domenica 25 novembre 2012

In morte di Gei Ar



Larry Hagman, J.R.Hewing di Dallas. Sullo sfondo, Southfork Ranch.

E’ morto J.R., e Sue Ellen era al suo capezzale. E’ morto a Dallas dopo il Thanksgiving e Linda Gray è stata vicina a lui, vicina a Larry Hagman fino alla fine, come ci racconta con molta puntualità Huffington Post.
In questi mesi succedono moltissime cose per rammentarci la fine di un’epoca. E’ come se la storia fosse diventata una maestrina pedante, che ci riempie di simbologie fin troppo evidenti. Il nuovo Dallas è stato un flop, almeno in Italia (anche se non era brutto come dicono) e oggi la quintessenza di quel mondo ci lascia.
Chi non ha vissuto gli anni del successo di Dallas (in Italia dal 1981, prima per qualche mese sulla Rai, poi l’arma decisiva per l’affermazione di Canale 5, assieme alla trasmigrazione di Mike Bongiorno e all’arrivo di Carlo Freccero) deve sapere alcune cose.
Milano 2.
Perché proprio oggi, nel giorno delle Primarie del Pd (il cui risultato magari spingerà Silvio Berlusconi a riproporsi all’elettorato, ma sarebbe come la serie reloaded di Dallas, appunto) è utile avere una nozione precisa di quel momento.
1. La chiave di tutto è a Milano 2. Se volete capire Dallas, ma anche Berlusconi, dovete andare a Milano 2 e girarla palmo a palmo come se andaste a visitare Pompei. Naturalmente Milano 2 è stata costruita prima del successo di Dallas, ma la sua storia si intreccia perfettamente con quella delle fortune di Dallas, della cultura di Dallas e del successo di Canale 5.
All’inizio degli anni ottanta l’ultima pagina del Giorno (quotidiano all’epoca modernissimo, l’unico che già stampava a colori e titolava all’americana) ospitava regolarmente la pubblicità di Milano 2, presentata con un claim che (vado a memoria) diceva più o meno così: “Un barbecue a Southfork Ranch? No, una serata a Milano 2”. E, sotto, un ilare gruppo di milanesi con sfondo di verde, laghetti e palazzi color mattone super-terrazzati. Per la nuova borghesia milanese, che usciva dai cupi anni di piombo, l’alternativa di questo centro residenziale con ampi spazi verdi, balconi abitabili, strade pedonali e parcheggi era irresistibile. 
Silvio Berlusconi negli anni Settanta.
Era a Segrate, ai confini con la provinciale Cassanese, ma Berlusconi ebbe il colpo di genio di chiamarlo Milano 2. I soldi per costruirlo probabilmente gli piovvero dal cielo, come racconta Nanni Moretti, ma tant’è. Milano 2 (con il suo sporting club, e chi aveva uno sporting negli anni ’70?) divenne davvero la Dallas degli italiani, o perlomeno la sua proiezione fantastica. Come ricorda benissimo Carlo Freccero, che viveva ai bordi del laghetto, nel residence (interni orrendi, sia chiaro) dei Cigni.
2. Il successo di Canale 5 (è meglio ricordarlo, perché un giorno anche questa crisi finirà e sarebbe il caso di imparare dall’esperienza) nasce da una fortissima domanda di intrattenimento e di identificazione con nuovi modelli affluenti che era impossibile ritrovare nella Rai di allora. Per una parte del Paese fu come dar da bere agli assetati, quelli che una volta si chiamavano gli “animal spirits” dell’economia di mercato (o dello sviluppo capitalistico, tanto il senso è lo stesso). J.R. era cattivo ma si arricchiva. “Arricchitevi!” è lo slogan che fu lanciato da Bucharin nella Russia sovietica per risollevarla dalla miseria degli anni post-rivoluzionari, lanciando la NEP, la nuova politica economica che prevedeva una spazio all’iniziativa privata. (E “Crescete, arricchitevi, investite. Se ci sono ostacoli li toglieremo di mezzo” fu il messaggio di D’Alema agli imprenditori nell’ormai lontano 1998. Oggi ci lecchiamo le ferite da un’idea messianica del mercato che pervase anche la sinistra alla fine del millennio, ma non dimentichiamoci che torneranno i tempi dello sviluppo, e bisognerà non soltanto governarlo ma anche promuoverlo). 
Milano2, il laghetto (artificiale) dei Cigni.

3. Milano2 è la chiave perché Canale 5 nacque come tv a circuito chiuso per gli abitanti di questo enorme condominio. Per non coprire i tetti di antiestetiche antenne, il segnale tv era stato centralizzato. A quel punto bastava una derivazione al cavo d’antenna e gli inquilini di Milano Due, oltre alle reti Rai avrebbero potuto ricevere un canale tutto loro. Così nacque Canale 58 (che era, appunto, il canale 58 della sintonizzazione analogica) e poi, da lì, Canale 5. Perché scegliendo film e cartoni per gli abitanti di Milano 2 Berlusconi ci aveva preso gusto, e aveva imparato rapidamente quali fossero i gusti degli italiani degli anni Ottanta. Li colse (Dallas per primo) e li trasformò in una koinè. E l’Italia divenne una grande Milano 2. O almeno ebbe l’illusione, per un tempo infinito, di esserlo davvero diventata.
4. Adesso le griglie per i barbecue restano, quasi sempre, ad arrugginire in cantina.

giovedì 22 novembre 2012

Mediaset: i nodi vengono al pettine



Poiché mi ostino a considerare Mediaset principalmente un’azienda italiana con un fatturato e con migliaia di lavoratori, piuttosto che la terra emersa di un oscuro moloch berlusconiano, credo che il suo futuro sia un tema che riguarda tutti.
E’ evidente, come abbiamo scritto tante volte anche qui, che un modello di business è andato in crisi, sostanzialmente a causa della recessione. La caduta degli investimenti pubblicitari è una realtà che riguarda anche gli altri attori del sistema dei media italiano, ma nel caso di Mediaset l’effetto è più pesante perché Mediaset prosperava in un modello di business basato su grandi margini operativi (graziatemi, in questo ragionamento, dall’obbligo di sottolineare il peso della politica, di Berlusconi ecc.). Quel modello consentiva di muoversi sul mercato con una certa scioltezza (ad esempio, nel reperimento delle cosiddette star, dei format, e così via) e rendeva pressoché irrilevante il peso di eventuali errori editoriali (il programma o la fiction che non funziona, l’investimento in terra straniera o nella pay non fruttuoso, il prodotto d’acquisto che non sfonda e così via). 
Maria De Filippi, uno degli asset
più solidi dei palinsesti Mediaset.
Tanto i margini erano ampi e la presa sul mercato sicura. Nella competizione con la Rai, al di là dei quotidiani responsi auditel, il fatto di avere come zoccolo duro un target pubblicitariamente più interessante rispetto a quello del principale competitor garantiva un occhio di riguardo da parte dei big spender. (E il fatto di dare soldi all’azienda del Presidente del consiglio, anche se non costituiva la motivazione chiave nelle decisioni d’investimento degli inserzionisti, comunque non dispiaceva).
Oggi quel modello non sta in piedi, e le trasformazioni nell’offerta, nelle modalità di fruizione, nelle piattaforme utilizzate, perfino nei gusti del pubblico sono fatti strutturali che non scompariranno anche quando questa interminabile crisi mondiale dovesse mostrare segni di miglioramento (cosa abbastanza lontana, per ora).
Quindi l’azienda Mediaset deve trovare una strada nuova, con idee nuove e nuovi modelli produttivi. Deve fare una vera e propria rivoluzione copernicana. Non può limitarsi a tagliare tutto il tagliabile, perché da sola quella è una strada senza uscita. Altrimenti il finale di partita sarà la vendita a Rupert Murdoch, o a chi per lui. E non è detto che per questo Paese sarebbe la soluzione migliore. Stiamo parlando di Murdoch, non stiamo parlando di Che Guevara, eh.
I tempi stringono. Dalle parti di Cologno lo sanno? Io credo di sì, ma il coraggio non lo vendono al mercato. E poi c’è un piccolo particolare. E si chiama il Fondatore. Che non ha ancora deciso come impegnare l’ultima parte della sua vita. Una presenza che è come un macigno.

lunedì 19 novembre 2012

Gad Lerner, l'ironia e la musica classica



Gad Lerner nella celebre puntata de L'Infedele che ospitò la telefonata di Berlusconi.
Qualche giorno fa la segreteria di redazione di Repubblica mi ha girato cortesemente l'email di un lettore che criticava un mio pezzo, dedicato ai conduttori dei talk show e pubblicato dal Venerdì. La riporto espungendo la firma, per ragioni di privacy visto che missiva era indirizzata al giornale.
Buongiorno Direttore,
sono un cittadino italiano e mi chiamo Renato *.
La disturbo per un articolo a firma di Gregorio Paolini, apparso sul Venerdì di Repubblica il giorno 9 c.m.
Scrivo a proposito delle cosiddette “pagelle” date ai conduttori di trasmissioni televisive.
Rilevo che a Gad Lerner,dapprima il signor Paolini si esercita in forma mielosa sui punti di forza, poi evidentemente per ultimo la “stangata”  nei punti di debolezza.
 Il signor Paolini dà un giudizio a Gad Lerner  inferiore ad altri “esaminati”; la giustificazione “ama la musica classica”.
Orbene io che amo la MUSICA CLASSICA e non solo mi sento (uso un termine dolce) infastidito, forse il signor Paolini dimentica che la musica in generale è CULTURA.
Magari da noi ci fosse    “EL SISTEMA”!!!!
Da ultimo  mi pare del tutto fuori luogo,  cito testualmente, “... se fosse una signora della buona società avrebbe l’abbonamento al turno C della Scala”.
Come se fosse degradante il fatto di avere l’abbonamento alla Scala al turno C.
Forse il signor Paolini non frequenta la Scala e neppure la CULTURA.
La ringrazio per l’attenzione ed anche per  gli articoli  di natura culturale presenti su La Repubblica, Il Venerdì di Repubblica e su  D.
Renato *
Francesco De Angelis (violino) e Roberto Paruzzo (piano)
si esibiscono nel corso di una puntata de l'Infedele
Con tutto il rispetto per l'opinione del signor Renato, il suo intervento mi sembra indicativo di un modo di pensare molto diffuso nel nostro Paese tra i lettori progressisti (e non solo tra i lettori): il rifiuto di distinguere tra giudizio di fatto e giudizio di valoreHo sempre avuto molta stima per Gad Lerner e credo che il suo stile di conduzione e la sua struttura di programma, da Milano, Italia a oggi, siano -come dire?- più europei rispetto a quelli che fanno leva sui meccanismi del melò e dell’orazione civile. Ma tant’è: nella presente situazione, nella marea montante dell’antipolitica e dei vari populismi (causati negli orrori della gestione quotidiana della Seconda Repubblica) un programma come il suo fa più fatica a farsi sentire. E’ un fatto? E’ un fatto, basta guardare i dati Auditel. 
Parliamo pure di musica classica. Mi permetto di farlo perché chi mi conosce sa che sono, a mio modo, un melomane. Vivendo a Roma non posso abbonarmi alla Scala però ho l’abbonamento alla Stagione di Santa Cecilia (turno C, appunto). Nella mia libreria ci sono circa 1500 cd e altri 500 vinili di musica colta, con una predilezione per il Novecento e per la musica medioevale; le mie letture in ambito musicale le ho fatte e qualcosa, sull’argomento, credo di saperla. Così come so benissimo che mentre Lerner dà spazio al Quartetto d’archi o al Coro della Scala, tre giorni dopo Santoro darà spazio a Travaglio e a Luisella Costamagna. E porterà a casa un risultato a due cifre. E il lunedì stesso, su Retequattro, Paolo Del Debbio darà la stura, con indubbia abilità, alle proteste di chi non arriva in fondo al mese, facendo il doppio d’ascolto rispetto a Gad. Per non parlare di Paragone, trasformato ormai in rocchettaro re del nulla. Poi Lerner ha tutto il diritto di non essere corrivo e di difendere le sue scelte editoriali. Posso dirlo? O bisogna sempre fingere che la realtà ci dia ragione?
Volete sapere cosa guardo io il lunedì? Gad Lerner. E dove vado io il martedì? All’Auditorium a sentire Pappano. Ma il mondo, purtroppo, non gira attorno a me, e neanche attorno a Gad Lerner. Che ha tutta la mia imperitura stima.

venerdì 16 novembre 2012

Tutti i segreti della nomine Rai!

Per scoprire i veri nomi e tutto quello 
che c'è dietro grattate qui.








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Mi dispiace, è solo uno scherzo. Comunque ricordatevi che al mondo ci sono cose più importanti delle nomine Rai.

martedì 13 novembre 2012

Un punto per Sky, adesso tocca a viale Mazzini



Il Confronto tra i candidati alle Primarie del Centro-sinistra (hashtag #csxfactor ) ha raccolto, tra Sky e Cielo, oltre 1.800.000 spettatori medi (6,07%), cui vanno aggiunti quelli che hanno seguito lo streaming sul web. E' un ottimo risultato per Sky (anche confrontato con gli ascolti di Fiorello o di X Factor sulla stessa piattaforma). Adesso la parola passa alla Rai, il guanto di sfida è stato lanciato. Ripropongo qui l'intervento che ho postato sull'Huffingtonpost ieri notte.

La Rai avrà tempo per recuperare, ma certo il segnale (satellitare) dev'essere arrivato forte e chiaro a Viale Mazzini, visto che la scelta di Sky è stata fatta da chi, presumibilmente, governerà l'Italia tra sei mesi al massimo. Al di là dello share, che non sarà paragonabile a quello della tv generalista, la formula della tv di Murdoch per il confronto tra i candidati alle Primarie del centro-sinistra è una mezza rivoluzione rispetto ai dibattiti all'italiana. Come tutte le rivoluzioni vere ha in sè punte di giacobinismo (non possiamo diventare anglosassoni in una notte, 90 secondi a risposta sarebbero pochi anche per Obama); ma non c'è dubbio che dopo stasera non si potrà ricominciare a fare le tribune all'antica. I nostri bizantinismi, i pipponi a cui siamo abituati in molti talk show dovranno cedere il passo a risposte più semplici e brevi, più simili a ciò a cui abbiamo assistito stasera. Al netto della noia della prima mezz'ora, la cura da cavallo di Sky potrebbe fare del bene.
I candidati Democrats alle Primarie in uno Stato americano.
Ma andiamo per ordine:

Il format: il Confronto di SkyTg24 è iniziato con una voce off all'americana, che in realtà ricordava le presentazioni dei concorrenti di un talent, o peggio, del vecchio Gioco delle coppie. Il conduttore, Gianluca Semprini, è partito faticosamente; ma poi ha funzionato quando ha assunto un tono inflessibile, a metà tra quello del vigile urbano e quello del funzionario di Equitalia. Quando toglieva la parola a questo o a quello ci immaginavamo un suo omologo del servizio pubblico, costretto in una simile circostanza a calcolare a mente gli anni che lo separano dalla pensione.
Per l'inevitabile legnosità del suo rodaggio, il format di Sky (vicinissimo a quello dei dibattiti tra i diversi candidati alle nomination dei Democrats americani) non avrà sicuramente attirato frotte di pubblico giovane. Ma avrà dato una scossa di novità agli aficionados (e sono tanti, in Italia) del talk politico in tv.
Lo studio di X Factor in cui si è svolto il Confronto.
Le performance dei candidati: Bersani e Renzi riempiono lo schermo fin dall'inizio. Dei due, Bersani ha il passo del possibile premier. Nella prima parte si rompe un po' le balle: recupera sugli universitari e il lavoro e poi va via spedito. Una o due volte riesce persino a sorridere.
Ma Renzi si fa capire bene. E' il più a suo agio nello schema "americano" dei 90 secondi.
Va per slogan, slogan non tradizionalmente di sinistra e quindi più efficaci perché meno scontati.
Bersani lo placca con un abile "come diceva Matteo". Ma spesso Renzi si divincola. Renzi saltella sul ring come un peso piuma a confronto con un peso massimo. Più rapido nei tirare i colpi e nell'evitarli, ma più fragile nell'incassarli.
E Vendola: all'inizio i tempi contingentati non aiutano il lirismo vendoliano. In certi momenti sembra un cantante wagneriano costretto a produrre un jingle per un detersivo. Un incipit come "le ambizioni che erano nelle carte di Ventotene di Altiero Spinelli" è solo un recitativo che prepara l'aria che dovrà far venir giù il teatro. Ma se il tutto deve durare un minuto e mezzo l'acuto resta in gola. Vendola suda, al contrario degli altri due. A un certo punto Renzi tenta l'ammicco a Vendola per mettere all'angolo assieme Bersani. Renzi e Vendola si guardano, si sussurrano qualcosa all'orecchio. La regia, o il sorteggio, hanno dato a Renzi il posto del re, centrale sullo stage e sulle camere, e Renzi sa sfruttarlo. Ma Vendola, che è uomo di teatro, dopo la prima mezz'ora ha già capito come funziona il format e rapidamente si adegua (anche se con una certa fatica, da cui il copioso sudore).
Dibattito tv tra i Democrats americani.
Laura Puppato, aplomb merkelliano, sfora sempre con i tempi, ma si batte bene. Tabacci, nella parte del nonno saggio, dimostra che la vecchia dc produceva anche materiale di prima categoria (d'altronde, come dice Fedele Confalonieri, le uniche vere scuole di politica della Prima Repubblica sono state i salesiani e le Frattocchie, e qui ancora se ne sono sentiti gli echi, negli appelli finali).

Errori tecnici: quasi nessuno. Bersani ha azzeccato il look, con quella cravatta rossa su un vestito scuro molto rassicurante. Niente completino color cacca come Occhetto nel terribile faccia a faccia con Berlusconi che seppellì la "gioiosa macchina da guerra". Renzi con la cravatta violacea e la camicia alla Bob Kennedy era a suo agio, ed ha anche citato Lorenzo Cherubini, autodefinendosi "un ragazzo fortunato". Puppato come giovane maestra dai modi spicci e dalle idee chiare era "in parte". In un medio talent sarebbero passati tutti, almeno alla prima puntata: ognuno con i suoi supporter. Riprese e luci di Sky erano irreprensibili. Alla fine, Bersani è uscito come il padrone di casa, "assieme a tutti questi compagni di viaggio". Un po' di gente si sarà annoiata, ma al Pd questa serata non ha fatto male di sicuro. E tutto sommato, neanche alla televisione italiana.

lunedì 12 novembre 2012

Michele e gli altri: chi farà il cast della 3a Repubblica


Ripropongo qui il pezzo pubblicato sul Venerdi di Repubblica del 9 novembre scorso. Ho espunto il gioco dei rating, anche perché ho verificato con mano che pochi riescono a distinguere tra rating e forecast (e quindi tra l'affidabilità attuale di mercato e la previsione a due anni, come dicono quelli che sanno).


Da almeno un ventennio i nuovi leader (e gli slogan decisivi della politica) nascono quasi sempre nei talk show politici della tv. Nel marasma in cui ci troviamo, tra crisi economica, anda e rianda di Berlusconi, scandali della casta e conseguente successo del populismo in tutte le sue fragranze, i conduttori del talk show saranno decisivi per fare emergere i nuovi, possibili protagonisti: insomma, per fare il casting della Terza Repubblica. Non c’è solo Santoro. Negli anni, la panchina degli scopritori di talenti politici si è allargata: e dopo una fase interminabile di tentativi non riusciti, ora anche il centro-destra ha due conduttori che fanno ascolto, Paolo Del Debbio e Gianluigi Paragone. Entrambi capaci di gestire da destra l’antipolitica. Qualcosa ci dice che l’irrefrenabile tentazione berlusconiana di far saltare il tavolo (una pulsione che, come si è visto, Letta e Confalonieri fanno fatica ad arginare) non sia venuta solo dall’osservazione del successo di Grillo ma anche dallo studio di questi nuovi fenomeni televisivi. Perché ci sono due cose che Silvio conosce bene. E la seconda è la televisione.
Ecco un dossier riassuntivo.

Conduttore: MICHELE SANTORO
Programma: Servizio Pubblico
Rete: La 7
Punti di forza: E’ il più bravo. Ha una visione personale ma lucida della situazione politica, il populismo non lo spaventa di certo. Ha molto carisma e tende a giocare con gli ospiti come il gatto col topo. Conosce a menadito le regole “tecniche” della tv. E’ molto esigente con i suoi collaboratori. E’ un drammaturgo, con tendenze al grande melodramma.
Punti deboli: E’ Michele Santoro: tende all’autoreferenzialità. Con il suo stile nelle inchieste filmate ha fatto scuola, ma quando si sente sfidato o in esame preferisce mettere tra parentesi l’orchestra e giocare da solista. Vive con un certo imbarazzo i collaboratori con tendenze al primadonnismo.
Linguaggio televisivo: Sostanzialmente lo stesso da Samarcanda ad oggi. Gli innesti internettari sembrano la cravatta regalata a Natale su un antico vestito di sartoria.
Collocazione politica: santoriano. Starebbe con Grillo se Grillo lo seguisse (ma potrebbe valere anche per Bersani).


Conduttore: GIOVANNI FLORIS
Programma: Ballarò
Rete: RaiTre
Punti di forza: Ha rubato la Terza Camera a Vespa.  Riesce a mantenere un’idea di centralità al suo programma (e cioè: “di qui devi passare, sennò non sei nessuno”).  Se Santoro sovrasta l’avversario, Floris è mezzala, e talvolta ala tornante. Modello: Gianni Rivera (inteso come calciatore). E’ una persona educata.
Punti deboli: Ha troppa condiscendenza verso i sondaggi e gli economisti. Vive Crozza come il primo invitato alla cena che mette in imbarazzo gli altri commensali. E’ una persona educata.
Linguaggio televisivo: Molto RaiTre.
Collocazione politica: Tendenza RaiTre.

Conduttore: CORRADO FORMIGLI
Programma: Piazza pulita
Rete: La 7
Punti di forza: Ne sa più di quanto faccia credere. Ha insistito per il titolo “Piazza pulita” quando Giorgio Gori (il suo produttore, almeno fino a qualche mese fa) aveva ancora qualche dubbio. Sembrava l’alunno secchione senza lo smalto del Maestro, invece ha tirato fuori le unghie e si è difeso bene. E’ vissuto come “uno nuovo”.
Punti deboli: Non ha il carisma e la velocità di Santoro. E’ più giornalista che drammaturgo. Imbrocca il suo look una volta su dieci.
Linguaggio televisivo: è partito dal modello santoriano ma nel tempo si è evoluto, rinnovando abbastanza il linguaggio e il ritmo del talk politico. Ha collaboratori giovani ed è permeabile ai nuovi stili della comunicazione. 
Collocazione politica: Ha l’atteggiamento politico dei trenta-quarantenni di sinistra: un grande punto interrogativo sospeso sopra la testa.


Conduttore: ANDREA VIANELLO
Programma: Agorà
Rete: Raitre
Punti di forza: Sornione. Ha reinventato una fascia oraria che era quasi morta, almeno su Raitre. Giovialmente cinico, fa capire che non si aspetta nulla dai suoi intervistati. Nonostante ciò, riesce spesso a stanare gli ospiti sfidandoli ad essere uomini di mondo. Interpreta il disincantato uomo di sinistra che legge un sacco di giornali. E’ felice di non doversi più occupare di diritti del cittadino, argomento del quale non gliene fregava una mazza.
Punti deboli: E’ troppo conscio dei limiti dei suoi ospiti per farli rifulgere di luce propria. Dà l’idea di passare un sacco di tempo al telefono con gente che sa.
Linguaggio televisivo: Vianello e i suoi autori ne hanno inventate di molte, invecchiando di colpo i programmi concorrenti. Dalla canzone pop a mo’ di editoriale al “moviolone”. Si muove dentro twitter come un pesce nell’acqua.
Collocazione politica: abbastanza Pd.

Conduttore: PAOLO DEL DEBBIO
Programma: Quinta Colonna
Rete: Retequattro
Punti di forza: Intelligente, colto, furbo (è stato uno dei maître à penser della prima Forza Italia). Sposato con Gina Nieri, una delle vere menti politiche di Mediaset. Ha cavalcato tra i primi l’ondata della “destra indignata”: aveva ben chiaro in testa che oggi, alla telespettatrice di Retequattro puoi solo dire che sono tutti ladri, quelli del Pdl per primi (“ma anche tutti gli altri, capito?”). Linea: antipolitica, ma da “padre di famiglia”.
Punti deboli: E’ un professore. Abito, look e occhiali fanno temere l’interrogazione non programmata. Sorride poco.
Collocazione politica: (Post) berlusconiano.


Conduttore: BRUNO VESPA
Programma: Porta a porta
Rete: RaiUno
Punti di forza: Di solito è più informato dei leader politici che intervista. Nel caso del Pdl sembra spesso il membro interno della commissione d’esame che cerca di suggerire al candidato (però il più delle volte, rassegnato, rinuncia). Ha una solidissima redazione.
Punto debole: Vorrebbe fare di Berlusconi un democristiano, ma è come far marciare in parata un ballerino di tango. E’ troppo identificato con il suo cast storico e con le sue stagioni precedenti (sindrome del Bagaglino). Ma la cura a dosi massicce di nuove personalità  politiche “giovani” rischia di tradursi in un massacro.
Linguaggio televisivo: Tradizionale, di buona fattura. Orientamento politico inserito abilmente (ma ormai sgamabile dal telespettatore tipo).
Collocazione politica: Se ci fosse ancora la Dc e quel benedetto uomo non si facesse tutti quei lifting, sarebbe tutto più semplice.

Conduttore: GAD LERNER
Programma: L’infedele
Rete: La7
Punti di forza: Parla spesso di cose serie. Riesce a rendere interessanti i professori. Ha spostato i riflettori su una Milano colta che l’ultimo ventennio ci aveva fatto dimenticare. Aborre il provincialismo.
Punti deboli: Ama la musica classica e detesta le tattiche dell’ascolto televisivo. Le ha utilizzate  con profitto solo in alcune puntate sul “velinismo”: ma si è messo contro Antonio Ricci. Nasce di Lotta continua (tendenza dialogante), ma se fosse una signora della buona società avrebbe l’abbonamento al turno C della Scala. E’ in difficoltà con il populismo montante.
Collocazione politica: Ah, se ci fosse Prodi.

Conduttore: GIANLUIGI PARAGONE
Programma: L’ultima parola
Rete: Rai2
Punti di forza: E’ stato il primo conduttore di centro-destra a capire che doveva imbroccare con decisione la strada dell’antipolitica, a costo di scontentare un po’ di peones. Adesso che lo hanno copiato in molti è costretto a rincarare la dose. Nelle ultime puntate si è trasformato in un cantante rock con tanto di gruppo al seguito. Gli piace essere “re nel nulla” e sa che il nichilismo ha un grande futuro.
Punti deboli: Troppo folletto o scheggia impazzita. Va bene mischiare le carte, ma lo spettatore di destra ha diritto anche a qualche punto fermo. “Not Ready for Prime Time”, come dicono gli americani. Non è ancora pronto per la prima serata. Ma un domani, chissà.
Collocazione politica: “Il potere ci temono”. Insomma, era tutta colpa dei poteri forti.

domenica 11 novembre 2012

BBC: L'amaro destino di George Entwistle

George Entwistle: il suo regno come Direttore Generale della BBC è durato 54 giorni.

E’ durato meno di due mesi (per l’esattezza, 54 giorni) il regno di George Entwistle come capo della BBC. E a me, personalmente, dispiace. Entwistle è stato travolto da due scandali in rapida successione, dei quali non aveva responsabilità dirette ma soltanto d’ufficio: la vicenda di Jimmy Saville, uno dei personaggi più amati della televisione britannica, di cui solo ora, un anno dopo la morte, il pubblico ha scoperto le tendenze pedofile (adescava ragazzine, una vicenda che pare sia durata un tempo infinito e rispetto alla quale anche alla BBC molti avevano chiuso occhi e orecchie, perché pare fosse il segreto di Pulcinella); e quella di un servizio di Newsnight, proprio sulla pedofilia, in cui un testimone (poi ha ritrattato) accusava un pezzo grosso dei Tory di avere abusato di lui da ragazzino.
Jimmy Saville.
Al centro di entrambi gli scandali c’era però il programma Newsnight. Che è sempre stato una specie di bandiera dell’informazione BBC. Nel primo caso, perché Newsnight avrebbe rinunciato, con l’accordo di Entwistle, a trasmettere un servizio in cui, post mortem, si raccontavano le abitudini di Jimmy Saville (lasciando alla rivale Itv il compito di smascherarlo); nel secondo, perché il programma della BBC aveva trasmesso un servizio sulla pedofilia in cui, senza nominarlo, si lanciavano accuse a Lord McAlpine (poi smentite dal testimone stesso).
Il problema è che Entwistle veniva proprio da lì, da Newsnight. Lì aveva fatto carriera. Perché Entwistle era (è) un uomo di prodotto. Tutta la sua carriera all’interno della BBC è stata di producer (termine intraducibile in italiano, diciamo produttore creativo, e in certi casi capostruttura, quasi sempre anche autore). Era così bravo da essere stato messo a capo, a un certo punto, di BBC Vision (diciamo direttore dei programmi originali, per capirci), con l’attenzione puntata sulla creatività interna ed esterna alla BBC. Insomma, un uomo di idee. 
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra, trasmessa dalla BBC in tutto il mondo.
Aveva governato lui la presenza della BBC durante le Olimpiadi del 2012, che ci aveva regalato il fantastico opening diretto da Danny Boyle. George Entwistle era un creativo. Voleva riformare la BBC e stava pestando molti piedi, in alto e in basso. E non era un politico.
Due considerazioni: 1) Speriamo che qualcuno se lo prenda, perché di produttori così bravi ce n’è pochi in giro. 2) Per dirigere una tv pubblica (anche la BBC) qualche dote da politico serve. In tempi di supertecnici, sarà bene tenerlo a mente.

mercoledì 7 novembre 2012

Allarme rosso per le tv italiane?


Il Live Coverage della CNN per la notte delle elezioni americane: quest'anno niente
fuochi artificiali.

Nella notte della vittoria di Obama, che ci fa felici, l’osservatore più attento si sarà forse accorto di una cosa. Fino a quattro anni fa il coverage delle elezioni presidenziali veniva utilizzato dalle tv americane, e non solo da quelle, come terreno per sperimentare nuove soluzioni narrative: nella grafica, nella scenografia degli studi, negli effetti speciali (durante l’Election Day del 2008 la CNN aveva addirittura provato ad ospitare in diretta l’ospite virtuale, un personaggio che si muoveva nello studio di Atlanta pur essendo fisicamente a New York o a Washington). Anche le televisioni italiane spendevano per sfarzose scenografie, investivano in animazioni grafiche ecc.
Ieri notte tutto è avvenuto con quella che ottimisticamente si potrebbe definire una composta sobrietà: da RaiUno con Porta a porta a RaiTre con il TG3 e RaiNews, da La7 con Mentana a Mediaset con Tgcom24 in simulcast con Canale 5, tutti hanno coperto la notte di Obama dignitosamente, ma “con quel che c’era in casa”. Compresa Sky. Anche negli Stati Uniti la CNN ha riutilizzato i grandi schermi di quattro anni fa e chiusa lì.
Questo nostro amore, con Neri Marcorè e Anna Valle:
un successo per RaiUno, ma difficilmente vendibile all'estero.
Si dirà: hanno fatto bene, con questa crisi non è il caso di buttare i soldi. Appunto. Ma vediamo a che punto è questa crisi.

1. Anzitutto: la crisi della tv non è, al momento, crisi di ascolti. Anzi. Sì, c’è una parte del pubblico, per ora una robusta nicchia, che (al di là dei live events come le elezioni americane) recupera i programmi che gli interessano nei replay online forniti ormai da tutte le televisioni. C’è un aumento dell’attenzione verso la tv satellitare Sky. Ma la tv nel suo complesso, fruita live o in differita, non è diventata meno importante nella vita della gente (tranne per i teenager e i ventenni, che in parte la recuperano grazie alla Rete). Anche la diffusione crescente dei tablet e degli smartphone sta lentamente diventando un modo nuovo per restare connessi alla tv. C’è una crescita esponenziale del secondo schermo (cioè di gente che commenta su twitter o su facebook i programmi mentre vanno in onda). Lo share delle grandi reti generaliste si è abbassato e si abbasserà ancora, l'ascolto si è più frammentato, ma i broadcaster restano i grandi protagonisti del mondo della comunicazione (con l’aggiunta di Sky).
2. La vera crisi è nella raccolta pubblicitaria.  Le previsioni pessimistiche fatte alla fine dei trimestri precedenti, e che riguardavano la raccolta dei principali players italiani, Rai e Mediaset, si sono rivelate in realtà ottimistiche.  La stessa Mediaset, che all’inizio dell’estate prevedeva di chiudere l’anno con un -9%, ormai è rassegnata –secondo gli analisti- ad una raccolta annuale che al 31 dicembre sarà con un meno a due cifre (e non sappiamo ancora se la prima delle due cifre sarà un uno o un due). La Rai non sta certo meglio.
La torre di mediaset a Cologno Monzese.

3. La 7 aumenta la raccolta, ma visti i soldi spesi per il palinsesto e il livello da cui partiva, non è esattamente un yu-uuh. Sky non si può lamentare per la pubblicità, ma qualche seria preoccupazione ce l’ha sui rinnovi degli abbonamenti.
4. Sostanzialmente: il crollo degli investimenti pubblicitari non dipende molto dai palinsesti. Se tutta la tv italiana fosse più bella, al momento i soldi non arriverebbero lo stesso. Puoi rubacchiare qualcosa al vicino, ma è la guerra delle briciole.  Perché –a parte Sky, che è un discorso diverso e più complesso- non sono gli spettatori che pagano, ma gli inserzionisti. E le aziende italiane non hanno soldi perché la gente non spende. (E la gente non spende perché non ce l’ha, i soldi, ecc. ecc.). Le multinazionali poi hanno spostato una parte dei loro investimenti su mercati più redditizi (troppo facile spiegare tutta la flessione di Publitalia col fatto che Berlusconi non è più al governo, sai quanto gliene può fregare a Procter & Gamble di chi è al governo in Italia, se in Brasile girano più soldi investiranno di più in Brasile).
5. Sicuramente il grosso della tv generalista italiana non è fatto per attrarre il pubblico giovane-centrale (e anche la Rai dovrà dedicare più sforzi perché almeno uno dei suoi canali generalisti parli di più a quella fetta di pubblico). Ma oggi non è nemmeno questa la questione decisiva.
6. Il vero problema è che oggi la tv italiana costa troppo rispetto alle risorse disponibili. Non è un problema solo italiano. Anzi. Un minuto di televisione italiana costa meno rispetto a un minuto di televisione inglese, per dire: ma a parte la qualità, quelli fanno molto prodotto “non a utilità immediata”, cioè programmi che si possono replicare e vendere all’estero, mentre qui è tutto un bla bla di gente che si dà sulla voce negli studi. In più una fiction italiana, girata in italiano e traguardata al pubblico di RaiUno, prima che tu riesca a venderla all’estero, se non parla di mafia, hai voglia penare.
7. Quindi? Quindi i palinsesti, nell’immediato, dovranno costare di meno. Il riflesso condizionato all’italiana è: facciamo tutto “dentro”. Dentro gli studi delle fabbriche interne. Ma il problema è che quegli studi e quelle risorse sono già sature. E le idee nuove non è che pullulino. Anche per un fatto generazionale: quanti quadri Rai e Mediaset hanno trent’anni o meno? Andate a vedere quanti giovani ha invece la BBC (che pure ha licenziato 2000 persone).
George Entwistle, nuovo Direttore Generale della BBC.
Ma una volta dato il contentino ai sindacati dimostrando che si utilizzano appieno le risorse interne, bisognerà ammettere che i costi delle fabbriche interne di Rai e Mediaset sono già fuori mercato.  E il look che producono è antico. Una patina anni ottanta-novanta che è difficile scrollarsi di dosso, dalle camere, al montaggio, alle luci. Ma veramente pensiamo che il futuro della tv siano studi in cui per registrare uno che parla su un fondo neutro ci vogliono quindici persone?
Una tv che costa meno è anche una tv fatta da gente giovane con metodologie produttive diverse. E non sarà necessariamente più brutta. I grandi varietà tradizionali nessuno sa farli meglio delle fabbriche interne Rai e Mediaset. Ma quanti grandi varietà vogliamo fare nel 2013? E perché X Factor, realizzato fuori dalla fabbrica Rai, ha un sapore diverso?
Forse bisognerà andarsi a rileggere il discorso fatto al suo insediamento da George Entwistle, il nuovo Direttore generale della BBC: che ha messo in competizione senza più limiti quantitativi fabbrica interna e produttori esterni (in Gran Bretagna sono centinaia). Chi ha l'idea migliore al miglior prezzo? Questo significa iniziare a fare gli editori con lungimiranza. Altrimenti, dopo tante chiacchiere, rimarrà solo la strada dei licenziamenti. Senza neanche avere contribuito a creare un nuovo ecosistema per i lavoratori della tv.

venerdì 2 novembre 2012

Madeleine: George Lucas e il genio di Carl Barks



Una vignetta da Back to Klondike, una delle più celebri (e censurate) storie
di Carl Barks (1953).
Siamo a metà di un lungo ponte, e così, invece di ammorbarvi con riflessioni su programmi televisivi, social network e novità tecnologiche ho pensato di proporvi un’ennesima madeleine. Il fatto che George Lucas abbia venduto alla Disney tutti i diritti sulla sua franchise mi ha fatto ricordare una lunga storia, che ha al centro Carl Barks, uno dei più grandi narratori del secolo scorso, l’inventore di Paperone, di Gastone, della Banda Bassotti e del Paperino dei fumetti come lo conosciamo oggi. Lucas ha ammesso più volte di avere avuto Barks, disneyano sui generis, come grande ispiratore. 
Ho ritrovato una mia intervista di trent'anni fa, quando Barks viveva ancora in California. Barks è morto quasi a cent'anni, nel 2000, ed essere riuscito ad incontrarlo per due volte è una delle grandi soddisfazioni della mia vita. L’intervista è stata pubblicata su Métal Hurlant, nel numero di ottobre del 1982. (Ero un ragazzino, eh).

Temecula (Califomia), agosto —
Al Colony Kitchen di Temecula servono una bistecca alta due dita con una montagna di patatine fritte. "Mangia qualcosa li, che poi noi ti veniamo a prendere — mi dice Gare Barks per telefono — la strada per Ranch California e un po' lunga e ti potresti perdere". Eccoli che arrivano, Carl Barks e la moglie, li intravedo dalla vetrata della cafeteria. Barks è alto, imponente quasi, capelli e baffi bianchi, occhiali, auricolare all'orecchio sinistro.

Carl Barks (1901-2000).
E un po' sordo, spiega Gare. Per questo non vuole girare molto, lo invitano continuamente a convegni e rassegne ma lui si scoccia perché quando c'é molta genie fa fatica a seguire.   Non è stato così difficile trovare Temecula. Arrivando da Los Angeles basta prendere l'autostrada per San Diego e girare a destra dopo il casello. Peccato soltanto che fiaccia un caldo bestiale. "Segui la nostra macchina". Barks guida allegramente tra le buche della strada polverosa. Ha una bella casa, Carl Barks. Una villetta nuovissima dai colori pastello, linda e pinta, circondata da altre venti o trenta villette simili (ma non uguali), ai due lati di una strada candida e larga, e rigorosamente privata. E’ contento di questa casa, Carl Barks. L’ha comprata cinque anni fa, quando ormai aveva vinto la sua lunga partita con la Walt Disney. Quando il suo nome ha cominciato a girare per il mondo e l’anonimo pensionato si è trasformato a suo modo in una celebrità. E’ loquace, Carl Barks? Abbastanza. E soddisfatto, Carl Barks? Sembra di si. Oddio, non si è mai sottovalutato, quando disegnava le sue cinquecento storie firmate Walt Disney. Sapeva benissimo di essere il migliore. Lui e Donald (Duck) hanno atteso pazienti la riscossa. E l'hanno ottenuta. Ecco qua due volumoni da duecento dollari, con l'imprimatur della Disney. Uno si intitola "The Fine Art of Donald Duck"e l’altro "Uncle Scrooge". "Vedi? —mi fa la moglie — Sono firmati Carl Barks". Sono quadri a olio e vecchie storie, ristampate con l'attenzione dei filologi. E nell'articolo di presentazione George Lucas ammette che per i Predatori dell’arca perduta ha rubato la favolosa atmosfera di avventura alle storie di Barks. D'altronde, spiega, "i cartoon della Warner mi facevano ridere, quelli Disney mi facevano sognare".

Uncle Scrooge pensa al suo primo amore, Glittering Goldie
(Doretta Doremì). E' una vignetta da Back to Klondike, 1953.
Ed ecco una biografia di Carl Barks scritta dal suo fedele cultore Mike Barrier, uno che insegna legge all'università ma brucerebbe tutti i suoi libri per una notte con Amelia, la fattucchiera che ammalia. E questo è il fattorino con la posta del giorno: aficionados giapponesi inviano meticolosamente domande in inglese, la Surkhampf Verlag spedisce qualche libbra di Donald Duck tedeschi, "per conoscenza".
 Non sembra molto preso dalla posta, Carl Barks. Per gli italiani invece ha un’attenzione particolare. "Mario Gentilini è stato uno dei primi a scoprirmi", racconta. E mostra l’album con le foto di gruppo scattate a Burbank, agli studios. Sembra il diario di Paperina. Invece "questo sono io, questa è Gare, questo è Gentilini, questo é un altro italiano, Sanotto". 
Il numero di Métal Hurlant
dell'ottobre 1982,  in cui fu
pubblicata l'intervista.
Non sarà Piero Zanotto? "Ah, si si, Zanotto. La foto, boh, sarà del '68, vero Gare? Sai, sono stati editori come Gentilini a insistere con la Disney per poter ripubblicare le mie storie rivelando il mio nome. Alla Disney non erano entusiasti dell’idea. Poi hanno visto che poteva essere un affare anche per loro".A Burbank, racconta Barks, sono cambiate molte teste. "Adesso ci sono dei nuovi ragazzi, con idee nuove". Ma qual è il rapporto di Barks con la Disney? L'impressione è che non sia mai stato un idillio. Neanche ora. "Ne1'71 mi diedero il permesso di dipingere dei quadri a olio con i personaggi di loro proprietà".
Il permesso è durato cinque anni, e un quadro di Duckburg (Paperopoli),venduto nel '73 per duecento dollari è state aggiudicato a un'asta, due anni fa, per quarantaduemila. Sono arrivati molti soldi, anche per Barks. Poi la Disney ha revocato il permesso. E adesso lui dipinge ancora qualche papero, "ma non sono paperi Disney, sono paperi Barks", spiega Gare ridendo. Le papere, soprattutto, sembrano pin-up di Vargas, labbra tumide sulla punta del becco e curve vertiginose. Gli sono sempre piaciute le donne, a Barks. Non è mai stato un tipo molto disciplinato. Piuttosto uno splendido individualista, di quelli gustosi e intelligenti. E alla Disney gli individualisti non sono mai andati molto a genio. “Quando è passato a disegnare paperi per i comic books, nel '42, come collaboratore esterno, quali erano i suoi rapporti con la proprietà?” 
Carl Barks,  Burne Hogarth (il disegnatore di Tarzan) e Gare Barks.
"A Burbank ci andavo pochissimo.Me ne stavo così bene nella mia casa di San Jacinto". E non c'era qualche discussione, qualche censura? "Oh, sì, spesse volte mi facevano saltare qualche tavola che non gli andava a genio, o mi chiedevano di riscrivere la conclusione di una storia. Come questa qui, della regina del Klondike, non so se la conosci.
Per questo volume di ristampe mi hanno chiesto di ridisegnare le tavole censurate, a memoria perché dio solo sa dove sono finiti i disegni originali. Beh, ho potuto fare solo le matite, non ho più la mano abbastanza ferma per mettere le chine”. Ma c’era un codice a cui bisognava attenersi, una serie di regole "politico-morali"? "Oh sì, c'era, sarà anche cambiato due o tre volte. Io comunque non ne ho saputo nulla per otto o nove anni. Poi un giorno, improvvisamente, era il party di Natale negli uffici della Disney, qualcuno si mette a discutere del codice. Allora io gli dico: ma di che codice stai parlando? E la segretaria fa: ma come, Barks, la lista delle cose che Donald può fare e non può fare. Ha ha! Io non ne avevo mai sentito parlare".
E poi? "E poi mi ricordo che si incazzavano quando infilavo degli esseri umani in una storia di paperi. Ma per me era naturale, perché per me anche Donald era un essere umano, e quindi non ci facevo caso. E i direttori a dirmi: no, no! In queste storie ci devono essere soltanto degli animali buffi che incontrano altri animali buffi! Ma a me non piacevano le caratterizzazioni appena abbozzate, le macchiette che agiscono in base a stimoli meccanici, uno è sempre allegro, un altro è sempre avaro, un altro è sempre scemo. A me piaceva raffigurare quei paperi come degli individui pensanti. Solo così ci provavo gusto”.

(Intervista registrata a Temecula, California, nel luglio 1982. ©Disney per le illustrazioni)