venerdì 26 luglio 2013

Madeleine: Casablancas, Ibiza, gli anni novanta




John Casablancas.
Estate, è tempo di madeleine.
Giorni fa è morto John Casablancas, il fondatore dell’agenzia Elite. Casablancas era un simbolo degli anni ottanta, gli anni dei guadagni facili e delle "top model" (termine ital-vanzin-english intraducibile, gli americani preferivano il termine supermodel). Il mito tramontò alla fine degli anni ’90, quando un intraprendente reporter della Bbc realizzò un’inchiesta con tanto di microfoni e telecamere nascoste in cui sputtanava un certo numero di “modellari” (così venivano chiamati, all'epoca) soprattutto milanesi, coinvolgendo così l’agenzia regina, che era appunto la Elite.
Conobbi Casablancas nel 1994. Italia Uno coproduceva Look of the Year, che era una specie di Miss Universo versione modelle (a pensare alle discussioni di oggi su Miss Italia viene da sorridere). Look of the Year lo aveva ovviamente inventato Casablancas, che univa l’abilità imprenditoriale dell’americano alla spregiudicatezza creativa del latino. A Casablancas piaceva Ibiza, dove lui e i suoi soci possedevano alcune ville su un promontorio, nella parte meno turistica (allora) dell’isola. Casablancas era un bell'uomo, non aveva mai atteggiamenti da cialtrone, si presentava come una specie di manager sempre sorridente. All'inizio del concorso passava in rassegna, una per una, tutte le candidate, le studiava, e per ognuna di loro decideva d’imperio il taglio dei capelli, il look ecc., oltre a dispensare alcuni consigli di ordine generale.  Se una ragazza gli piaceva la eliminava subito dalle finali. E poi magari se la sposava. Fece così con una brasiliana giovanissima, e infatti nel 1994 nella villa di Ibiza si era già piazzata tutta la famiglia di lei, mamma brasiliana compresa, un donnone dall’aspetto autoritario.
Cindy Crawford, scoperta da Look of the Year.
Ovviamente erano pur sempre dei modellari. Quando vidi com’erano fissate le vele del tendone di copertura del palco pretesi che venissero messe in sicurezza. I suoi si misero a ridere e nella notte un temporale fece crollare tutto. Allora chiamai avvocati, vigili del fuoco ecc. finché furono costretti a riorganizzare il set. La suocera di Casablancas inveì contro di me, dicendo che ero uno stronzo, ma lo disse in brasiliano, abbastanza musicale.
Mi ero portato a Ibiza, come autori, Lucio Pellegrini e Cristoforo Gorno. Due giovani intellettuali molto lontani da quel mondo, ma di militanza eterosessuale. Uniti negli orientamenti generali chiedemmo a Casablancas perché nessuna delle italiane presenti fosse entrata in finale. Mi spiegò che non erano abbastanza magre, agli stilisti piacevano quelle alte alte e magre magre perché qualunque straccetto sarebbe caduto loro addosso perfettamente. Cose oggi note a chiunque, ma per noi, che venivamo dalla tv che aveva prodotto Drive In, erano scoperte continue.
Le ragazze di Look of the Year erano in buona misura americane, ma cominciavano già ad arrivare le russe. Una che avrebbe potuto vincere era appunto una giovane russa molto bella, che poi divenne famosa. Il giorno prima del verdetto il rappresentante russo di Elite fece un gran casino con Casablancas, e a quanto pare fu molto convincente. Oltre ad essere rappresentante di Elite per la Russia il tipo si occupava di commercio d’armi, credo organizzasse anche qualche cena (elegante) con rappresentanti dell’esercito, ospiti le sue assistite. Nel tempo libero andava a fare il cecchino in Cecenia. Casablancas ne rimase persuaso, e la russa vinse.

giovedì 25 luglio 2013

Il mistero di Microsoft

X Box One, la nuova consolle di giochi di Microsoft che dovrà
vedersela con Playstation 4.

Anni fa Microsoft ha lanciato Kinect, una tecnologia che consente di captare i movimenti, il calore del corpo e la voce dell'utente e di farlo così interagire con la macchina senza l'ausilio di alcuno strumento fisico (mouse, telecomando, controller ecc.). Il principale campo di applicazione della tecnologia Kinect sono stati i videogiochi (è stata implementata nel motore dell'Xbox, la consolle di Microsoft, appunto). Recentemente le Sdk, cioè i codici di Kinect sono stati liberati anche per Windows (per cui uno sviluppatore può scrivere un'applicazione per sfruttare questa tecnologia utilizzando uno o più Pc). Ne sa qualcosa il gruppo di bravissimi creativi/tecnologi che lavorano con Lorenzo Jovanotti nei suoi spettacoli.

Adesso Microsoft annuncia che, per la sua nuova consolle Xbox One, Kinect è stato ancora migliorato: sarà in grado, infatti, di "catturare la struttura facciale, la pettinatura, il colore della pelle, la massa corporea e persino l'espressione del giocatore, costruendo, in pochi secondi, un alter-ego virtuale davvero somigliante all'utente".
Steve Ballmer, CEO di Microsoft, presenta Surface.
La domanda è: perché un'innovazione così rivoluzionaria non ha avuto il rilievo di mercato che uno si sarebbe aspettato? E perché, nel frattempo, tutti concorrenti di Microsoft stanno correndo ai ripari, implementando (lo so, "implementando" è una forma verbale orribile) tecnologie simili nelle loro interfacce? Perché Apple sta acquisendo un'azienda israeliana che ha contribuito a sviluppare quelle tecnologie? E, già che ci siamo, perché il tablet di Microsoft, Surface, è stato finora un insuccesso? Costava meno, la cover diventava una vera tastiera, aveva l'ingresso USB ecc. E allora? E perché Zune, l'alternativa Microsoft all'iPod, è stato un disastro commerciale?

Cosa manca a Microsoft per comunicare? Ecco un caso di scuola che dovrebbe essere discusso perché ha un grande rilievo anche in ambiti diversi da quello dell'industria dei computer. Che cos'è oggi, davvero, un brand? Come si costruisce un'immagine di marca? L'attitudine stizzosa verso il consumatore (ad esempio, l'Xbox One dovrà collegarsi una volta al giorno con Microsoft via internet, altrimenti i giochi non potranno funzionare; e ancora: i giochi non saranno di proprietà del consumatore, saranno soltanto "dati in licenza") contribuisce a rendere meno user friendly il marchio? E perché invece ad Apple, che si comporta con gli utenti come la bella del ballo, i consumatori perdonano quasi tutto? Esperti di comunicazione, tecnologi, aiutateci a capire.

martedì 16 luglio 2013

La Minaccia della Mela: un tv senza pubblicità

Uno dei vari concept della futura tv Apple che sono girati in questi mesi sulla Rete.
Ma da Cupertino uscirà qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che si è visto finora.
La Minaccia della Mela: così si potrebbe definire l'indiscrezione che è apparsa ieri sul blog di Jessica Lessin (una giornalista del Wall Street Journal che di solito la sa lunga) e che rivelerebbe l'arma assoluta che Apple si appresta a inserire nel suo nuovo televisore, l'Apple iTv di cui si favoleggia da un anno o più: una tecnologia che elimini automaticamente la pubblicità dai programmi. Nelle sue trattative con le cable company americane, cioé le società che, come Time Warner, forniscono il cavo grazie al quale decine di milioni di americani vedono i canali tv, i manager di Cupertino avrebbero tirato fuori dal cappello l'arma fine-di-mondo, ancora più credibile se si aggiunge che avrebbero anche proposto un meccanismo per rimborsare le media company per gli spot non visti dai telespettatori. Nella sua versione premium il servizio di distribuzione Apple consentirebbe quindi il salto della pubblicità, con quale meccanismo non è ancora chiaro (probabilmente grazie a un buffer che ritarda la visione del programma di quel poco che consente di saltare gli spot senza assistere a qualche minuto di schermo nero, oppure utilizzando un brevetto recente che consente di passare a uno streaming diverso durante i break, ma sono solo ipotesi).
L'omino del cavo, ubiquo negli Stati Uniti come da noi l'idraulico.
Una mossa come quella di Apple sembrerebbe destinata a colpire al cuore il business televisivo tradizionale, e non è detto che i fornitori di contenuti e le media company siano felici dell'idea, né che la facciano passare come niente fosse. Quali sono esattamente i termini della questione? Le discussioni tra il CEO di Apple Tim Cook e le società che distribuiscono il segnale via cavo si sono svolte finora in quel clima di segretezza a cui Cupertino ci ha da tempo abituato.
Unita all'altra indiscrezione di questi giorni, secondo cui Apple sarebbe in trattative per l'acquisto di PrimeSense, la software house israeliana che ha sviluppato la tecnologia su cui si basa il Kinect di Microsoft, la notizia fa pensare a una nuova stagione di attivizzazione della Mela.
In ogni caso, è chiaro che l'ingresso di Apple nel mercato della televisione, quando avverrà dalla porta principale, non lascerà niente come prima. Proprio adesso che i soldi della pubblicità erano ricominciati a girare nelle casse dei network americani? 


lunedì 15 luglio 2013

Traductor traditor, perché noi italiani siamo così bravi


The Simpsons, di Matt Groening.
Sabato scorso è morto Tonino Accolla. Giornali e social network ci hanno messo un po' più di un giorno intero per scoprire (andando su Wikipedia, naturalmente) che Accolla non era soltanto il doppiatore di Homer Simpson (e di cento altri personaggi del cinema) ma anche il responsabile dell'adattamento italiano della serie ideata da Matt Groening.

Accolla è il simbolo di una capacità tutta italiana, che quando viene messa alla prova risplende di creatività: quella del traductor traditor. Come Accolla spiegò in un'intervista "se io leggo ‘eat my short’ e metto ‘ciucciati il calzino’, in italiano ha un altro senso rispetto a ‘mangiati le mutande’, oppure se ‘why do you lil’, non vuol dire assolutamente nulla per noi e dico ‘brutto bacarospo’, la cosa cambia completamente".
Tonino Accolla.
Accolla aveva tutte le ragioni nel rivendicare il suo apporto creativo- non sempre riconosciuto-  alla saga dei Simpson. D'altronde, Tonino Accolla è lo stesso che letteralmente inventò la risata di Eddie Murphy (e provate a ritrovare la stessa risata nell'originale: non c'è).
Ogni traduttore è un traditore, come ci spiegano gli antichi. Ma è un tradimento molto difficile a farsi, uno skill nel quale noi italiani abbiamo sempre eccelso. Se ci chiedessimo ogni tanto il perché capiremmo qualcosa di più sulle nostre caratteristiche originali.
Negli anni '40, un professorino di Carmagnola, che veniva dalle esperienze della goliardia torinese, fianco a fianco con Norberto Bobbio, venne assunto per tradurre in italiano i fumetti Disney che arrivavano da oltreoceano.
Guido Martina (al centro), una rara foto ritrovata
da Franco Ressa e pubblicata da Luca Boschi.
Si chiamava Guido Martina, aveva lavorato con Nizza e Morbelli (quelli dei Quattro moschettieri radiofonici), aveva già dalla sua qualche esperienza di documentarista e qualche lavoro sui giornalini satirici. Fu lui a inventare nomi come "Paperon de' Paperoni" (Ungle Scrooge), "Banda Bassotti" (Beagle Boys), "Archimede Pitagorico" (Gyro Gearloose). E fu sempre lui a scrivere centinaia di storie pseudo-disneiane, pubblicate nei decenni dal settimanale Topolino, in cui Donald Duck e Uncle Scrooge combattevano all'arma bianca una battaglia di sopravvivenza, così diversa dal clima delle storie originali di Carl Barks ma anche così vicina alla sensibilità italiana del dopoguerra. (E Paperon de' Paperoni è un nome molto più bello di Scrooge Mc Duck).
Quando Alberto Sordi si trovò di fronte al compito di doppiare Oliver Hardy ne I diavoli volanti (Flying Deuces, 1939)  la colonna internazionale ancora non esisteva, per cui se doppiavi dovevi buttare via tutto, musiche comprese. In sala d'incisione Sordi si ritrovò Shine on Harvest Moon, cantata da Ollio-Oliver con voce flautata. La canzone fu subito sostituita con un adattamento di A Zonzo, la canzone scritta da Riccardo Morbelli per Ernesto Bonino. Ma Sordi che canta A Zonzo è molto più divertente di Hardy che intona Shine on the Harvest Moon, così come l'interpretazione comica di Sordi è molto più potente della voce originale di Oliver Hardy.
Oliver Hardy canta Shine on the Harvest Moon.

Quando a noi italiani viene proposta un'idea (verrebbe voglia di dire un format) già sviluppata, potente, affermata nel mondo, perdiamo ogni timidezza e ritrosia e riusciamo finalmente ad osare: com'è stato per il western all'italiana di Sergio Leone e di tanti altri, o con i disney all'italiana nati a Milano e poi diffusi in tutto il mondo. Evidentemente non crediamo abbastanza in noi stessi. Ci serve una legittimazione che venga dall'esterno. Quando si discute di format, di televisione o di cinema italiano dovremmo riflettere un po' su questo nostro storico pregio/difetto.

martedì 9 luglio 2013

Photoshop solo a noleggio: la proprietà è un furto



Adobe Photoshop, creato nel 1990 da Thomas Knoll.
La proprietà è un furto”. Quello che era il vecchio slogan del socialismo utopistico ottocentesco ha avuto un improvviso revival, ma dalla parte dei “capitalisti”. La tendenza generale delle grandi aziende commercializzatrici di software (dove per software si intendono tutti i beni immateriali distribuibili via rete: musica, video, programmi e applicazioni) viene dagli Stati Uniti ed è assolutamente univoca: abolire il diritto di proprietà. Prima comperavi un disco (magari di vinile); un dvd (o una cassetta vhs); una copia di Word (e dopo 15 anni continuavi ad installarla sui pc o mac che nel frattempo cambiavi). Adesso non comprerai più niente: pagherai per una licenza d’uso. Musica, film, serie tv e programmi per computer saranno come l’acqua o l’energia elettrica; qualcuno ha in mano il sistema di distribuzione e anche i rubinetti che decidono l’erogazione.
L’ultimo clamoroso esempio è quello di Adobe. Adobe (leggi, per favore, Adobi) è l’azienda di software di San Jose per la quale 23 anni fa Thomas Knoll inventò Photoshop, un programma che è diventato un verbo (“photoshoppare”). Negli anni, Adobe, facendo shopping tra le varie aziendine in crisi della Silicon Valley, si è comperata anche After Effects (quasi uno standard per il compositing di fascia media e gli effetti speciali); Flash (l’applicazione per il web considerata mangia-Ram e per questo tanto odiata dalla buonanima di Steve Jobs). Per non parlare di tanti altri programmi, tra cui l’ubiquo Adobe Acrobat (quello dei pdf), e varie altre applicazioni per il montaggio (Premiere) per la musica, per i siti web ecc. Oggi Adobe, dirimpettaia amata/odiata di Apple, produce i software più usati dai creativi di tutto il mondo.

Cos’ha deciso adesso Adobe? Ha deciso che dalla sua prossima release (Adobe CC, cioé Creative Cloud) l’intero pacchetto dei propri programmi sarà distribuito soltanto in “renting” digitale, cioè sarà soltanto noleggiato. Pagherai un tanto al mese (60 dollari, che diventano 30 come promozione iniziale), in cambio riceverai gratuitamente ogni aggiornamento del software ecc. ecc. Ma Adobe CC non sarà tuo. Se non paghi l’affitto, fuori. E tutto torna sulla nuvola. Un sistema interessante per le aziende che annualmente aggiornavano tutti i software (in Italia, quasi nessuna). Molto punitivo per chi aggiornava una volta ogni morte di Papa.
E-Book in streaming nelle scuole americane.

L’idea è probabilmente anche quella di sconfiggere la pirateria, che nel caso del software da noi è quasi la regola, anche per le aziende. Un giorno chiamai quelli di Microsoft per controllare se il sistema operativo di una delle macchine fosse originale e dall’altro capo del filo quasi si commossero. Non parliamo dei paesi dell’Est Europa. Quindi la scelta di Adobe è: puntiamo a mungere fino in fondo la fascia di mercato che non può fare a meno dei nostri software. E stronchiamo, in questo modo, chi si serviva delle copie pirata. Se la scelta sarà lungimirante lo vedremo.

Ma nel frattempo, se ci pensate, è tutta la filosofia del software che si sta spostando in questa direzione: Microsoft ci sta provando con Office 365; iTunes è quella meravigliosa libreria musicale di Apple per la quale avete speso un sacco di soldi e che non potrete tramandare ai vostri figli come avreste fatto con una paccata di vecchi cd (sono licenze, non contratti d’acquisto). E oggi lo stesso iTunes subisce la concorrenza di Spotify, che punta tutto sullo streaming, tanto da costringere Apple a correre ai ripari con iTunes Radio. Con Spotify non hai neanche l’illusione di possedere le canzoni conservandole sul tuo hard disk: tutto arriva in tempo reale dalla rete e lì rifluisce, un juke box gigantesco e inafferrabile. Ma in fondo Hulu e Netflix cosa sono se non un modello di fruizione di film e serie tv che non ti lascia la possibilità di “possedere” neanche la pellicola che hai nel tuo cuore (nel mio caso, 2001)?
WWDC 2013: Apple presenta iTunes Radio.

Tutto questo avrà pure un senso. In fondo anche per i libri si aprono interrogativi simili: e se dall’e-book si passasse, come molti già sostengono, allo streaming dei libri? Certo, saremmo tutti più leggeri. Niente più quel meraviglioso effetto feticista delle proprie librerie e discoteche (meraviglioso per noi quattro gatti, sia chiaro, gli altri ti dicono “ma li hai letti tutti?”). Non pagherai più i libri. Pagherai il diritto d'accesso a un libreria digitale. Niente più diritto di proprietà. Per venderci il comunismo ci voleva il capitalismo.

domenica 7 luglio 2013

Freccero in pensione?

Carlo Freccero.

Segnate questa data: 31 agosto. Il 31 agosto 2013 la Rai manderà in pensione Carlo Freccero.

Nell'ottica della spending review Freccero non è certo l'unico dei dirigenti Rai che, raggiunta l'età, saranno pensionati. La Rai calcola così di realizzare legittimamente un sostanzioso risparmio sul costo del lavoro.

Mettiamo che tutto questo abbia un senso. E che il costume di far seguire al pensionamento qualche anno di consulenza sia da abbandonare, perché è una consuetudine solitamente molto più vantaggiosa per chi la consulenza la fa che per l'azienda che la riceve. Mettiamo anche che la classe di dirigenti Rai che si avvia alla pensione in queste settimane (e che costituiva l'anima degli uomini di prodotto dentro l'azienda pubblica) sia stata un tappo verso il rinnovamento del management e della creatività. Mettiamo. Mettiamo infine che tutti i difetti che vengono attribuiti a Carlo Freccero siano reali: è egoriferito, non sa tenere i conti, è imprevedibile, non è aziendalista, “mi ha creato un sacco di casini”, non ha spirito gregario, ecc. E allora?

L'idea di fondo di tanti che si sono accinti a mettere mano all'azienda pubblica televisiva è che fare tv sia qualcosa di non molto diverso dall'occuparsi di autostrade, o linee aeree o provider telefonici. C'è una greppia che bisogna disboscare, ecc. Qua tutti mangiano, ecc. (Discorso che neanche il più spericolato polemista potrebbe fare su Freccero, comunque). Quindi: riportiamo tutto a una sana gestione aziendale e le cose torneranno a posto.

Peccato che questo non basti. Basta affacciarsi in Europa e vedere la situazione della altre aziende pubbliche per rendersene conto. La tv, anche nell'era di internet, è tuttora protagonista della comunicazione. E' presente ormai su tutti i mezzi, telefoni e tablet compresi, puoi vederti un programma il giorno dopo sul computer, ecc. Ma è sempre televisione. Quindi il contenuto è ancora una volta sovrano. Ancora più di prima. Il contenuto, il brand, l'ispirazione editoriale. Serve un po' di “ingenuity” - che non significa ingenuità. Servono visionari. Allora, se la televisione è della stessa materia di cui son fatti i sogni, ad onta dei giri di soldi (in verità sempre meno) e della pubblicità, rinunciare a uno come Freccero non sembra un'operazione lungimirante. Proprio perché è impossibile ricondurre Carlo Freccero allo schema e ai ruoli di un “funzionario” tv.

lunedì 1 luglio 2013

I dieci giorni in cui chiusero la Rai

Il canale della tv pubblica greca dopo lo spegnimento del segnale.
[Ripropongo qui il pezzo uscito sul
Venerdì di Repubblica del 28 giugno.]
E se un giorno accadesse in Italia quello che è successo in Grecia, con la chiusura (perlomeno temporanea) dell’emittente televisiva pubblica? E’ solo fantapolitica?
La crisi economica, che ha portato a una contrazione a due cifre degli investimenti pubblicitari in televisione, mette i bilanci delle emittenti tv (pubbliche e private) in uno stato di sofferenza che mai avevano sperimentato. Per una realtà pubblica che aveva ridefinito la sua fisionomia, nello scorso ventennio, all’interno di un mercato in cui i soldi giravano, eccome se giravano, è uno shock economico e finanziario, ma anche culturale. La situazione italiana non è quella greca, i tagli sono stati fatti e hanno già inciso sulla carne viva dell’emittente pubblica, e si continueranno a fare. Ma se un giorno l’impensabile accadesse davvero? Proviamo a prevedere i dieci giorni successivi allo spegnimento di mamma Rai. 

Trasmetttori di Rai Way.
Il primo giorno i tripudi dei nemici "degli sprechi, dei contratti milionari, degli appalti, del nazional-popolare, delle fiction-canile e dei tg venduti ai partiti" sommergeranno qualunque discorso razionale. Anche perché, nel corso dei decenni, sprechi e orrori castali sono obiettivamente avvenuti. Forti del clima generale, editorialisti "liberali" si affretteranno a gioire per la fine dell'anomalia statalista di uno Stato che “finanzia le ballerine e i giochi a quiz”. Qualcuno evocherà le nequizie dei reality e gli orrori dei "matrimoni della Marini" trasmessi sui canali pubblici.

Il secondo giorno parleranno i sindacati. Spiegheranno –con un lamento sentito troppe volte- che le risorse interne Rai non erano state utilizzate al meglio perché era stato dato troppo spazio agli “appalti”. Nessuno si periterà di ricordare che il problema è più complesso: in Gran Bretagna la Bbc affida in toto a società esterne perfino la realizzazione di Question Time (la loro Tribuna politica). E nessuno informerà del fatto che il costo al minuto della programmazione Rai è tra i più bassi tra quelli di tutte le emittenti pubbliche europee, quindi i soldi sono andati da altre parti, non sui programmi, interni o esterni. (Per realizzare un’inchiesta come quelle di Report una tv pubblica tedesca, francese o britannica impiega il quadruplo di risorse). E insomma nessuno dirà che forse sarebbe stato il caso di battersi per migliorare la competitività e lo standard delle produzioni interne, per poterle vendere meglio all’estero, più che polemizzare contro i giochini dell’Endemol.
Manifestazioni ad Atene contro la chiusura della Ert.
Il terzo giorno interverranno gli economisti e gli esperti del settore, magari ospitati dai supplementi economici dei quotidiani. Si cominceranno a sentire discorsi meno banali e si metterà a riposo il populismo, e qualcuno ricorderà che la Rai aveva appena annunciato che, nell’attuale situazione di risorse e frequenze, non sarebbe passata in toto all'Hd prima dei prossimi 15 anni, e vai a vendere all’estero un programma in definizione standard quando nel mondo già si lavora sul 4K, termine incomprensibile col quale si definisce un fotogramma televisivo 20 volte più grande dell’attuale.

Qualche altro analista, parlando di risorse per fare le cose, noterà che tenere in vita 6 diverse testate giornalistiche (erano 9) per dare le stesse notizie è una scelta politica che appartiene ad un'altra era geologica, quella dei partiti spendaccioni. E che con quei soldi si sarebbe potuto realizzare un vero ammodernamento tecnologico della tv pubblica.

Il quarto giorno ci si comincerà ad accorgere che la vita senza Rai, e senza poter criticare la Rai, è più noiosa.
Montalbano, una delle poche
serie italiane diffuse nel mondo.
Il quinto giorno gli inserzionisti cominceranno a fare i conti. E a dividersi tra quelli che, spinti dai loro azionisti, decideranno di raddoppiare l'investimento su Mediaset e quelli che cominceranno a chiedersi se alla fine consegnarsi in toto a Cologno Monzese sia la scelta più lungimirante. A La 7 faranno i salti di gioia per gli ascolti finalmente a due cifre, ma alla fine della giornata il virtuale monopolio mentaniano dell’informazione comincerà ad affaticare anche i suoi più fedeli seguaci (e Mentana stesso).

Il sesto giorno il cinema italiano "finanziato con i soldi pubblici invece di misurarsi con il mercato, bla bla bla" chiuderà. Letteralmente. E si butterà via il bambino con l’acqua sporca (che era tanta, per carità). Senza tener presente che il modello hollywoodiano ormai produce solo succedanei dei videogiochi, e che negli Stati Uniti per trovare innovazione e creatività bisogna andare sulle serie tv e sul cinema finanziato dalle televisioni.

Il settimo giorno tutte le televisioni private decideranno che, tutto sommato, produrre programmi dalle sette di mattino all’una di notte è un investimento inutile, basta comperare dei telefilm.

L'ottavo giorno si comincerà a discutere del futuro.

Ci si comincerà a chiedere non tanto se 10.000 dipendenti Rai fossero troppi (la Bbc, anche dopo la cura da cavallo degli ultimi tempi, ne ha 17.000) ma se, negli anni, fossero stati utilizzati bene, selezionati meglio e formati adeguatamente alle nuove realtà editoriali e tecnologiche. E magari se fossero stati, nei decenni, motivati a sperimentare, rischiare e dare l'anima o invece depressi e frustrati dal carrierismo dei più ammanicati.

Poi qualcuno si chiederà se aver assimilato la Rai in toto ad Ente pubblico, come se chi costruisce un varietà potesse sottostare alle stesse regole di chi realizza un tratto di autostrada non sia stato un enorme regalo alla concorrenza privata.
Una slide della presentazione di Alberto Morello, del Centro Ricerche Rai
di Torino: senza il "second dividend" niente Hd.

Allora il carrozzone andava bene così? Qualcuno si chiederà se non avevano avuto ragione, tutto sommato, gli inglesi quando avevano costruito due aziende pubbliche televisive: una che fa servizio pubblico pagato dal canone (la Bbc) e una (Channel Four) che deve raccogliere soldi con la pubblicità e in cambio ha diritto di sperimentare, di sbagliare e anche di scandalizzare. Channel 4 ha trasmesso per anni Il grande fratello ma produce anche documentari di alta qualità e serie tv innovative (capolavori come Black Mirror e tutto il filone del cibo da Gordon Ramsey a Jamie Oliver, ad esempio); ha una veste grafica di altissima qualità, un linguaggio molto fresco, piace al pubblico giovane e fa lavorare i giovani. Per legge non produce niente in casa: ma i prodotti di Channel Four sono inequivocabilmente “di Channel Four”. Perché Channel Four è un bravo editore. E in questo modo ha fatto vivere un tessuto di piccole e medie società di produzione che sono fucine di idee e non di raccomandazioni. Sarebbe stato bello se a una rete Rai fossero stati affidati in questi anni i compiti di Channel Four.

Il nono giorno il Commissario Montalbano verrà prodotto da Sky.

E il decimo giorno?

Il decimo giorno qualcuno, su Youtube, rivedrà per caso un’edizione qualunque del Telegiornale Rai delle 13.30, anno 1968. Uno dei programmi di news più moderni al mondo, all'epoca. Ai lati di un grande schermo, per quei tempi avanzatissimo, sedevano, come anchorman, Andrea Barbato e Piero Angela. In collegamento c’erano Furio Colombo, Jas Gawronsky, Ruggero Orlando.

Allora non era così difficile fare buona tv. Anche in Italia. Magari ci si potrebbe riprovare. In fondo, c'è un unico motivo che rende ancora necessaria l'esistenza di una forte tv pubblica: elevare lo standard di tutto il sistema, costringere anche i privati a fare una tv migliore. Altrimenti, muoia Sansone con tutti i filistei.