sabato 29 settembre 2012

Invece di leggere i sondaggi, leggete l'Auditel



A fine settimana, ecco il report: per quanto riguarda la vicenda de La7, la cordata italiana di Clessidra (Sposito con il super-partner/advisor Marco Bassetti) rimane la favorita. Complicato, anche se non impossibile, immaginare una partnership tra questa cordata e il gruppo Discovery (che dovrebbe rifornire di format e library la 7 deprivando però, in questo modo, il suo RealTime, unico vero successo editoriale di questi ultimi anni dopo Rai4). Staremo a vedere. Comunque per ora valgono le cose scritte in precedenza, mi pare.
X Factor 6: non c’è niente da fare, la libertà creativa e il linguaggio più moderno che sono consentiti a chi adatta i format per il pubblico (linguisticamente più scafato, diciamo così) di Sky si riverberano nella qualità del prodotto. E la cosa comincia a dare dei frutti.
Abbiamo avuto ragione (per una volta vorrei dirlo) a sostenere, nonostante i suoi limiti di conduzione, un esperimento innovativo come Pechino Express su Rai2. Come sempre, quando una rete deve ricostruire il proprio pubblico di riferimento, l’operazione non è né breve né facile. Occorre molta pazienza: ma gli ascolti cominciano a muoversi, e quello che è più importante, il target si sta ringiovanendo.
Finito il mattinale, parliamo del dato più interessante della settimana appena conclusa: il crollo di Don Camillo.

Fernandel e Gino Cervi nella serie cinematografica di Don Camillo.

Una quindicina di anni fa ho realizzato un documentario in varie puntate su Don Camillo, con la collaborazione dei figli di Guareschi, che è andato in onda su Canale 5 quando Costanzo ne era direttore. Ed ho imparato un po’ di cose. La prima: il Don Camillo dei film non è esattamente il Don Camillo dei racconti di Guareschi. Rizzoli e i suoi effettuarono quella che oggi chiameremmo un moral suasion sullo stesso Guareschi, ma soprattutto ingaggiarono sceneggiatori come Oreste Biancoli, che poi scrisse assieme a Zavattini Ladri di biciclette; e per i film successivi, scrittori come Benvenuti e De Bernardi, che dello spleen destrorso di Guareschi avevano poco e nulla (De Bernardi si mise a scrivere Il compagno Don Camillo subito dopo aver terminato Matrimonio all’italiana). In sostanza: Rizzoli non voleva troppo anticomunismo perché guardava al mercato cinematografico italiano e non voleva tagliarsi un’importante fetta di pubblico. Tant’è che la rissa al bar tra Don Camillo e i militanti comunisti c’è solo nella versione francese, in quella italiana fu tagliata.
Don Camillo cinematografico finì così per costituire il nerbo pop di quell’ideologia un po’ relativistica che fu propria della Prima Repubblica (è comunista ma è una brava persona, è un democristiano ma ci si può ragionare). Nella Seconda Repubblica Don Camillo fu ampiamente sfruttato da Retequattro soprattutto in fase pre-elettorale, dando alla serie rizzoliana una lettura diversa (ricordatevi che i comunisti esistono). 
Don Camillo: per la prima volta
è sceso al 4%.
Ma comunque anche nella Seconda Repubblica l’effetto rassicurante/catartico e arci-italiano della serie di Don Camillo, con conseguente successo d'ascolto, è stato innegabile, sopratuttto sul pubblico anziano. Tant’è che- assieme a pochi altri film, come la serie di Piedone e Marcellino pane e vino) i programmatori dei palinsesti li hanno sempre considerati dei sempreverdi, una gallina dalle uova d’oro a basso prezzo. La scorsa settimana, per la prima volta (complice Garko, una specie di arma-fine-di-mondo sulle italiane agée) Don Camillo è sceso sotto il 5% (4.72%, picco sugli over-65 e sui laureati). Sarà stato anche perché i programmatori di Retequattro lo hanno replicato fin troppo, ma comunque è successo. Per la prima volta Don Camillo sembra non parlare più di noi. Sembra racccontare un’Italia che non solo non c’è più, ma che non è nemmeno in grado di suscitare emozioni (a favore o contro). Il tema non è più comunisti-anticomunisti, berlusconiani-antiberlusconiani. Tutto sembra far parte di un mondo antico da cancellare (non userò, nemmeno sotto tortura, “rottamare”). Succede nei talk show. E succede anche nella narrativa. Ed è a cose come queste che i dirigenti dei partiti dovrebbero guardare, più che ai sondaggi pre-elettorali (che premiano sempre il committente, chiunque esso sia).

martedì 25 settembre 2012

Gli stranieri possono capire cos'è la 7?


Enrico Mentana. La trattativa sulla 7 è a uno stadio decisivo.

Non ho la palla di vetro e quindi non so prevedere come finirà la vicenda della 7. Mi sbaglierò, ma mi sono fatto un’opinione, anzi due:
1. Il business plan presentato da TiMedia, per quello che ho potuto leggere, è un libro dei sogni poco in sintonia con la situazione reale;
2. Al momento, gli unici che possono comprendere le potenzialità della 7 sono gli italiani.
Cerco di spiegarmi: sul primo punto, prevedere una lievitazione della raccolta pubblicitaria (previsione basata evidentemente su un incremento di share) significa aspettarsi un’ulteriore crescita della capacità attrattiva di un palinsesto da all news di lusso (visto che il daytime non è pervenuto). Quindi significa dire che una tv alla Mentana farà sempre più ascolto. 
Marco Bassetti, ex presidente di Endemol Group.
E se non c’è dubbio che l’arrivo di Santoro farà fare numeri rilevanti alla rete, è altrettanto vero che l’appeal generale delle trasmissioni legate alla battaglia politica è andato scemando, per le ragioni che anche qui abbiamo scritto mille volte (dov'è il nemico? il pubblico più fedele di questi programmi ormai non ci capisce più niente, tutti contro tutti, antipolitica prevalente, mentre spettacoli ingloriosi come quello della Regione Lazio portano, più che alla ribellione, alla nausea). E poi a marzo o ad aprile si voterà. E negli altri otto mesi, di che si parla?
Sul secondo punto: ma un tedesco (RTL), o un americano (Discovery), cosa possono capire di una tv così italiana come la 7? Non rientra in nessuno dei loro schemi (e quando parlo di schemi: non avete idea di quanto siano schematici i manager televisivi in giro per il mondo). E’ una all news? E’ una tv generalista? E’ una tv per maschi adulti cinquantenni che leggono il giornale?
Secondo me un tedesco o un americano capiscono bene solo una cosa: le frequenze e i tasti 7 e 8. Magari per buttarci dentro 12 ore di case ripittate, corsi di cucina e di bon ton. Ma i tasti 7 e 8 non sono affatto garantiti, come ogni cosa nel nostro Paese.
Il paradosso è che le potenzialità della 7 (certo, non lasciando il palinsesto così com'è ma prevedendo un tweaking, inizialmente morbido e poi più imperativo, rispetto ai costi e all’attuale linea editoriale) le possono capire meglio gli italiani. Italiani con una esperienza internazionale, naturalmente. Ma italiani. Anche quelli che ogni tanto vanno a fare un pranzetto a Villa San Martino, Arcore.

domenica 23 settembre 2012

Italia Loves Emilia, i discografici un po' meno

Lorenzo Jovanotti abbraccia Renato Zero durante il loro duetto
a Italia Loves Emilia, andato in onda sabato su Sky HD.
Sabato sera mi sono visto tutto il concertone per l’Emilia su Sky (dopo aver pagato, con soddisfazione, i dieci euro pro terremotati). Secondo me è stata una cosa importante, e non solo perché ha dato una mano agli emiliani - e questo sarebbe di per sé un motivo sufficiente. Ma perché è stato un esperimento del tutto nuovo per la televisione italiana. E come tutte le cose nuove, pone degli interrogativi.
1. Una cosa così importante come Italia Loves Emilia è andata in onda in tv solo per chi ha Sky a casa e la possibilità di accedere alla pay-per-view. La domanda banale è: perché non l’ha fatta la Rai, per qualche milione di persone? Dicono che alla Rai non l’hanno nemmeno proposta. Vabbé. Ma se fosse vero, c’è da rifletterci su. 
2. E’ stato il primo evento di questo tipo (correggetemi se sbaglio) proposto in pay-per-view, e secondo Sky (sto all’annuncio durante la diretta) ha raccolto 50.000 adesioni, quindi 500mila euro. Non è una cifra enorme ma non è neanche bassa, non solo perché 10 euro non sono pochissimi ma soprattutto perché il meccanismo del microacquisto non era così immediato come un one click (e quando le azioni da compiere per concludere un acquisto sono più di una la decisione di spesa dev’essere più convinta, dicono gli esperti). Quindi è una cosa che con altri eventi si potrà ripetere. Scusate se è poco.  Il concerto ha dimostrato che c’è lo spazio. 
3. Italia Loves Emilia è andato in onda solo in HD, come a definire un ambito linguistico in cui Sky si presenta pressoché da sola, “angel of the highest order”. E non perché la Rai non mandi in onda anche lei degli eventi in hd, ma perché quando lo fa non lo sa nessuno. E la trasmissione aveva un’ottima qualità tecnica, a parte qualche sbavatura sull’audio e sui ponti digitali, dovuta, probabilmente, alle poche prove effettuate. 
I pullman dei cantanti mentre vanno al concerto a Campovolo (foto scattate da Jovanotti
e postate su twitter).

4. Quelli che l’hanno visto hanno anche twittato molto. Si conferma sempre di più (non sono certo il primo a dirlo) che i social network e il “secondo schermo” sono il futuro della televisione intesa come broadcast, e cioé come programma visto da tante persone nello stesso momento.
5. Il concerto ha dimostrato che c’è un leader naturale, ancora non sfruttato quanto dovrebbe. Un leader non solo del mondo musicale, un leader generazionale vero. Naturalmente parlo di Lorenzo Cherubini Jovanotti. Che è il Benigni della generazione successiva, e in più ha una visione non provinciale delle cose, se non altro perché gira continuamente il mondo. Un leader vero, e cioé qualcuno in grado di generare entusiasmo, di unire sensibilità diverse e di dimostrare generosità (astenersi cinici blu almeno per stavolta, grazie).
6. Se non ho capito male, il concerto ha anche dimostrato di chi parliamo quando parliamo di discografici. Parliamo di gente che ha pensato fosse una furbata imporre a Sky un accordo capestro in base al quale parte delle esibizioni (e nel caso di Tiziano Ferro, gran parte dell’esibizione) andavano coperte dal talk (giustificabile quando si chiedevano soldi o si raccontavano episodi del dramma emiliano, molto meno per tutto il resto delle chiacchiere. E non è una critica a Cattelan e a Carolina Di Domenico, che se la sono cavata bene). 
Andrea Scrosati (Sky) spiega perché hanno accettato
le condizioni dei discografici.
 
7. Non dubito che anche qualche cantante si sia accodato a queste richieste dei discografici (update: o degli agenti, mi spiffera qualcuno). La loro idea del mercato e anche della difesa della proprietà intellettuale si spinge a ritenere che un utente medio sia in grado di registrare il segnale hd di Sky, superprotetto da una tecnologia a prova di bomba? O pensano che il loro prossimo bluray non avrebbe successo se nel frattempo escono i pezzotti in divx a bassa definizione? Secondo me bisogna comperar loro un biglietto per un giro del mondo, tanto per informarli che siamo da una dozzina d’anni nel nuovo millennio. O raccontar loro cosa ha fatto Louis C.K. negli Stati Uniti.
8. E comunque forza Emilia.





mercoledì 19 settembre 2012

Il futuro della 7, al di là dei rumors

Maurizio Crozza nei panni di Antonio Conte, nel promo
che lancia la nuova serie di Italialand, su La 7.

Qualche idea più precisa su come andrà a finire la vicenda de La 7 l’avremo dopo il 24 del mese, quando cioè saranno aperte le buste con le offerte dei possibili compratori. Per adesso, e molto a occhio, potremmo dire alcune cose:
1. L’ipotesi Mediaset era poco realistica, per mille ragioni. Ed è finita come non poteva non finire. Non se ne capisce bene la dinamica “pubblica”, onestamente, a meno di non fare ipotesi abbastanza complesse che riguardino il “chiamarsi fuori” esplicito e visibilissimo rispetto all’eventuale comparsa di offerte formali da parte di soggetti “non ostili” a Mediaset.
2. Sul possibile ingresso di Murdoch occorre capire quale sarebbe il modello di business, visto che Sky è comunque alle prese con la crisi economica e i suoi riflessi sulle capacità di spesa del ceto medio italiano, che spinge molti abbonati a non rinnovare (e la necessità di arrivare rapidamente al break even, dopo i grandi investimenti fatti in questi anni sulla piattaforma satellitare italiana, dovrebbe venire prima di tutto).
Enrico Mentana.
3. E’ appetibile o meno La 7? Sì, è appetibile. Chi arriva dovrebbe rivoluzionare il palinsesto? Sì e no. Chiunque arrivi, anche se avesse relazioni di buon vicinato con Arcore, difficilmente rinuncerebbe, almeno in prima battuta, ad un asset come Santoro, che può portare da mezzo punto a un punto in più di share del primetime (inteso su base settimanale): con diretto e conseguente risultato economico. E’ più probabile che si assisterebbe ad una ristrutturazione del palinsesto, magari smontando e rimontando i mattoni fondamentali del Lego della 7 (e magari rinunciando a qualche brick meno strategico). E poi quando mai Santoro ha tolto un voto a Berlusconi, soprattutto in tempi di derecha indignada?
4. Chiunque arrivi farà i conti con la forza contrattuale che alcuni dei più importanti agenti di spettacolo hanno acquisito, negli anni, sul palinsesto della 7, con effetti al momento non prevedibili.
5. In ogni caso i soldi messi sul piatto da Telecom per alimentare il palinsesto di questi ultimi due anni erano legati alla necessità di lustrare i gioielli di famiglia in vista della vendita, quindi chiunque arrivi dovrà rientrare in un budget più congruo rispetto alle prospettive di fatturato.
6. Se l’acquirente (o uno dei soggetti di un pool di acquirenti) fosse un content provider internazionale, quel soggetto potrebbe puntare ad economie di scala raggiunte localizzando formati e prodotti seriali nella sua disponibilità. (E ricordiamoci che la vera success story nel daytime televisivo di questi anni è RealTime).
7. Poi, naturalmente, potrebbe finire tutto nel nulla. E La 7 si confermerebbe come l'eterna Isabella di Castiglia della televisione italiana.

domenica 16 settembre 2012

Gli sgangherati segreti del film anti-islamico

Gli attori del film anti-islamico non proiettano ombre (cliccare
sul fotogramma per ingrandirlo).

Ma che roba è? Il film anti-islamico diretto da Alan Roberts che ha provocato le sanguinose proteste di questi giorni (e ha dato al terrorismo carte insperate) non è solamente disgusting sul piano dei contenuti, come ha detto Hillary Clinton; è anche orripilante sul piano della realizzazione. Roberts viene definito  regista di B-movies, ma come director e montatore dovrebbe scendere di qualche lettera dell'alfabeto. Non solo il film (evito il titolo perché non si sa quale sia quello giusto) è girato e montato in modo bislacco, ma i suoi attori non hanno mai visto il deserto (neanche quello del Nevada- che, certo, non è di sabbia).

Neanche nei b-movie si vede un uso così sgangherato di After Effects.

Tutte le esterne ambientate nel deserto sono state evidentemente  realizzate in studio con il greenback (chromakey) e poi "compositate" con cartoline prese chissà dove. Chiunque abbia usato After Effects si accorge che il lavoro sembra fatto da un principiante. Il compositing è realizzato talmente male che il trucco si vede anche a occhio nudo. Gli attori non proiettano ombre sul suolo, come se si muovessero su un pavimento di vetro sopraelevato rispetto al piano dell'azione; le prospettive spesso sono sbagliate; addirittura la luce del sole sullo sfondo arriva dalla direzione opposta rispetto alla luce, evidentemente artificiale, con la quale gli attori sono stati (malamente) illuminati. La realizzazione è talmente frettolosa da far pensare a scene aggiunte o decise all'ultimo momento. E pensare che c'è gente che è morta a causa di questa schifezza.

La Derecha Indignada funziona in tv

Paolo Del Debbio. Il suo Quinta colonna ("Mangio o pago
le tasse?")  regala finalmente un talk politico a Mediaset.

Non sono in grado di intervenire sulla questione “Mediaset vuole comperare la 7”, perché non ho elementi di prima mano e rischierei di dire delle bischerate. Se Mentana ha fatto quel popò di numero in diretta, forse qualcosa ci sarà. Magari grazie al SIC (chiedere a Pilati). E ci sono sicuramente imprenditori “non ostili” al fondatore della Fininvest, pronti a farsi avanti (qualcuno anche esperto del settore). Comunque, oggi c’è un altro dato significativo, anche se i commentatori non l’hanno ancora colto, mi pare.


[Update: ieri, 17 settembre, Quinta colonna versione Del Debbio ha superato il 7% su Retequattro (oltre 1.700.000 spettatori medi), quasi doppiando Lerner. Pubblico anziano, femminile, picco su istruzione elementare. Fenomeno tv da non sottovalutare.]

C'è una novità di rilievo nella galassia del talk show politici: mentre quelli più tradizionalmente “di sinistra” calano (e anche gli speciali di Mentana non fanno i numeri di qualche mese fa) per la prima volta altri talk, condotto da giornalisti e/o intellettuali che appartengono all'area di centro-destra, dopo anni di flop raggiungono ascolti più che dignitosi. E' il caso di Paolo Del Debbio su Retequattro. Ed è anche il caso di Gianluigi Paragone su Raidue. Perché?
Gianluigi Paragone, il primo a sdoganare
la derecha indignada.
  
Cominciamo col dire che Del Debbio è bravo. Adesso è anche dimagrito, da giovane era un bel fieu, come si dice a Milano. E' un intellettuale (in tempi non sospetti scrisse un saggio niente affatto banale sulla tv, Il mercante e l’inquisitore), e pur essendo stato ideologo antemarcia di Forza Italia, ha accettato una lunga gavetta al fianco della D’Urso e poi della Panicucci nei programmi del mattino. Del Debbio è una mente politica. Ma in fondo Michele Santoro che cos'è se non una mente politica? Sì, è un bravissimo drammaturgo, ma ogni bravo drammaturgo è a suo modo un politico, deve orchestrare. Bene: cos'ha orchestrato Del Debbio? Si è buttato sulla rabbia, l'incazzatura della gente e l'antipolitica. Grillo docet. Tanto il presidente mica è Berlusconi, è Monti. Ma attenzione, non l'ha fatto con i toni della Santanchè, toni efficaci solo in qualche mercato ittico e nelle vicinanze di villa San Martino. L’ha fatto con i toni del padre di famiglia. Della persona con la testa sulle spalle. Indignato sì, ma con stile. E funziona. Non so se sia una buona piattaforma elettorale per Berlusconi (magari porta qualche voto in più, ma poi chi lo prende su nel governissimo da lui agognato?). Ma televisivamente funziona. 
Barbara D'Urso ha fatto da levatrice alla formula
populista di successo.
Stessa cosa, per verità già dallo scorso inverno, stava facendo Gianluigi Paragone su Raidue. Anzi per esser giusti è a lui che si deve il primo sdoganamento televisivo esplicito della derecha indignada. Della serie "non guardo in faccia a nessuno" ecc. Ma Paragone lo fa con quello stile tra il folletto e il giullare pazzo che gli è proprio, efficace in seconda serata, tutto da verificare in prime time.
Comunque è un dato politico. E non è detto che non conterà in campagna elettorale. Perché se questo “chiede il mercato”, diciamo così, questo faranno tutti i talk, di destra di sinistra. E Monti? Monti sentirà fischiare le orecchie per le urla provenienti da tutto lo spettro del DTT contro le tasse, le fabbriche che falliscono e gli ospedali che chiudono. Insomma: finora, il pubblico dei talk show politici era di sinistra. Adesso sulla fedeltà televisiva di quel pubblico cominciano a serpeggiare dubbi, basta vedere le performance in calo di Lerner. In tutto questo, Ballarò regge sul prestigio da terza camera e sulla fedeltà del pubblico di più antica tradizione. Corrado Formigli è stato bravissimo a reggere infilzando Grillo, ma in altri tempi
Michele Santoro: si sta scaldando a bordocampo.
 una puntata come quella di due settimane fa avrebbe fatto almeno il 9%. E’ successo che al pubblico di appartenenza (antiberlusconiano per definizione, e già il termine sembra vintage) si è aggiunto un pubblico per rappresentanza: un pubblico incazzato, politicamente meno ideologizzato, in cerca di qualcuno che lo rappresenti. E il populismo mediatico può essere efficacemente interpretato anche dal centrodestra. Ancora più che da un conduttore o da una trasmissione "di sinistra" dai modi pacati, ragionanti ecc., ai confini della noia: insomma zona Lerner. C'è un unico mattatore che può ribaltare il tavolo -e che è bravissimo a fare il capopopolo a prescindere. Si tratta ovviamente di Michele Santoro. Che al suo ritorno potrà dire, parafrasando Renzi, “venga da me anche il pubblico di centrodestra". Ma non per assistere ad una mediazione, piuttosto per vedere il mangiafuoco in azione. Contro tutti. Coraggio, a marzo mancano ancora più di sei mesi.

venerdì 14 settembre 2012

L'intrattenimento tv: che fatica cambiare il menu


Costantino della Gherardesca in Pechino Express: un reality innovativo che ci avvicina alle
altre tv europee, ma avrebbe bisogno di un conduttore (in esterna, naturalmente).

Allora: la Rai sta finalmente cercando di svecchiare il suo linguaggio nell’intrattenimento. Non più soltanto messe cantate da studio ma programmi in location. Non più soltanto formati per nonni e zie ma la ricerca di un pubblico più centrale; e di un linguaggio visivo più moderno. D’altronde, i nuovi pensionati di oggi sono i sessantottini di ieri, saranno pur in grado di misurarsi con qualcosa di diverso dalle gare di vecchie canzoni e dalle rimembranze di Pinne fucile ed occhiali. O no?
In realtà, farlo non è mai facile come dirlo. Se c’è una vischiosità dell’elettorato, perché non dovrebbe esserci una vischiosità delle abitudini (o delle non-abitudini) televisive?
Ho sempre pensato che una rete televisiva assomigli non a un cinema, a un giornale o a un teatro, ma ad un ristorante. O se preferite, trattando di tv generalista, ad una trattoria. Ci sono quelle di antica tradizione, dove mangi sempre le stesse cose ma sai che le mangerai bene (ma a un certo punto tuo figlio si rifiuterà di entrarci); ci sono i posti dove ti infili solo quando i tavoli dalle altre parti sono tutti pieni (ma la volta dopo non ci torni più). Ci sono i ristorantini eleganti, quelli per habitué, ci sono i sushi bar con i loro kaiten. (E poi c'è l'asporto, con i nuovi modi di fruizione, ma vorrei evitare l'ovvio).
Simona Izzo in Pechino Express.
Il dramma è quando la trattoria, dopo aver cambiato più volte menu, un giorno ti propone il sushi o la fusion. Rischi di perdere le signore che si sedevano per l’abbacchio senza catturare quelli che la sera vorrebbero pesce crudo o orzo cucinato nei modi più fantasiosi. Forse prima devi cambiare le insegne fuori, trovare qualcuno di conosciuto che si sieda ai tavoli all’aperto e si faccia vedere, cambiare l’arredo e quasi tutto il menu. E poi devi aspettare. Aspettare, aspettare. Sentendoti fischiare continuamente le orecchie (quello è un flop, quell’altro programma è inutile, perché hanno chiuso il mio che andava tanto bene, ecc.).  L’unica bussola che puoi avere, in questi casi, me l’aveva raccontata tanti anni fa un capo di un network americano. “Sai- mi disse a cena- quando è arrivato il cable e l’HBO [un po’ come oggi sky e internet] abbiamo cominciato a tartassare quelli del marketing. Quali profili restavano scoperti, dove dovevamo infilarci, come massimizzare l’ascolto ecc. Poi un giorno ci siamo stufati e abbiamo detto: perché non mettiamo in onda le cose che ci piacciono? Senza troppa paura?”.
Sì, lo so, i tempi sono cambiati. Ma per rinnovare la tv non basta ascoltare. Bisogna anche parlare. Rendere comprensibile quello che si sta facendo. Credere in quello che si fa ed essere coerenti. E tenere duro. Sempre che i nuovi piatti del menu non siano la vecchia minestra con un diverso nome, naturalmente.

P.S.: Ma in questo lavoro titanico di svecchiamento di linguaggi, che ci stanno a fare -con tutto il dovuto rispetto per le persone coinvolte- le annunciatrici? Nel 2012? Annunciatrici? Ma perché? Ma in quale tv al mondo esistono ancora? Che funzione avrebbero? Con quegli occhi smarriti alla ricerca del gobbo? Con quei soldi non potete prendere uno studio grafico serio che vi faccia una vera impaginazione di rete,  da terzo millennio? Ecco, l'ho detto.

giovedì 13 settembre 2012

Glenville nelle Nomination del Blogfest



Mi dicono di ripetere che glenville/gregoriopaolini.it è entrato nelle Nomination dei Macchianera Italian Awards 2012 (categoria miglior sito tv, evabbé). Come ho già scritto in un precedente post, poiché fino a ieri ho sbandierato le visualizzazioni di Glenville sarebbe ridicolo che oggi ecc.ecc.  Si può votare fino a mercoledì 26 settembre, in vista della Blogfest di Riva del Garda. Purtroppo sono valide solo le schede di chi vota per almeno il 50% delle categorie.
Quindi chi vuole votare per glenville (nella scheda è indicato come gregoriopaolini.it, grazie alla proverbiale pigrizia del mio webmaster) può andare sul bollino in alto o qui. E giuro che non lo scriverò più.

mercoledì 12 settembre 2012

Cristina Parodi e le catene della 7



Cristina Parodi Live, su la 7.
Rimane, per ora, incatenato al 2% il lungo contenitore condotto -con indubbia eleganza- da Cristina Parodi sulla 7. E non è mia intenzione entrare nel dettaglio della struttura del programma, perché  sarebbe indelicato, visto che con Cristina abbiamo percorso un tratto di strada assieme, mettendo su la formula originaria di Verissimo, ormai sedici anni fa.
L’altro motivo per il quale non voglio entrare nel dettaglio del programma è il fatto che, anche con una diversa scaletta e magari con un conduttore meno noto e capace, sempre il 2% avrebbe fatto. Perlomeno all’avvio.
Per due buoni motivi: il primo è che la 7 post-Mentana altro non è che un’estensione della formula Mentana applicata al palinsesto. Una formula efficace nel raccogliere un pubblico maschile-borghese di una certa età, informato, lettore di giornali e probabilmente anche acquirente di automobili, meno efficace nell’espandersi su altre fasce, soprattutto femminili. Non è un caso che il primo segmento della prima puntata di Cristina Parodi Live, con quella specie di intervista doppia stile “Iene buone” a Feltri e, appunto, a Mentana, abbia fatto più ascolto di altre parti, più tradizionalmente femminili, del programma.
Un combattivo Pippo Baudo sul tavolo "organico"
di Cristina Parodi.
(Aggiungo un dubbio: e cioé che la formula che ha dato successo al Tg la 7 e che si è espansa sulla rete di Telecom non abbia in serbo, per l’autunno, i frutti che diede in pieno fallout berlusconiano. Perché la situazione è complicata, complicata, complicata e ansiogena, è più difficile distinguere i buoni e i cattivi –narrativamente parlando, sia chiaro- e l’altalena tra strizzatine d’occhio alla nouvelle vague renziana e attenzione al grillismo in espansione potrebbe avere effetti laceranti sulla linea editoriale della rete).
Il secondo buon motivo è che il pubblico femminile a cui sembra riferirsi Cristina non è pervenuto da un sacco di tempo, nel daytime della televisione generalista. La tv del contenitore della Parodi potremmo definirla middlebrow. Che non è affatto un insulto, anzi. Middlebrow, secondo i sociologi americani del secondo dopoguerra, erano quei media che proponevano un’elevazione culturale della piccola borghesia a suon di dischi di musica classica, romanzi condensati, visite ai musei, enciclopedie a dispense. Il mondo del vecchio Reader’s Digest, che si ritrova talvolta ancora riproposto nei periodici femminili di antica tradizione o nei supplementi dei quotidiani (foto di moda più algide che si può, seguite da servizio in bianco e nero sgranato dagli slum di una metropoli sudamericana, oppure da intervista ad architetto famoso). Ma questa tv filo di perle, che al contrario di Freccero non disdegneremmo (non siamo nemici di un po’ di compostezza dopo decenni di sguaiataggine) non ha più un referente preciso. Le donne giovani di quella che un tempo si chiamava borghesia, le stesse signore di Bergamo alta, oggi guardano Sky e se ne vantano con le amiche; le anziane dei piccoli centri sono fedeli a RaiUno; le incazzate con due telefonini, stirate dalla pressa di Monti mentre stavano per comperare la Smart, guardano Canale 5 e non disdegnano la versione populista-barricadera dell’abile professor Del Debbio, versione colta e rassicurante della D’Urso. In questo contesto di vischiosità delle abitudini televisive non sarà facile espandere il bacino d’ascolto di un salotto elegante, anche se a tratti un po’ lento, come quello di Cristina Parodi. E il commissario Cordier è dietro l’angolo. In bocca al lupo a Cristina, comunque.

sabato 8 settembre 2012

Ascolti: Michelle batte Clinton (e sembra la nostra tv)

Michelle Obama: prima anche nelle visualizzazioni sul web, secondo Visible Measures.
Come sono andati gli ascolti della Convention democratica di Charlotte? Secondo la Nielsen (che è come dire secondo l'Auditel) Michelle Obama è la vera vincitrice della battaglia mediatica appena conclusa. Sommando i vari canali che hanno trasmesso la convention in diretta, la prima giornata, centrata attorno all'intervento della First Lady, ha raccolto una media di 26 milioni di persone. Anche sul web, secondo un'elaborazione di Visible Measures, il video con lo speech di Michelle ha raccolto 2.6 milioni di visualizzazioni nei tre giorni successivi al discorso, più di tutti gli interventi alla Convention repubblicana messi assieme. La settimana precedente, il discorso di Ann Romney, la moglie del candidato repubblicano alla Presidenza, aveva avuto un uditorio medio di 22 milioni di persone. Michelle ha battuto anche il "discorso perfetto" di Bill Clinton, che ha raccolto 20.6 milioni di spettatori (ma Clinton si era scontrato con l'inizio del campionato della National Football League, battendolo di un soffio, perché la partita Giants vs. Cowboys aveva fatto 20.5 milioni. Quindi il vecchio leone è comunque uscito a testa alta).
Per capire come i media americani stiano sempre più assomigliando a quelli italiani dei tempi di Berlusconi, con il pubblico (e l'elettorato) spaccato ideologicamente in due, c'è il dato dell'ascolto sui canali all news: la Convention democratica è stata vista da oltre 4 milioni di persone sul canale news Msnbc (che è considerato quello "di sinistra") e solo da 2 milioni e 400 mila sul canale Fox (che come sanno anche i gatti, è quello di destra). La settimana scorsa era avvenuto il contrario, con Fox News che aveva toccato 6.9 milioni con la diretta dalla Convention repubblicana di Tampa. E la Cnn? 3.9 milioni con la diretta dei democratici e meno della metà (1.5 milioni) per quella dei repubblicani. come dire che la Cnn sarà anche quella più unbiased, ma per gli elettori americani pende un po' più verso i democrats. E poi ci spiegavano che gli schemi europei non servono a capire la politica americana. Forse una volta, non servivano.

venerdì 7 settembre 2012

Del Kindle e dei democratici americani


Bill Clinton alla Convention democratica di Charlotte, 2012.
Volevo scrivere un post sul Kindle Fire, che sta per arrivare anche in Italia (25 ottobre, credo). Il Kindle Fire, come tablet, è davvero un killer product. Costa un’inezia rispetto all’iPad, ha molte delle funzioni dell’iPad, è un po’ più piccolo (e infatti Apple sta per far uscire un iPad mini per contrastarlo), e ci si leggono anche bene i libri (mi rendo conto che quest’ultimo è un discorso di nicchia, ma insomma). Jeff Bezos per certi versi è davvero il nuovo Steve Jobs: ha la follia, l’ingenuity e la caparbietà di chi è in grado di costruire una cosa nuova. Sono contento di averlo fatto intervistare nel 2000, quando tutti quelli che sanno mi spiegavano che Amazon era una fetta della “bolla” tecnologica, e che presto Bezos sarebbe saltato in aria con tutti i suoi libri. Invece lo zompo l’hanno fatto in tanti, ma lui è ancora lì, mentre non si può dire lo stesso di Barnes&Noble.

Eva Longoria.
Invece scriverò d’altro, e cioé della Convention Democratica di Charlotte. In una vita precedente mi è capitato di occuparmi di queste questioni (come sanno quelli che mi conoscono da più tempo), quindi qualche idea me la sono fatta. E la prima è: ragazzi, allora so l’inglese! Sì perché se avete provato ad ascoltare i discorsi (nell’ordine) di Michelle Obama, di Bill Clinton (the king of comizianti)  e perfino di Eva Longoria e Scarlett Johansson, e avete una passabile infarinatura di inglese, avrete capito tutto. Perché i democratici americani sanno da molto tempo che bisogna parlare a tutti gli americani, buona parte dei quali l’inglese non lo sa, perché come diceva quello, “americani non si nasce ma si diventa”. L’unico leggermente più ostico è stato quel secchione di Barack Obama. Ma è la croce che si portano dietro sempre i primi della classe.
Barack Obama.
Ora, chi per avventura abbia letto, tanti anni fa, il bellissimo saggio di Richard Hofstadter (Anti-Intellectualism in American Life, 1964) sa che quello che noi chiamiamo, con inevitabile sfumatura valoriale, il populismo, per gli americani è la consapevolezza di vivere in una società di massa. E’ ovvio che con questa materia incandescente ci si può comportare in vari modi, anche i più turpi. I democratici americani sono riusciti, nel tempo, a trovare una chiave per parlare alla ggente (sì, con due g). E in questo Hollywood, paradossalmente, li ha molto aiutati (l’Hollywood del cinema e delle serie tv), perché ha offerto loro una nuova koiné, un linguaggio attraverso il quale parlare dell’altra faccia dell’ideologia americana, quella appunto rappresentata dal sogno democratico. E quando, aspettando lo speech notturno di Obama, mi capita di imbattermi in una puntata di Piazza Pulita in cui il rappresentante democratico (nel senso del pd) si chiama Boccia e non muove un pallino, beh ecco che il discorso torna tutto.  

giovedì 6 settembre 2012

Glenville: Nomination agli Italian Awards 2012



Un po' mi vergogno ma tutti mi dicono che, visto che glenville/gregoriopaolini.it è entrato nelle Nomination degli Italian Awards 2012 (categoria miglior sito tv, evabbé), devo chiedervi di votare per il nostro blog. Dopotutto, poiché fino a ieri ho sbandierato le visualizzazioni di Glenville sarebbe ridicolo che oggi non ve lo comunicassi. Si può votare fino a mercoledì 26 settembre, in vista della Blogfest di Riva del Garda.
Quindi chi vuole votare per glenville (nella scheda è indicato come gregoriopaolini.it, grazie alla proverbiale pigrizia del mio webmaster che non ha ancora sostituito l'indirizzo principale) può andare sul bollino in alto o qui. Ovviamente ci fa piacere.

mercoledì 5 settembre 2012

Ahi ahi la pubblicità

La pubblicità non tira: la Rai cambia i vertici della Sipra.
A patto di non fare poesia, il problema dei problemi, per la televisione e per il resto dei media, si chiama pubblicità. Anche per il web, dove aumenta (+11,2% nei primi sei mesi del 2012, dati Nielsen) ma non è quell'affarone che qualcuno favoleggiava, almeno per ora, ne sa qualcosa Zuckenberg e soprattutto i malcapitati che hanno comperato le azioni di Facebook.
Se il web tradizionale era una bestia difficile, tablet e smartphone hanno complicato ancor di più la faccenda. La consultazione è sempre più frequente, rapida e nervosa, Twitter, Instagram e WhatsApp si stanno mangiando Facebook, hai tempo scarso per 140 battute, figuriamoci per cliccare su un'inserzione.
I periodici sono un caso a sé, -14,8% (in alcune situazioni siamo già all'accanimento terapeutico), e anche con i quotidiani non si scherza, -13,3%. Diciamoci la verità: quanti ragazzi e ragazze ventenni avete visto comperare l'Espresso e Panorama, negli ultimi due anni? Dico visti con i vostri occhi. Ma alla fine il dato che conta di più è quello della televisione.
Twitter e il mobile mettono
in difficoltà Facebook.
La tv è, sempre secondo Nielsen, a -9,5%. E' un dato su cui già i quotidiani e i loro supplementi economici hanno ricamato (come recita quel proverbio abruzzese, è il bove che dice cornuto all'asino).
Mentre la 7 e Sky salgono (e vorrei vedere che la 7 non salisse, con tutti i soldi che ha speso), Mediaset e Rai piangono, anche se in misura diversa. Mediaset (-11,8%) perde molto meno della Rai (che è a -14,6%, nonostante gli Europei)  e potrebbe chiudere l'anno, con un po' di fortuna, al -9%.
Ma a Mediaset erano abituati a fare i soldi con la pala e adesso tutto diventa molto difficile, e poi sono quotati in borsa (e non hanno mica il canone). Aspettando l'emiro, guardiamo la situazione Rai. Sulla Rai il luogo comune (e come tutti i luoghi comuni ha una solida base nella realtà) è che l'azienda pubblica sia stata sfavorita dal fatto di battersi contro l'azienda dell'ex presidente del consiglio. Vero. E adesso che c'è Monti? Beh, fino a ieri c'erano capi non invisi al fondatore della principale azienda competitor. Ok. 
Mediaset perde meno della Rai,
ma il suo modello di business è diverso.
Tutto vero, ma non basta a spiegare i cattivi risultati. Bene ha fatto la nuova dirigenza Rai a metterci mano. Ma la questione è abbastanza complessa. Non è facile andare dagli inserzionisti, in una situazione di pesantissima crisi, in cui i consumi vengono ormai indicati come lo sterco del demonio, e convincerli a comperare spazi. In realtà la struttura tradizionale della Sipra non è proprio fatta per questo, casomai è un collettore che raccoglie(va) le richieste degli inserzionisti, le distribui(va) e le gesti(va). I canali digitali sono uno strano animale che per la forza vendita di Sipra non è facile maneggiare (ma non crediate che lo sia neppure per quella di Publitalia, lì però van giù di sconti). Poi Sipra ha anche squadre eccellenti, ma il corpaccione ha tempi diversi.
E Rai.tv, che fa un botto di contatti? Ecco, quella bisogna anche spiegarla alle aziende italiane (non crediate che nelle agenzie e nei centri media ci siano solo degli sveglioni).
Soprattutto, c'è un problema di target. La Rai batte Mediaset, ma non è con i milioni di teste che si fanno i soldi, le audience sempre di più non si contano ma si pesano. Sul concetto di "target commerciale" abbiamo già scritto e non ci torniamo, mi limito a ricordare che è un concetto troppo banalizzato, con le categorie tradizionali non si va molto avanti. Ma non c'è dubbio che per una serie di comparti merceologici (non per tutti) Mediaset abbia un pubblico più disponibile e attento. 
Il nuovo Dg Rai,  Luigi Gubitosi.
L'altra settimana anche a me è capitato un problema su un format per il quale una grande azienda americana (ovviamente non la cito) era interessata ad intervenire con un product placement. L'unica condizione era che l'inserimento avvenisse su Mediaset. Quando sono nati problemi che non lo hanno consentito ho controproposto di sentire la Rai, ma la loro agenzia ha risposto secca: la Rai non ci interessa, non ha quel target. E bon. Poi magari ce l'aveva pure, se uno si fosse studiato tutta l'offerta Rai, ma valli a recuperare quando si erano già fatti l'idea. 
Un momento: ma un'azienda pubblica che voglia avere un'offerta da servizio pubblico può intercettare, ad esempio, il target giovane in modo efficace? Forse sì, ma dovremmo valutare l'esempio inglese. 
Dove c'è la BBC, che fa servizio pubblico e non ospita pubblicità, e poi c'è Channel 4, tv pubblica che vive di pubblicità, di programmi anche borderline ma intelligenti, e che non manca mai in una buona pianificazione fatta sul territorio della Regina, perché raccoglie il pubblico giovane e smart. Perché non dedicate un canale a quell'opera corsara, come fanno gli inglesi? Ma che ve lo dico a fare, quelli sono più scetati, come dicono a Napoli. Per l'audience ti buttano giù anche la Regina col paracadute.

sabato 1 settembre 2012

Monti e Pinocchi, da Disney a D'Alò




Pinocchio di Enzo D'Alò, dai disegni di concetto di Lorenzo Mattotti.

Non ho ancora visto il Pinocchio di D’Alò (figlio dello straordinario lavoro fatto da Mattotti, uno dei pochi che da noi possa essere legittimamente considerato un grande artista e un grande narratore). Ma quel poco che ho visto mi ha dato una folgorazione: per la prima volta qualcuno mi raccontava con i cartoon la storia di Pinocchio.
Pinocchio disneyano (1940).
(c) Disney
Ovviamente Pinocchio è soggetto principe per una trasposizione cinematografica. Sul Pinocchio di Walt Disney e dei suoi animatori sono stati scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro, in che è ovvio trattandosi di un indiscutibile capolavoro. Ma il Pinocchio disneyano sta al Pinocchio di Collodi come i cavoli a merenda. E non solo per l’ambientazione che è mitteleuropea invece che toscana; ma soprattutto perché si poggia su riferimenti culturali opposti a quelli dell’Italia unitaria. La chiave del Pinocchio collodiano è lo scontro attorno al mito del Paese dei Balocchi, che è la trasposizione in chiave infantile/pedagogica del mito della Cuccagna, contro il quale devono aver faticato  non poco le élites risorgimentali.
Son stato nel paese di Cuccagna/ o quante belle usanze son fra loro!/ quello che più ci dorme ci guadagna” (Zenatti, 1581)
Pinocchio di Comencini (1971).
Il mito del Paese di Cuccagna dimostrava nel nostro paese la resistenza della cultura contadina nella “dolce illusione” della liberazione dalla necessità, nel vagheggiamento di un mondo in cui “si mangiasse senza lavorare, dove l’abbondanza dei prodotti fosse ottenuta senza fatica”.  Come ricordava Alberto Asor Rosa “il tessuto sociale contro il quale si staglia la vicenda del burattino è un tessuto sociale di penuria e di privazioni; e la storia stessa di Pinocchio è la storia di un bambino povero, continuamente sbalestrato fra l’ispirazione fantastica (del tutto irragionevole) ad un mondo in cui vivere liberato dalle dure necessità quotidiane, e l’aspra constatazione che anche la semplice sopravvivenza costa noia, fatica e dolore”.
Insomma, mentre per l’America della metà dell’ottocento il valore era la frontiera (che è anche proiezione fantastica di bisogni e desideri) per l’Italia postunitaria il convincimento da conculcare doveva essere  quello che “senza un incremento strenuo di questo valore (il sacrificio)  non si sarebbe creata una mentalità e delle abitudini da nazione moderna; che anzi, fra le non molte ‘risorse’ di cui si poteva disporre, il sacrificio, - cioè il rafforzamento altamente soggettivo e volontaristico della tempra morale e intellettuale, - fosse una delle più importanti”. Insomma, stiamo ai discorsi di Monti, e sono passati 150 anni.
Lorenzo Mattotti.
Il Pinocchio di Walt Disney, quello che poi creò Disneyland, poteva  battersi contro il Paese dei Balocchi? No, doveva creare un mondo in cui i cattivi fossero simpatici e l’iniziativa individuale (non i gendarmi) trovasse la soluzione ai problemi di ognuno.
Intendiamoci, il Pinocchio di Collodi è molto più complesso rispetto a quello che potrebbe sembrare, di primo acchito, un pedante romanzo di formazione all’etica pubblica. Collodi/Lorenzini deve accontentare i suoi editori e i genitori borghesi dei suoi lettori, ma dentro ha una vena anarchica, beffarda e sostanzialmente fino-pinocchiesca.  E’ un toscanaccio dei migliori.
Pinocchio di Chiostri (1901)
Ma quante riduzioni cinematografiche e televisive sono riuscite a rappresentare l’ambivalente anima del romanzo? Le stesse illustrazioni di Chiostri, quelle del Pinocchio classico, ce lo descrivono alto, allampanato, segaligno e irrimediabilmente burattino. Un popolano scansafatiche che va istruito, più che alla mobilità sociale, all’immobilismo sociale.  Forse soltanto la mini-serie di Comencini del 1971 riusciva a stare un po’ dalla parte di Pinocchio e non della Fata dai capelli turchini, una poderosa scassacazzi. (Tanto che Disney, come ideologa della situazione, l’aveva retrocessa a favore del Grillo parlante, una specie di commercialista del bon ton vestito da consulente finanziario in bolletta). Lascio perdere, per carità di patria, il Pinocchio di Benigni, pieno di buone occasioni mancate. Ci sarebbe stato bisogno di un autore Pinocchiaccio come Monicelli per raccontarlo con freschezza e libertà.
Ecco, almeno a giudicare dalle animazioni Mattotti-style e da quei magnifici sfondi di Toscana favoleggiata, D’Alò stavolta potrebbe averci preso. Potrebbe avere restituito Pinocchio alla sua dimensione favolistica. Corrusca e, insieme, ilare. Dico potrebbe perché non sono a Venezia e il film non l’ho visto, tranne qualche clip come questa. Che sia bellissimo me l’ha assicurato Mollica, ma si sa -parlando di romanzi ottocenteschi per la gioventù- nel nostro immaginario Mollica è Garrone, il generoso ragazzone di De Amicis che difende tutti, anche se si traveste da personaggio disneyano. Stavolta però spero proprio che Garrone/Mollica abbia ragione.