresentarla. La seconda è che tutto il party, intermezzi compresi, fa parte della "scripted television": si tratta cioé di una cosa a cui avranno lavorato fior di autori; la terza: anche se molto era scritto, Obama lo interpreta benissimo, è un vero "mastro di festa". Un leader (sorridente).
Donald Trump nel video che ha accompagnato il discorso di Obama.
Se leggete le battute sugli avversari, esterni (da Romney a Sara Palin, parlandone da viva) e interni (la Clinton beccata sulla festa a Carnagena) lo stile, absit iniuria verbis, può sembrare non molto distante da quello di Berlusconi. Ma con due sostanziali differenze (a parte i contenuti politici, ma qui posso sperare che il lettore dia per scontato che non sono così scemo da confondere i piani del discorso): 
1) Obama non è mai sguaiato, gli piace lavorare di fioretto, poi affonda;
2) Obama dialoga con le élites mediatiche, non vi si contrappone. (Molti dei rappresentanti di quella élite, compresa quella che viene dal web, sono anche fisicamente presenti seduti ai tavoli). Chiede a queste élites di farsi mediatrici della sua proposta politica. In cambio, fa capire che è dalla loro parte. Un "comune sentire", si sarebbe detto un tempo. Vi ricorda qualcosa?
Sbaglierò, ma mi sembra che nessuno degli ultimi presidenti e candidati presidenti democratici abbia avuto un filo diretto così efficace, un sync così perfetto con quel mondo, sia nella sua parte più tradizionale (il cinema), sia con quella più  "anni dieci" (web, blogger ecc.). Per non parlare della stampa e dei conduttori dei talk di seconda serata, o dei producer delle serie tv. D'altronde a Obama piace Homeland, quindi è uno che ci capisce, in tutti i sensi. Ragazzi, studiate Obama.
[Il testo del discorso lo trovate qui.]

giovedì 3 maggio 2012

Buon compleanno, Mystère


Martin Mystère disegnato da Giancarlo Alessandrini.
Martin Mystère compie trent'anni e Alfredo Castelli, l'omino bufo che l'ha creato, festeggia con un numero speciale scritto da lui e disegnato dall'impareggiabile Giancarlo Alessandrini.
Alfredo Castelli.
Mystère è uno dei pochi fumetti italiani che abbiano avuto fortuna all'estero. E' nato sull'onda del successo dell'Indiana Jones di Spielberg e Lucas, di cui echeggiava situazioni e personaggi (anche se la prima idea è precedente a Raiders of the Lost Ark). Ma il suo punto di forza è l'ironia, quell'ironia che Castelli, uno dei grandi autori del fumetto italiano, ha da 
sempre nel suo Dna. Il suo numero speciale (320, per l'esattezza) è una festa di rimandi e citazioni, mai banali: si va dal Dr. Cyclops di Schoedsack al dottor Enigm di Floyd Gottfredson, dal Falcone Maltese di Dashiell Hammett a King Kong, dall'aviatore pazzo John Belushi di 1941 alle commedie di Billy Wilder. Un immaginario, diciamola tutta, da cinquantenni. E anche un Olimpo un po' affollato, ma la verbosità e il didascalismo esibito sono una delle caratteristiche più divertenti del personaggio Mystère, in cui Castelli a occhio e croce si identifica perfettamente.
Se c'è un limite alla trentennale continuity di Martin Mystère è nel fatto che non tutta questa sterminata produzione ha potuto godere direttamente della penna ironica di Castelli, provocando qua e là qualche indebita scivolata nel "Kazzenger". Ma comunque Mystère rimane uno dei prodotti più smaglianti della bottega Bonelli, a cui auguro ancora lunghissima vita. (Se posso dare un consiglio, perché non fare rapidamente una App per leggere le storie sui tablet? Mi pare il futuro più realistico per il comic d'avventura). E comunque, ragazzi, quanto ci manca Sergio Bonelli.

mercoledì 2 maggio 2012

The Hobbit, il cinema e l'effetto soap opera


Peter Jackson durante le riprese di The Hobbit.
La cosa più interessante della settimana cinematografica non sono stati i rumors sui film di Cannes (vedremo come sarà Reality, me ne dicono molto bene, chissà). La notizia (almeno per me) più stimolante viene dagli Stati Uniti: si tratta delle polemiche sul nuovo film di Peter Jackson, The Hobbit, girato a 48 fotogrammi al secondo, una scansione raddoppiata rispetto al solito. Il coro generale è il seguente: "effetto soap opera". Quello che gli americani chiamano soap opera effect è in pratica l'effetto "povero" dato da una ripresa troppo fluida, com'è quella tradizionalmente televisiva, fatta di 50 campi al secondo (in America sono addirittura 60, in omaggio alla frequenza elettrica di 60hz) rispetto al maestoso incedere dei 24 fotogrammi del cinema.
Il set di The Hobbit.
Di che diavolo sto parlando? Sto parlando dell'effetto spiacevole e indefinibile che proviamo quando rivediamo la scena che abbiamo amato in un film, ripresa però di sguincio dalla telecamera che ha girato il dietro le quinte. Tutto diventa banale, come dire? troppo vero per essere cinema. D'altronde questo è sempre stato il problema della tv dai tempi degli sceneggiati degli anni cinquanta e sessanta. Ho visto un pezzo di Roma città aperta su un televisore con l'interpolazione a 100 hz e sembrava una fiction di Chi l'ha visto. Un frame-rate raddoppiato rispetto al normale può essere utile in alcune situazioni ma per il resto, mah, forse non ci siamo abituati. Come dicono quelli di Studio Daily "c'è qualcosa di confortante e di larger-than-life nell'effetto scattoso dei film tradizionali a 24 fotogrammi". Non è estremamente realistico ma non è questo il punto, anzi. Al cinema, così come agli attori che lo interpretano, chiediamo di essere più affascinanti della realtà di ogni giorno, anche quando vogliono rappresentarla.
Anche nell'alta definizione non cerchiamo qualcosa che sia più vero, ma una storia più grande. Non a caso tutti i filmmaker indie e i videomaker cercano camere e ottiche con scarsa profondità di campo. Vogliamo qualcuno che ci racconti una bella storia, non qualcuno che ci faccia una lastra.