lunedì 28 novembre 2011

Il Tg1 è ancora generalista?


Ieri il Tg1 ha fatto il 16% e ovviamente oggi tutti parlano del tracollo di Minzolini. Per serietà bisognerebbe aggiungere che non è il dato di ieri il più allarmante per il tg di Minzo. Ieri prima del Tg1 c’era, al posto dell’access prime time (elegante termine anglosassone che definisce il giochino cammellatore di pubblico verso i notiziari serali), mezz’ora di commenti post-formula 1 che avrebbero ammazzato un cavallo, e che hanno lasciato Minzo al 7%.
Il vero problema del Tg1 è semmai un altro: aver perso, grazie alla linea lexotan del suo direttore, la parte più significativa del pubblico attivo e anche dei leader d’opinione. Non che l'emorragia non fosse iniziata prima, ma in questo i dati di ieri in questo sono abbastanza impressionanti: due milioni di spettatori over 65 ma solo duecentomila persone  tra i 25 e i 34 anni; e il picco sul pubblico di istruzione elementare (23%). Mentre il Giornale e Libero le notizie comunque le danno, anche se poi le commentano da par loro, Minzolini ha scelto la linea del troncare/sopire. Con uno spettatore “immaginato” diverso dallo spettatore reale. (In questo modo anche i suoi “commenti” si riferiscono spesso a notizie che lui non ha dato. Come diceva il povero Lamberto Sechi “i fatti separati dalle opinioni”, ma senza i fatti).
E’ una linea efficace, anche solo propagandisticamente?  Ho capito che è ormai passata l’idea che su Raiuno la sera ci siano quelli che Boncompagni chiama i “telemorenti”, in gran parte vecchie signore che nulla sanno del mondo e che possono essere imbonite o meglio tenute all’oscuro dei fatti più spiacevoli, magari limitando a 40 secondi la storia di Ruby ecc.  Ma questo, oltre che un vulnus alla tradizione -governativa quanto si vuole ma anche istituzionale- del Tg1, dimostra la non conoscenza del veicolo. Il Tg1 è forte quando parla a tutti, magari lasciandoli scontenti ma offrendo comunque un’agenda di notizie notiziabili non troppo lontana da quella che può interessare la classe dirigente. E’ lo stesso problema di Raiuno: “generalista” non significa “per anziani”, generalista significa per tutti, o perlomeno per tutti quelli disponibili a un setting collettivo dell’agenda, o se preferite a una messa cantata. 

sabato 26 novembre 2011

La tv di Apple: se arriva scassa tutto?

Una simulazione non ufficiale di quello che potrebbe essere il tv Apple
Mentre la crisi avanza e i commentatori della tv italiana si interrogano sul futuro dei talk show nel dopo Berlusconi ("e 'sti cazzi?", come direbbe D'Agostino) quietamente e irresistibilmente Apple sta preparando una nuova rivoluzione, un’offensiva sanguinosa che stavolta metterebbe (almeno sulla carta) in pericolo sia i network che i produttori di hardware (le aziende che costruiscono i televisori, insomma): l’iTv. E cioé la tv (ri)pensata da Steve Jobs.
Semplice da usare (basta con quegli incomprensibili telecomandi), bella da vedere, nuova nei modi di fruizione e di distribuzione (iTunes docet). Per realizzare gli schermi a TFT amorfi che saranno decisivi per i nuovi televisori (sottili come quelli in uso sugli iPad e iPhone) Apple ha abbandonato l’ex partner Samsung, che è diventata la nemica giurata da quando si è messa in concorrenza sul mercato dei tablet. 
Steve, anche dall’oltretomba, non perdona. Oltre a riempire di cause contro Samsung tutti i tribunali del pianeta Apple si è rivolta a uno degli arcinemici di Samsung, quella Sharp che finora non era considerata il top dei costruttori di televisori, almeno per fatturato. Immagino la faccia del CEO di Sharp dopo aver concluso l’accordo, nel board gli avranno fatto la ola. Ovviamente Sharp ha fatto grossi investimenti per rinnovare le linee di produzione, e in cambio dell’agreement fornirà ad Apple pannelli molto avanzati tecnologicamente a un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza.
Tim Cook, nuovo CEO di Apple

Ma cosa sarà questa iTv? Peter Misek, un analista della Jeffries di New York che ha segnalato tutta la vicenda, non è in grado di dirlo. Prima di tutto resta da vedere se ITV, il network privato che è nato 55 anni fa in Inghilterra farà passare l’uso di un nome pressoché uguale per un prodotto che sarà anche aggregatore di contenuti. Tutto ha un prezzo, ovviamente.
La vera domanda però è: quale tasso di innovazione avrà l’iTV rispetto ai televisori presenti sul mercato? E cosa si inventerà l’Apple per allargare anche al “vecchio” televisore l’ecosistema integrato (e integralista) che già oggi lega in un abbraccio indissolubile Mac, iTunes, iPhone, iPad? Avverrà come nel mercato dei telefonini, dove Apple ha sfondato a spese di Nokia, Motorola ecc. ma soprattutto ha aperto un nuovo segmento? iOS 5 rulez?
Intendiamoci, non è che tutte le ciambelle riescano col buco anche a Cupertino: anche Apple Tv, l’aggeggio per riprodurre video via rete o wireless tra le mura di casa non ha sfondato, proprio a causa delle sue limitazioni rispetto ai prodotti della concorrenza: puoi noleggiare film ma solo da iTunes, puoi vedere i video che hai sul computer ma solo se sono convertiti in un formato che piace a iTunes ecc.
Un "volantino" sottocosto
Non c'è dubbio che la tv sia una bestia difficile da domare. Ma il questo caso l’operazione è ben più ambiziosa, e secondo me può essere fermata solo affossando lo sviluppo della rete veloce in Italia. Quindi, in pratica, fermando la storia. Altrimenti voglio proprio vedere cosa possono fare Sony e Samsung contro un televisore fighetto ma non costosissimo, che cambia canale se glielo chiedi a voce (usando Siri, che capisce persino i dialetti indiani), che usa la metafora della App non in modo sgangherato come i suoi concorrenti ma da proprietario dell’idea (e chi ha comperato le App per il suo iPhone e iPad se le ritroverà sul televisore),  e infine che ha la potenza di fuoco per fare accordi commerciali sui contenuti imparagonabili con quelli della concorrenza. E poi: da anni la guerra commerciale nel campo dei televisori è tutta basata sul prezzo. Chi riesce a imporre un prodotto premium, anche solo con un delta limitato rispetto al prezzo che i consumatori sono oggi disposti a pagare per un 32”, ha svoltato. Addio volantini di Mediaworld.
E infine: quante volte ci siamo chiesti chi ha progettato quell’incomprensibile oggetto sadomaso che sono i telecomandi dei televisori? Risposta: degli ingegneri. Chi ha progettato i computer Windows? (Ah, quel meraviglioso control panel!) Risposta: degli ingegneri. Chi è così fesso da non usare a palla una tecnologia brillante come Kinekt? Risposta: degli ingegneri. Ma Steve Jobs, fino al suo letto di morte, se n’è fottuto degli ingegneri. A meno che non facessero quello che voleva lui: oggetti del desiderio semplici e belli.

venerdì 25 novembre 2011

All News a Milano 2: è finita la Mediaset di Emilio Fede?

Lo studio di Tgcom24 a Milano 2

Mediaset si è spinta un po’ più in là nella presentazione delle sue All News e per bocca di Piersilvio Berlusconi ha esplicitato che dovranno essere date “tutte le notizie” e non solo quelle che fanno comodo. Staremo a vedere: dipenderà, immagino, anche dalle pressioni del “Fondatore”. Dati i predecenti lo scetticismo è comprensibile. E comunque un canale news si giudica giorno per giorno. E’evidente che la macchina data in mano a Mario Giordano sarà una cartina al tornasole per capire la mediaset che verrà. Anche perche essendo palesemente rivolta alla "classe dirigente" (niente talk, niente infotainment, quindi niente concessioni al pop) si rivolgerà a un pubblico esigente e non confondibile con gli aficionados di Emilio Fede.
Mario Giordano
Ma la questione: “quali All News?” è più generale e vale anche per le realtà esistenti, prima fra tutte Sky, per non parlare di Rai News 24. Il modello Cnn (o per meglio dire Cnn International, perche la Cnn che si vede in America è tutt’altra cosa e deve combattere quotidianamente con Fox, quasi sempre soccombendo), e cioé il modello di palinsesto fatto di un "rullo" di notiziari da 30 e 60 minuti che ripropongono più o meno asetticamente tutte le notizie ogni mezz’ora è un modello che andava bene quando internet (web e mobile) non avevano l’importanza che hanno adesso. 
Sara Varetto: sta rinnovando le all news di Sky
Oggi se uno vuol essere aggiornato al minuto sulle notizie "notiziabili" usa internet. Basta un tweet, un colpo d'occhio (magari dal proprio smartphone) al sito del corriere o di repubblica (o del giornale, per gli amatori) o l'uso diretto degli aggregatori di google. Quello che oggi il pubblico più affamato di notizie sembra chiedere alla tv è l'approfondimento delle "developing news". In pratica ciò che ha fatto in questi mesi Mentana con il suo Tg la 7. Scegli una o due notizie centrali e vai su quelle, approfondendo, sentendo tutte le campane, seguendo passo passo l'evoluzione. Siano esse di politica (la crisi di governo) siano di cronaca (un'alluvione). In questo il mezzo televisivo, soprattutto se fa da motore di un sistema multipiattaforma (web, app sui dispositivi mobili, uso del citizen journalism, magari pagando chi manda video e foto) è tuttora impareggiabile.

Corradino Mineo, direttore di Rai News 24
In questo quadro Rai News 24 , nonostante la buona volontà un po’ barricadera di Mineo e della sua redazione, ha le mani legate dagli investimenti risibili sul canale news. Ma va anche detto che oggi un broadcaster, sia pure potente, non può permettersi tre redazioni di telegiornali “di canale” più una quarta per un canale news dedicato (più una quinta, magari, per il televideo). E’ una cosa che ha senso solo per far contenti i partiti. Perfino la Nbc ha unificato redazione delle news generaliste e redazione del canale news, così sta facendo la Bbc. A occhio, nel medio periodo la redazione unificata delle all news significherà per mediaset una campana a morto per il tg4 e studio aperto, visti come redazioni indipendenti. Se si rinuncia all’ uso politico-governativo delle news si dovrà rinunciare, almeno gradualmente, anche alle redazioni ideologizzate. Un discorso che vale sia per mediaset che per rai. Già sento i pianti e gli strepiti: ma le rivoluzioni si fanno sempre quando mancano i soldi.

giovedì 24 novembre 2011

I Mis*eri dell'Auditel


Ieri sera non ho visto Matrix con Michele Misseri, per cui non posso fornire giudizi moralistici, che almeno sulla carta verrebbero facili. D'altronde anche la storia della stampa quotidiana è piena di processi e casi di nera cavalcati per anni, da noi come nel resto del mondo. 
Non so come sia stata trattata la "confessione" di Misseri da Vinci e a questo punto non so neanche quanto mi interessi. La cosa che invece mi ha colpito è il risultato d'ascolto: 17% di share. Sicuramente sopra la media di Vinci ma in assoluto niente di che, viste le premesse. E il dato più significativo è che le Iene, nel periodo di sovrapposizione (cioé per quasi metà della durata del programma) hanno battuto sonoramente Matrix (fino a 5 punti di distacco). A fare i ragionieri dell'auditel potremmo dire che un programma di prime time gode sempre di un vantaggio anche sulla più forte delle seconde serate. Ma è anche vero che le Iene non è andato in onda su una rete leader come Canale 5, e ciononostante ha battuto l'ammiraglia. 
Un risultato che vale il doppio per gli inserzionisti: il pubblico delle Iene è sicuramente più "pregiato" (mi scuso per il termine vagamente razzista, ma stiamo parlando di marketing a casa della tv commerciale) rispetto a quello che ha seguito Vinci: più giovani, più laureati, più famiglie giovani delle grandi città.
Al netto dell'efficacia o meno della conduzione, la spiegazione più ovvia è che la tv (e soprattutto la tv commerciale) abbia ormai sfruttato fino alla consunzione il "format" Avetrana, e che l'insistenza sull'argomento sia anche il risultato di una stanchezza creativa, se non di una debolezza strategica. Non escludo che un qualche moto di imbarazzo abbia allontanato una parte del pubblico. Perché se è vero che gli argomenti morbosi attirano le folle è altrettanto vero che a nessuno piace essere riconosciuto come spettatore morboso: e quando l'operazione è troppo esplicita ritrarsi dal peep show può essere una decisione collettiva. Il pubblico generalista, soprattutto il pubblico femminile centrale che è lo zoccolo duro di Mediaset, è ben conscio ormai dei meccanismi e delle tattiche di massimizzazione dell'ascolto, e li accetta come parte di un gioco di cui si sente giocatore. Ma quando il fallo è troppo evidente solleva il cartellino giallo come qualunque arbitro.

mercoledì 23 novembre 2011

I Tg e il teorema Paolini (Gabriele)

 

Tornano a girare i rumors su Minzolini e i possibili prossimi cambi al Tg1. Ma invece di parlare di nomine Rai, quasi un genere letterario per molti direttori di giornali,  mi viene in mente l’anchorman più noto dei Tg italiani, il mio quasi omonimo Gabriele Paolini. Tanto per rilassarsi un po'.
Tutti sanno chi è Gabriele Paolini: è il più famoso presenzialista televisivo italiano, quello che appare alle spalle dell’inviato di turno e sussurra frasi storiche tipo “Berlusconi ha il pisellino” o “usate i preservativi”. Certo uno fa tutto ‘sto casino per dire due pirlate, ma evidentemente il problema è apparire. Poi ci sono i suoi epigoni, i telefonisti sorridenti, quelli che compaiono dietro l’inviato/a con l’aria vaga e il cell in mano (li abbiamo visti durante le dirette nei giorni fatidici della crisi di governo, mentre dicevano alla moglie o all’amico mi vedi sto qua è da morire dal ridere guarda dillo pure a zia). La mia teoria è che questa occorrenza, tipicamente italiana, non è solamente un indice della nostra vanità ma anche una spia di una questione più specifica: come vengono fatti in Italia i Tg.
Dan Rather, storico anchorman di CBS Evening News
Tanti anni fa ho passato un po’ di giorni con quelli della CBS News a New York. Erano i tempi di Dan Rather. Avevo già avuto occasione di assistere alle dirette dei Tg Rai e privati: il più delle volte nelle regie c’era un delirio di urla, cassette che andavano e venivano, telefoni che squillavano, mixer audio che non aprivano mai il fader sul canale giusto perché nessuno dava informazioni al tecnico ecc. Al Tg della sera della CBS invece la regia era una specie di aula universitaria, con tre livelli di banconi, immersa nella penombra. Il  regista sussurrava le indicazioni in cuffia agli altri tecnici, il producer seguiva le agenzie e controllava i collegamenti e su un monitor scorreva il copione (sì, lo script) a cui tutti, inviati compresi, dovevano attenersi. Non volava una mosca. Al momento della pubblicità il regista con un filo di voce suggeriva al master control “Switch it!” E alla fine ciao ciao tutti a casa. Però facevano delle ottime dirette dalle zone di guerra e giravano le immagini che poi i nostri tg avrebbero ripetuto. E non ho mai visto un “pesce” (ti vedo ma non ti sento, pronto pronto, andiamo avanti con le altre notizie ecc., insomma il brutto della diretta).
Alla CBS News non avevano mai conosciuto un Gabriele Paolini. Per un motivo banale: a meno di non trovarsi in zona di operazioni o sul luogo di un delitto o di un disastro climatico gli inviati americani (e anche quelli di molti altri paesi dove la televisione è un mestiere) cercano sempre di evitare un collegamento in diretta ad altezza strada. 
Una diretta della CBS da Chicago. L'inviato (sulla destra) fa lo stand up da un piccolo podio su un trabattello
C’è sempre il trabattello: che sopraeleva cameraman e inviato rispetto al livello stradale. Nei casi peggiori ci sono due casse di legno (una per l’inviato e una per il cameraman) che stanno comodamente su qualunque furgoncino e che servono alla bisogna. E poi c’è il producer, il quale  si occupa anche di controllare assieme al cameraman il posizionamento della camera (l’inviato dev’essere sempre contestualizzato, a colpo d’occhio si deve capire dov’è ecc.). E’ un lato non indifferente di un modo completamente diverso di concepire il lavoro delle news. Nei telegiornali e nei canali news di gran parte del mondo ci sono quindi un giornalista e un producer che lavorano fianco a fianco. E il producer non è un mero organizzatore: il suo compito è tradurre la notizia in prodotto televisivo.   
Augusto Minzolini, Direttore del Tg1
In quelle realtà fare un telegiornale equivale a fare un buon giornale di carta. E gli aspetti più squisitamente “televisivi” del lavoro non vengono snobbati (l’infografica fatta bene, la playlist ordinata, le musiche e i suoni live, il montaggio delle interviste, le luci nello studio). In fondo l’equivalente del lavoro dell’art director in un quotidiano. Vi immaginate cosa significherebbe una prima pagina o lo splash panel della cultura senza un buon grafico che le imposta? O la scelta di foto brutte e scadenti su un quotidiano nazionale? Invece ci sono ancora telegiornali in Italia che ricevono i contributi video in “composito analogico” o peggio che hanno sostituito il lavoro d’archivio con le immagini quadrettate rubate da internet.  Il problema è sempre chi ti giudica: farai carriera se sei un bravo professionista o se ti dimostri uno fedele alla linea? (Linea editoriale, naturalmente).

lunedì 21 novembre 2011

Stasera Fiorello farà il bis: perdonerà i blogger e le Guzzanti?

Stasera Fiorello farà di nuovo sconquassi. Io sicuramente me lo guardo, la Guzzanti non so, ad Avetrana vedremo. Quello di Fiorello è un varietà. Un programma family adatto alla tv del 2011. La tv generalista che mancava. Perché parlare solo agli anziani, come si era fatto finora, non significa fare una tv generalista. Chissà se servirà a ragionare delle potenzialità della Rai in questa nuova situazione. Perché la crisi offre nuove sponde alla tv generalista, nonostante la moltiplicazione delle emittenti e delle piattaforme. Ma bisogna interpretare lo spirito del tempo (e anche un bisogno di comunità che nasce sempre quando c'è la crisi) e riuscire a parlare a tutti. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Ma credo fosse proprio quello che Fiorello e i suoi autori volevano fare. Fiore in questo è un campione, quasi un rabdomante. Perdona i blogger, Fiore, perché non sanno quello che fanno.
Update: la seconda puntata di Fiorello ha fatto il 42%, con una media di 12 milioni di spettatori, picco in valori assoluti i Coldplay (su un nero di canale 5), picco in share il duetto con Bublé (46%).

Perché l'Alta Definizione è un problema politico

L’alta definizione e il 3D sono ancora vissuti dal ceto politico italiano e anche da una buona parte del management delle tv generaliste come una fissazione un po’ lunare, roba da geek. Ma la realtà è molto diversa. Si tratta di un problema industriale (e quindi anche politico) di stretta attualità.
Secondo la ricerca di Informa Telecoms & Media (https://commerce.informatm.com/reports/global-hdtv-6th-edition.html), un gruppo di ricerca inglese che fornisce previsioni a medio termine all’industria televisiva e dell’hardware (uno stringato riassunto si trova sul sito dell’Università La Sapienza http://www.comuniclab.it/80042/hdtv-previsioni-spettacolari), entro la fine del 2016 gran parte del pubblico televisivo sarà in grado di vedere programmi in alta definizione dal televisore di casa.
Sarà un definitivo switch-over all’HD (1080i) e nel frattempo l’industria sarà già avanti nella commercializzazione del 4K (l’ultra-alta definizione che in pratica rende il quadro televisivo indistinguibile, anche su grande schermo, rispetto a una ripresa in pellicola a 35mm).
Durante il 2011, inoltre, sempre secondo le rilevazioni dell’Informa Telecoms & Media, circa 34 milioni di households approderanno all’alta definizione, per cui saremo a 131 milioni di abitazioni. Che diventeranno circa 500 milioni nel 2016. E’ un passaggio simile a quello che avvenne negli anni ’70 tra il bianco e nero e il colore, o nel mondo della radio dalla modulazione di ampiezza (le famose “onde medie”) alla modulazione di frequenza.
Dal lato della produzione: sostanzialmente tutto ciò che viene prodotto oggi in definizione standard è già obsoleto (non parliamo neanche del prodotto in 4/3). Per cui va “a library” già deprezzato. Non è un problema per le fiction (o sono girate in pellicola o in HD, tranne casi estremi). Né è un problema per i talk (e chi mai se li riguarderà tra 5 anni?). Ma, ad esempio, è un problema per la library delle news e per tutto quanto concerne l’intrattenimento (per non parlare dello sport).
Intendiamoci,  i broadcaster anche in Italia producono e archiviano molto materiale in HD anche se lo trasmettono convertito in definizione standard. Ma una parte importante della fabbrica televisiva italiana dev’essere ancora ristrutturata in HD (ancora si vedono troupe dei TG girare con delle pesanti e anacronistiche Betacam). Il ritardo tecnologico accumulato diventa più doloroso oggi visto che la crisi impedisce grossi investimenti, quindi chi è rimasto indietro fa fatica a risalire la corrente. Il gruppo Murdoch è stato il primo a rinnovare l’hardware e il primo a trasmettere un bouquet in HD a partire dalla Gran Bretagna (che non a  caso è il Paese europeo più avanti da questo punto di vista, la ricerca di Informa Telecoms & Media prevede che nel 2016 il 72% dei telespettatori inglesi guarderà programmi in alta definizione). E la BBC è il broadcaster pubblico più aggiornato sull’HD.
Il 3D è più indietro per ragioni legate ai costi e anche allo scarso appeal della fruizione solo tramite occhialini dedicati. Anche se le soluzioni tecnologiche per un 3D senza occhialini sono già mature e stanno risolvendo il problema dei costi di produzione. Il ritardo a dire il vero è anche dovuto alla rapida diffusione del simil-3D (come quello che usa la 7 in un suo canale dedicato): in pratica si tratta di una serie di algoritmi che volendo si possono applicare anche in tempo reale per estrarre l’illusione del 3d da un’immagine tradizionale. E’ un simpatico trucchetto che purtroppo viene usato anche nel cinema, anche se con maggiore cura ma stufa subito e allontana i possibili consumatori.
Il punto di sostanza però è che, anche se in Italia l’HD non raggiunge ancora la maggioranza delle case, sicuramente raggiunge le case di famiglie giovani con figli, il pubblico urbano, affluente ecc., cioé quello più appetibile per gli investitori pubblicitari. Zia Pina non si accorge della differenza ed è felice del suo vecchio Mivar ma il nipote, una volta che ha visto Cars in HD (per non parlare dei videogiochi) snobberà ogni trasmissione in definizione standard.
Il digitale terrestre ha avuto un effetto collaterale curioso: spingendo alla sostituzione del parco televisori ha riempito le case dei nonni di vecchi scassoni donati con amore da figli e nipoti ma ha anche fatto occupare il posto d’onore nei salotti da display LCD o Plasma di qualità mediamente scadente, soprattutto dal lato della circuiteria elettronica e dei chip di conversione: detta semplice, su quei televisori comperati (“un affarone!” scegliendoli dai volantini di Trony & C.) l’alta definizione si vede bene e la definizione standard si vede molto male (molto peggio che sui vecchi tv a tubo). Perché? Perché convertire un’immagine SD significa gonfiarla, e se devi farlo in tempo reale il tuo televisore dev’essere in grado di fare dei complessi calcoli. Oppure rinunciare  e fartela vedere una schifezza. E siccome il mercato dei tv è diventato un mercato basato sui prezzi la qualità intrinseca del prodotto è andata scemando sempre di più.
Il risultato di tutto questo: zia Pina non si pone il problema ( e se le regalate un LCD, visto che non cambia gli occhiali da qualche lustro, non si accorgerà neppure della differenza tra SD e HD) figli e nipoti invece se ne accorgono, eccome. Anche perché l’industria elettronica non commercializza più videocamere consumer che non siano HD. Quindi i primi vagiti del pupo saranno visti in HD da tutta la famiglia, mentre i bambini canterini di Raiuno saranno in definizione standard.
Questo aumenta il divario tra chi serve un pubblico televisivo anziano e chi un pubblico televisivo più centrale (soprattutto per gli interzionisti).
E qui casca l’asino. La Rai e Mediaset hanno un canale HD (e quando non mandano programmi “up-convertiti”, cioé programmi a definizione standard gonfiati in HD -un modo certo per allontanare il pubblico dall’alta definizione- trasmettono con una qualità anche più alta di quella di Sky perché usano una banda più estesa). Ma, per l’appunto, è una questione di spazio: mentre su un Mux si possono affollare vari canali digitali in definizione standard (spesso talmente compressi da sembrare un vecchio video di Youtube) oggi nello stesso spazio ci può stare un solo canale HD. Ecco perché l’asta (beauty contest) sulle frequenze disponibili del digitale terrestre è così importante. Perché sull’HD i grandi broadcaster si giocano il futuro.

Oltre 4000 visualizzazioni, grazie

Secondo i ranking di Google Glenville ha superato le 4000 visualizzazioni, grazie a tutti per l'attenzione.

sabato 19 novembre 2011

Mediaset e il dopo Silvio

Archiviato il quasi ventennio del Cav, sperimentate duramente le acque perigliose dei mercati, Mediaset dovrà decidere cosa fare da grande. Uno dice: ma di che parli? Mediaset è Berlusconi, deciderà lui, magari il Cav domani schiererà le sue tv come una clava di un suo movimento Forza Silvio ecc.
Non è così semplice. Prima di tutto, checché se ne dica, Mediaset è un’azienda. Un’azienda sostanzialmente sana e con i conti in ordine anche se discretamente “matura”.  Sicuramente favorita, in tutti questi anni, dalla presenza al governo del suo fondatore, sicuramente invecchiata nel suo palinsesto, nella creatività e nelle idee che trasmette (in certi casi sembra raffigurare un’enclave degli anni ’90, ormai stridente con il “comune sentire”).  Ma sicuramente è anche un’azienda che produce, che ha più di 10mila dipendenti, che è entrata anche nella pay, nelle tematiche e nella Rete. Ed è un’azienda le cui azioni sono in mano anche, in modo consistente, a fondi pensione americani ecc.
Nelle precedenti svolte politiche Mediaset, non meno della Rai, è stata un ago sensibile degli spostamenti politico-culturali: dopo le elezioni del 1996 l’iniziale propensione di Berlusconi a “fare muro” cambiando perfino il direttore di Canale 5 subì una repentina conversione. (Nessuno  se lo ricorda, all’inizio era stato catapultato Giampaolo Sodano, ex direttore socialista di RaiDue, con il compito di normalizzare Canale 5, compreso- udite udite-  il gruppo di Antonio Ricci. Ma con un colpo da maestro Fedele Confalonieri lo sostituì con Maurizio Costanzo dopo soli tre mesi. E Sodano tornò alla politica -in Forza Italia- e nella distribuzione cinematografica).
D'Alerma a Cologno Monzese, 1996
Già prima delle elezioni, annusando l’aria, l’astuto Confalonieri aveva organizzato il fatidico incontro a Cologno Monzese tra Massimo D’Alema e lo stato maggiore delle sue tv. Nei palinsesti Mediaset (appena quotata in borsa) si affollarono un talk di Michele Santoro, due programmi con la Gialappa’s, le Iene, un altro talk con la Bignardi e perfino (se lo sono dimenticati tutti) un programma di satira condotto da Serena Dandini. A Target fu consentito di osare, Costanzo bordeggiava e Mentana si smarcava dolcemente dal Cavaliere appena poteva.  (E nessuno legiferò sul famoso conflitto).
Nel 2001 tutto si resettò nel senso opposto, Gori scelse di fare la sua società, Santoro era già tornato in Rai (per poi essere “edittato”), Mentana cominciò a sentire un po’ di fiato sul collo e tutto andò come sappiamo.
Nel 2006 Mediaset fu schierata in campagna elettorale,  e quando si vide che la vittoria di Prodi era di un’incollatura, dopo qualche giorno di incertezza fu scelta la via della contrapposizione al traballante governo dell’Unione.
Ma adesso è un’altra storia. Un ciclo è finito e non pare che Mediaset- nonostante qualche prudente uscita di Piersilvio Berlusconi, come quella sul Corriere di oggi, si sia smarcata in anticipo. La cosa curiosa è che gli unici segnali in campo avverso –sia pure felpatissimi e facilmente coperti da sonore grancasse in senso contrario- li aveva mandati in questi anni proprio Piersilvio: fu lui a volere Mentana a Matrix dopo che era stato sostituito al TG5 col più allineato Mimun, lui a farsi fotografare al circolo Arci con il suo prediletto Chiambretti, lui a proporre di assumere Floris per un talk politico sulle sue reti. Timidi passi subito contraddetti da mosse in senso contrario. Ed è proprio Piersilvio – in quanto rappresentante della famiglia- il più esposto in questa nuova temperie.
La crisi del governo Berlusconi dall'All News Mediaset
E quindi? Oggi in realtà il problema per Mediaset non è solo politico ma anche culturale: la programmazione (volevo dire la "narrazione" ma una vocina mi ha fermato prima dell’irreparabile) di Mediaset parla nel suo insieme a una parte grande, grandissima e profittevole ma comunque non alla maggioranza degli italiani. Mediaset ha perso centralità. Le labbra a canotto ormai albergano solo nelle dame di Cafonal e i ragazzi con la t-shirt attillata esistono solo nelle periferie degradate e in qualche programma di Mediaset.  Gli asset dei palinsesti – asset prima di tutto per la raccolta pubblicitaria- sono quasi tutti nati in una stagione lontana, hanno più di dieci anni e in alcuni casi toccano i 20: Striscia (1988), le Iene (1997), i programmi di Maria De Filippi (Saranno famosi/Amici è del 1992), il Grande Fratello (2000) ecc. ecc. E sull’informazione? Mediaset tenta un talk politico più aperto ma lo mette sulla rete in cui il tg è ancora il tg di Emilio Fede, e quindi terra bruciata, nessuna operazione può attecchire. Mediaset fa partire il canale all news mettendoci la Spiezie e gestendo i primi giorni sperimentali con equilibrio ma non comunica in modo esplicito la sua volontà di farne un canale di informazione e non di propaganda. Anche se l’indicazione di renderlo il più possibile unbiased l’ha data, a quanto ne so,  proprio Piersilvio Berlusconi.
Tutto questo avviene proprio mentre la tv cambia: la Rai sarà meno ingessata (e magari, anche a prezzo di dolorose ristrutturazioni, dotata di risorse scarse ma certe), internet – grazie al mobile - diventerà una piattaforma centrale anche per il pubblico “centrale”, mentre Sky già comincia a parlare italiano e nuove realtà spingono da tutte le parti. E tutto questo avviene proprio mentre la pubblicità rappresenta la prima voce che le aziende stanno smussando in una situazione di crisi. E quindi? E quindi Mediaset (consideriamola per un attimo come un’azienda e  non come un’azienda di famiglia) dovrà fare una rivoluzione. Diciamo, per carineria, una rivoluzione copernicana. Non basterà più far abbracciare D’Alema dal Gabibbo.

mercoledì 16 novembre 2011

Banda larga: aumenta lo spread con il resto del mondo

Fonte: http://www.ftthcouncil.org/en/newsroom/2011/02/10/global-ftth-councils-latest-country-ranking-shows-further-momentum-on-all-fiber-

Nell’agenda di Monti per ora non c’è, ma a dispetto dei cento tagli che si prevedono e che dovranno essere fatti, quello della fibra ottica è l’unico comparto in cui avrebbe senso spendere – e subito- altri soldi. Perché la nostra situazione è drammatica e sta peggiorando: è come se nell’ottocento avessimo rinunciato a costruire le ferrovie o negli anni cinquanta avessimo abolito il progetto dell’autostrada del sole. I dati sono impressionanti: Corea del Sud, Taiwan, la Lituania, la Slovenia, la Slovacchia, l’Estonia, la Bulgaria, per non parlare della Cina ovviamente, sono estremamente più avanti di noi. Al nostro livello stava la Francia, ma oltralpe avevano perso vent’anni dietro al loro minitel. Nell’ultima rilevazione però siamo scesi ancora. Non solo la Francia, ma anche la Repubblica Ceca ci ha superato, sotto di noi c’è solo la Turchia.
In questa crisi l'esempio della Gran Bretagna è illuminante: British Telecom aveva originariamente pianificato di coprire due terzi del Regno Unito con la fibra ottica entro il 2015, ma adesso ha messo l'acceleratore per arrivarci con un anno di anticipo, e cioé per la fine del 2014. Per far questo BT ha investito 2,5 miliardi di sterline. 
E in Italia? Se vuoi avere quella che i tecnici chiamano la FTTH (cioé la fibra ottica fino a casa) Fastweb ha un’opzione Fibra100 che però è limitata a poche aree del Paese (alcune zone di grandi città), e i 100 mega promessi, almeno nella distribuzione casalinga non sono proprio 100 (posso testimoniare avendola da molti mesi, siamo al massimo sui 50 quando va bene); se vuoi la Fibra100 per la tua azienda devi pagare un’attivazione di 500 Euro (e ti dicono che è un offerta eccezionale che durerà poco). Telecom adesso parte con la sua offerta ma i prezzi sono davvero alti. Ma come? Non doveva essere il volano ecc. ecc.?
Eppure:
nell’ultimo anno anche in Italia il commercio online  è aumentato del 20% (e ancora di più è aumentato nei comparti dell’abbigliamento, guarda caso);
sarà difficile avere tanti canali hd sul digitale terrestre, perché si deve fare posto alle varie Telesgurgola marsicana (ma chi ha in casa un tv di ultima generazione sopporterà i programmi in SD per ancora tre-quattro anni, poi li considererà a livello dei film muti) e l’IPTV sarebbe la soluzione;
la burocrazia zero passa anche dalla possibilità di fare tutto online in modo veloce ed affidabile;
il commercio con l’estero oggi passa dal web;
nonostante tutto ciò,  stiamo come stiamo.
La rilevazione precedente (ottobre 2010)

Prima si poteva pensare al solito conflitto di interessi. E alla furia ragionieristica di Tremonti. Adesso? Tra l’altro anche a Montecitorio (uso volutamente un profilo rozzoqualunquista, perché l’ignoranza e la scarsa propensione del ceto politico alle nuove tecnologie sono discretamente bipartisan) hanno scoperto il web grazie agli iPad, e quindi sarebbe il caso che si dessero una svegliata. Perché la rete dovrà essere molto più veloce ma dovrà anche costare molto poco. Altrimenti non darà una mano a rilanciare la nostra disgraziata economia.

martedì 15 novembre 2011

Fiorello, il Frank Capra della nostra Depressione

Dopo la crisi del ’29 gli americani, oltre a formare i cortei di disoccupati che si vedono nei documentari, riempirono i cinema.  I film di Francesco Rosario (ehm) Capra, siciliano, naturalizzato Frank Capra, rappresentarono assieme all’intrepido Mickey Mouse la mitologia e l’epica della crisi, da Follia della metropoli a Accadde una notte, da  E’ arrivata la felicità a Arriva John Doe, fino a Mr Smith va a Washington (Monti? Trilateral a parte).  Capra era rooseveltiano quanto basta e soprattutto trasudava ottimismo. Siamo nella merda ma ce la faremo. E’ quello che ha fatto ieri Rosario Fiorello.
C’è un uomo politico che oggi in Italia trasmetta tutto questo? No. C’è un grande intrattenitore che ha fatto un programma abbastanza sontuoso (vi ricordate quando c’erano i varietà?), abbastanza post-silvio (le battute sulla bandana) e abbastanza generalista da rappresentare quasi un’opzione politica. (I figli, questo tema cruciale per ogni democratico che si presenti a una nomination). Certo che poteva innovare di più. Certo che rappresenterà un alibi per tutto quello che la Rai non è stata in questi tempi burrascosi. Ma ha “unito la famiglia”. Fa ridere? C’è poco da ridere. Chi altro fa il 42% sugli over 65 e il 40% sui 15-24? E il 42% sui laureati? Al GF è rimasta la vasta nicchia delle Figlie di Maria (mediamente giovani, cultura medio-bassa, scontente, telefonino, sms e french manicure. Nicchiona rispettabilissima ma non maggioritaria). 

lunedì 14 novembre 2011

Glenville ringrazia

Siamo a 3000 visualizzazioni per il blog. Grazie per l'attenzione, come dire. A tutti quelli che intervengono con i loro commenti postandoli su facebook vorrei chiedere di pubblicarli anche sul blog, lo so che è un'usanza un po' retro ma insomma. Comunque grazie.

domenica 13 novembre 2011

Niente sarà più come prima (neanche in tv)

E adesso? Cambierà qualcosa? Secondo me oggi come oggi non cambierà niente ma nel medio periodo cambierà tutto:
1. La Rai dovrà essere rimessa in grado di lavorare, parlo delle risorse (pochi soldi ma certi) e dell’autonomia editoriale, dandole compiti più limpidi, con molta austerità ma anche senza freni a mano tirati. E non è detto, al momento,  che questo compito venga affidato tutto alla Governance attuale (tra l'altro il CDA sta per scadere);
2. Mediaset dovrà decidere cosa fare da grande, se mettere l’elmetto per resistere resistere resistere militarizzandosi dietro al fondatore o fare i conti con un’Italia che è cambiata (e i presunti salvacondotti ottenuti in fase di trattativa con Monti non risolvono gli interrogativi che si farà da solo il mercato). Ma su questo vorrei dedicare un post più approfondito appena avrò capito qualcosa di più;
3. Il “segmento di mercato” dell’anti-berlusconismo (giornali, libri, programmi tv, ecc. ecc.) imploderà. Il risultato in lieve calo della seconda puntata di Santoro, anche se i numeri restano molto significativi, manda già i primi segni di un’afasia che forse si risolverà nell’individuazione collettiva di un nuovo villain, il governo-delle-banche-e-della-trilateral-che-ci-espropria-della-democrazia, consentendo così in futuro inediti e per ora insospettabili giri di valzer. Soluzione più di marketing che politica al possibile rapido inaridimento del filone. Anche per la 7 si apriranno degli interrogativi, bisognerà riuscire a fare numeri anche con l’intrattenimento e la “narrazione” e non solo con i talk e la satira politica.
4. Il tragico ritardo del sistema Italia rispetto alla banda larga forse, dico forse, riceverà un’attenzione migliore da parte di un governo che dovrà tagliare su tutto ma non sul cordone ombelicale con il mondo che va avanti;
5. Andrà di moda – anche per un breve periodo, siamo pur sempre il Paese del melodramma e della commedia dell’arte- la sobrietà. Che dilagherà nei linguaggi e negli stili dei media. Fino a diventare noiosa. E quello sarà il segno che la cura ha funzionato.

giovedì 10 novembre 2011

Stasera Santoro si gioca tutto

Stasera, in pieno marasma da quasi default e da trattative per un prossimo governo Monti, Michele Santoro andrà in onda con la seconda puntata di Servizio pubblico, su Internet, Sky News, tv locali ecc. Sarà la prova del nove. La prima puntata è stato un grande successo di pubblico, a suo modo rivoluzionario, ma ha lasciato molti dubbi (autoreferenzialità, l'uso estensivo del tema superpop dell'antipolitica, teatralità ecc.). Sulla 7 il programma di Corrado Formigli ha pagato pesantemente di fronte alla concorrenza del "padre", quasi dimezzando l'ascolto. Ma ha anche presentato la sua puntata più convincente e sulla palla dell'attualità. Cosa succederà stasera? La "bolla" Santoro si sgonfierà o Michele riuscirà a cavalcare il nuovo e a crescere ulteriormente negli ascolti? E' una bella scommessa: i risultati di domani saranno un' indicazione fondamentale per capire il futuro dei talk politici nel (prossimo) dopo-Berlusconi.

mercoledì 9 novembre 2011

Mentana e lo spread tra i tg


Nel giorno delle (quasi) dimissioni di Berlusconi e dell’impennata atroce degli spread Mentana conquista il suo massimo (oltre i quattro milioni di spettatori, 14,58%). Ma a chi li prende? A Tg1 e Tg5? Neanche tanto. C’è una significativa divisione del lavoro.  O se volete una drammatica divisione tra diverse Italie.
Il Tg1 (ieri al 23,12%) si conferma leader sulle donne anziane: 35% di persone sopra i 65 anni, soprattutto di sesso femminile (le donne ieri erano comunque la maggioranza degli spettatori del Tg1, 24% contro il 21% degli uomini). Gli altri picchi del Tg1 sono sul pubblico di condizione socioeconomica bassa (26%) e “alta economica e bassa sociale” (36%!). Come livello d’istruzione, il top è sul pubblico di istruzione elementare (20,88%).
Il TG della 7 (ieri oltre il 14%) è quasi speculare: un po’ più uomini (15%) che donne (13%), un buon risultato relativo sui 15-24 (12%) e 25-34 (15%) e sugli over 65 (quasi il 16%). Il picco degli spettatori il tg di Mentana lo fa sui laureati (11,59%). Il 25% dei telespettatori del Tg della 7 è di condizione economica e sociale alta (25%) e medio-alta (17%). Mentre Mentana è meno seguito dalla fascia di pubblico “alta economica e bassa sociale” (9%). Il minimo il Tg della 7 lo raccoglie sul pubblico di condizione socio-economica bassa (appena il 2%).  E ovviamente è bassa la percentuale di spettatori provvisti soltanto  di licenza elementare (6%).
E il Tg5? E’ una via di mezzo: il suo 20,6% di share è fatto un po’ più di donne che di uomini, ma è il più forte nelle fasce d’età centrali (15-24, 25-34, 35-44, 45-54),  dove porta a casa dati oscillanti tra il 24 e il 25%, quasi il doppio della 7 e del Tg1. E’ l’unico Tg abbastanza costante tra le varie fasce socio-economiche (con un picco relativo sulla fascia sociale ed economica “medio-bassa”).  Sui livelli di istruzione la differenza con il Tg della 7 è macroscopica: il picco del Tg5 è tra gli spettatori di istruzione elementare (oltre il 12%) ed è molto più basso sui laureati (4% contro l’11,6 % di Mentana).
Secondo me sono dati più utili di tanti sondaggi elettorali.

domenica 6 novembre 2011

I soliti idioti, i soliti pirati e i soliti ottusi


 I soliti idioti stanno facendo i soldi con la pala (solo sabato 1.687.000 euro al box office). Non sono piaciuti a Concita De Gregorio (capisco le preoccupazioni, ma I soliti idioti stanno al mercato e al gusto italiano come Jackass stava a quello americano). I soliti idioti sono una lunga serie su Mtv, che è stata vitaminizzata da Youtube (2 milioni di visualizzazioni per una clip!). Di Youtube  I soliti idioti centra i “moduli espressivi”: velocità, adolescenzialità, sregolatezza. Un successo per Taodue, echeggiato scrupolosamente anche da Aldo Grasso. 
Lascio ai critici le considerazioni estetiche. Secondo me invece I soliti idioti arrivano a fagiolo per parlare d’altro. Della pirateria. E dei soliti ottusi nel mondo della comunicazione. Perché se I soliti idioti sono nati per il pubblico giovane che guarda Youtube (lo stesso che carica sul web le proprie performance girate con il telefonino), allora dalle cinquecento copie in giro non c'è da meravigliarsi che sia già saltato fuori uno “screener”: cioé una copia pirata girata con la videocamera durante una proiezione in sala. Questa ripresa è già disponibile con più di 2000 fonti su Emule, diventerà un DIVX venduto nei mercatini e magari domani un bello streaming su Megavideo.

 Perché il pubblico dei Soliti idioti si muove su queste “piattaforme” come un pesce nell’acqua. Domanda: ma perché non lo vendono anche in rete o nei negozi contemporaneamente all’uscita nelle sale, o al massimo una settimana dopo? E perché non lo distribuiscono subito, a pochi soldi, su piattaforme come itunes? Perché aspettare che tutti quelli che lo desideravano l’abbiano già avuto gratis dalla chiavetta di un amico?

Tutto gratis? E’ la questione delle questioni, oggi. Molto più della governance Rai (che appassiona tanto i direttori dei giornali) o del destino del digitale terrestre o del finanziamento pubblico dei quotidiani. La questione della gratuità o se volete della pirateria nel web è la questione del futuro della comunicazione. E non solo per i produttori, anche per i consumatori.

Secondo me bisognerebbe dire due cose:
1.   i peggiori nemici dei produttori e distributori di contenuti (cinema, musica, televisione) sono i distributori stessi. Invece di farsi venire qualche idea nuova nel campo della distribuzione (della musica, del cinema, ecc.) hanno passato vent’anni a combattere la pirateria del peer to peer, ed è bastato che arrivasse Steve Jobs con l’idea di iTunes per spazzare via tutto il vecchio mondo delle etichette discografiche. 
    Nel campo del cinema questa manfrina passatista la iniziò la Walt Disney trentadue anni fa combattendo le videocassette (nessuno ormai ricorda che ci fu uno storico processo in cui la Disney tentò di mettere fuori legge il mitico Betamax, il primo videoregistratore casalingo  -e adesso la Disney il fatturato lo fa sull’home video, altro che le sale). Da noi più modestamente Mediaset ha fatto causa a Youtube. Anche gli autori non sono stati da meno, compresa la Società degli Autori ed Editori (che ha avuto capi come Mauro Masi). La Siae non riesce a garantire neanche che agli autori televisivi venga riconosciuta l’Enpals e se la prende con i blogger. 

2.      I cantori del “tutto gratis”, invece -non i vecchi che lo fanno per populismo giovanilista un po’ ipocrita (genere che si porta molto e che crescerà nei prossimi mesi in zona elezioni) ma la maggioranza dei giovani in Italia, che di questo principio sono seriamente convinti - sono però gli stessi che affollano le facoltà di Comunicazione, in pratica sono quelli che vorrebbero guadagnarsi da vivere facendo cinema, televisione, web, musica o spettacolo, tutte cose che se sono “a costo zero” non fanno campare proprio nessuno, tranne qualche fabbricante cinese di hard disk fuffa che si rompono dopo una settimana.
 
Allora secondo me l’unica risposta, banale forse ma seria, sarebbe di ripensare tutto il meccanismo con una regola molto semplice : pagare poco, pagare tutti.
Lo slogan è già alla moda per quanto riguarda le tasse, ma lì sarà più dura. Qui invece è (anche) una questione di mercato. Se le piattaforme di distribuzione si moltiplicano, se memorizzare (“storare” come si dice adesso in italese) costa sempre meno (ma poi ti perdi tutto con facilità), se la mattina dopo la proiezione o la messa in onda in America posso scaricare il film o l’episodio della serie da casa mia, come si può pensare di legare l’acqua? Solo in un modo: facendo pagare tutti e poco, e  molto poco almeno tutto ciò che non è “novità”. E abolendo le “finestre”, cioé rendendo disponibili i contenuti istantaneamente in tutto il mondo (almeno quelli che possono avere un mercato mondiale, con tutto il rispetto per Mandelli).
Perché anche trovare lo streaming pirata o scaricare illegalmente è un lavoro. Invece comperare dev’essere semplice, economico e veloce (una sola  azione, un solo click, non due). Si dirà: ma così guadagniamo di meno. Sì, cari, ma almeno guadagnate. E allargate il mercato legale. Altrimenti chiudete.
E se i burocrati delle istituzioni e delle multinazionali (mi sa che quei master degli anni ’90 siano stati più deleteri di altri apprendistati più ruspanti) pensano che basti un nuovo software per bloccare la pirateria vuol dire che non hanno capito niente. Se una cosa la vedi la puoi copiare. Cripta quanto ti pare... Sono sequenze di uni e di zeri, santo dio! Ma siccome i canali sono tanti e i contenuti tragicamente pochi, secondo me l’unica strada è questa. C’è fame di contenuti? Pagare poco e pagare tutti. Per produrre più musica e più “narrazione visiva”. Bella e brutta. Un modello come questo metterà in crisi tante lobby e rendite di posizione? Sì ma è meglio che finire tutti come gli attori dei film muti. facendo la figura, di fronte ai mutamenti tecnologici, dei soliti ottusi.

venerdì 4 novembre 2011

Santoro: una rivoluzione (e un rischio sbadiglio)

Allora vediamo se ho capito. Santoro ha fatto il botto (come ci aspettavamo). L’ha fatto con effetto bandwagon – raccogliendo per strada distratti ed incerti. Lo ha fatto con un format che lascia qualche perplessità, soprattutto pensando alla sua proiezione nel futuro (molto autoreferenziale e da oratoria civile, più che evocare Montanelli e Biagi andrebbero pagati i diritti a Rizzo e Stella). Ieri Corrado Formigli ha fatto la sua miglior puntata, vagamente ienizzata ma con più attualità rispetto a “Servizio pubblico”, ma ovviamente è stato lui il primo a pagare pegno.
Ma non è del format o se volete della drammaturgia di Santoro che volevo parlare (Malaparte su Tv Blog ha scritto cose molto interessanti a questo proposito, a differenza di un Grasso insolitamente frenato, forse a causa della massiccia occupazione dello studio di Santoro da parte degli headquarters di RCS).
Quello che veramente conta della giornata di ieri è il fatto che si sia verificata la strada trasversale (i colti direbbero multipiattaforma) per arrivare a milioni di persone. E questa, avvenendo vari mesi dopo la fase calda della polemica di Santoro con la dirigenza Rai, è una rivoluzione. Quando due anni fa venne fuori per la prima volta questa ipotesi (e Michele arrivò quasi ad un accordo con la Rai) ero già convinto che sarebbe potuta funzionare anche per i numeri  e l’ho scritto. E tutti scuotevano la testa dicendo “ma sai Michele è generalista, è generalista, non è adatto al web”. Ora intendiamoci: quest’idea che il web non sia generalista io non l’ho mai capita. Se è un discorso anagrafico (nativi digitali vs figli della tv) ok, se  è un discorso di analfabetismo tecnologico (cosa devo premere sul telecomando? come si cerca Santoro su google? Cos’è il canale 504?  Perché Corriere Tv si vede a scatti? Vado sul digitale terrestre? Cioé sulla tv normale? Come? Su Teleroma56? ecc.), allora d’accordo. (Ricordandosi però che noi italiani facciamo sempre gli scemi per non andare alla guerra, se poi una cosa ci interessa veramente ci facciamo aiutare e la troviamo).
Ma se è un discorso di contenuti editoriali non mi viene in mente nulla di più generalista di Youtube: dove tutti trovano quello che interessa alla propria nicchietta, ma dove se vuoi fare milioni di visualizzazioni devi far vedere la nonna che cade dalla finestra.
E qui torna la domanda che personalmente mi faccio da due anni: ma a Berlusconi nessuno ha spiegato che sono molto peggio per lui uno, due, tre milioni di persone raccolte fuori dal duopolio rai-mediaset piuttosto che sei milioni su raidue? Che “scassano” davvero il mercato? Che creano realtà nuove perché abituano la gente a scoprire nuove vetrine fuori dal corso principale? Possibile che un commerciante come Berlusconi non abbia capito? Possibile. Berlusconi era bravissimo a capire la comunicazione vent’anni fa. Oggi il mondo è cambiato e lui evidentemente non lo sa. Quello che invece dovrebbe sapere Santoro è che in futuro il format dell’antipolitica reggerà finché reggerà, appunto, Berlusconi. Poi bisognerà ricominciare a raccontare l’Italia. Altrimenti, in tv o su internet,  sulle grandi reti o sulle locali, sul satellite o sul digitale il compagno sbadiglio colpirà senza pietà. 

Avid per tutti, la mossa contro Apple



Con millecinquecento dollari passi ad Avid. Per gli addetti ai lavori, anche per chi come me non ha amato particolarmente Avid,  è comunque una notizia rivoluzionaria. Dopo la debacle di Apple sul mercato professionale -causata da FCPX, la nuova incarnazione di Final Cut Pro, il software di montaggio che si è scelto di adattare a un pubblico “prosumer”-  Adobe aveva tentato il colpo sul mercato con la sua suite CS5.5, che contiene Premiere e After Effects, riscritti a 64 bit, tagliando il prezzo del 50%. 
Rimaneva Avid, la regina del montaggio professionale, ormai da anni surclassata nella sua diffusione da Final Cut (che costava una terzo e che viaggiava per i professionisti su schede di terze parti molto meno costose dei vari Symphony, Nitris ecc.). Avid aveva dalla sua la robustezza dell’architettura di gestione dei media (che non finivano sparpagliati per gli hard disk ma venivano rivestiti da Avid come soldatini e messi in uno specifico, inattaccabile, folder). Ma Avid oltre a non essere particolarmente user frendly era irraggiungibile per i suoi costi.
Oggi però (dal 15 novembre)  Avid parte al contrattacco con la nuova versione del suo software, Media Composer 6.0.
Le novità sono 3 e fondamentali:
1.      Avid Media Composer 6 è riscritto a 64 bit (quindi la capacità di gestire memoria RAM si moltiplica e la possibilità di reggere senza problemi progetti complessi viene eccezionalmente  ampliata) e viene venduto a 1500 dollari ai possessori di Final Cut.
2.     Se vuoi Nitris invece di pagarlo come una bmw lo potrai comperare a 6000 dollari.
3.      Ma la terza notizia è la più importante. Chi ha già Final Cut e lo interfaccia con una scheda Aja, Blackmagic o Matrox (parliamo di schede da 1000-2000 Euro, in pratica la totalità degli utenti professionali di FCP) potrà usarla per farci girare Avid. E questa è la vera sfida lanciata ad Apple sul mercato professionale. In più la GUI così legnosa e anni ‘90 di Avid è stata modernizzata e sembra più adatta ai tempi. E il software può lavorare con file in ProRes, il formato Apple più diffuso. 
In pratica Avid sembra dire ai seguaci di Apple, abbandonati sul bagnasciuga: lasciate che i montatori tornino a me. Resta da vedere se i distributori italiani accetteranno la politica aggressiva della casa madre o continueranno nella loro pratica sonnacchiosa rivolta a pochi big spenders. La “democratization of media” (almeno dal lato tecnologico) sta diventando una realtà anche da noi, e chi non è in grado di cogliere l’autobus rimarrà a piedi.

giovedì 3 novembre 2011

Le 10 cose che so di Gori


Giorgio Gori ha lasciato Magnolia e De Agostini per buttarsi in politica. Avendo lavorato assieme a lui per vari anni vi dico le due o tre cose che penso di aver capito.
Prima di tutto, per la chiarezza: questo non è un endorsement.  Semplicemente: dico di non sottovalutare Giorgio Gori. D’altronde dissi una frase simile a fine 1993 a proposito di qualcun altro e l’avvertenza (a chi so io) fu snobbata con un sorrisino. Ma, per capirci:
1) Gori è veloce. Arriva prima degli altri perché mentre stai a soppesare il pro e il contro lui è già lì che fa.
2) Gori non si spaventa facilmente. L’ho visto in azione nel 1994, ai tempi della discesa in campo di Berlusconi, quando prese una posizione critica (ed era il Direttore di Canale 5) meritandosi la battuta di Dell’Utri (“quello lì pensi a fare i palinsesti”).
3) Gori non si guarda mai indietro. Ogni giorno è una pagina bianca, nel bene e nel male.
4) Gori era nei giovani repubblicani a Bergamo e ha iniziato scrivendo per il giornale di Feltri, poi ha sfanculato questi e quello. Gori è architetto. E anche un ottimo capomastro.
5) Gori ha una moglie che è una roccia.
6) Ho visto più volte Gori tenere testa a Berlusconi. Che alla fine non lo amava ma lo rispettava.
7) Il proverbio americano (credo sia di Edison) che recita “Success is 10 percent inspiration and 90 percent perspiration” si adatta perfettamente a Giorgio Gori. Ti giri ed è già a Milano, ti rigiri e te lo ritrovi a Roma (o viceversa).
8) Il proverbio napoletano “Trase 'e sicco e te miette 'e chiatto” (presentati modestamente e poi...) si adatta perfettamente a Giorgio Gori.
9) Gori sa di televisione, e sa anche evitare una totale piattezza narrativa nei programmi generalisti. Se vuoi colpirlo dirai che è il produttore dell’Isola dei famosi, ma checché se ne dica l’Isola dei famosi è stato il miglior reality italiano.
10) Un comune amico americano lo chiama affettuosamente “smiling shark”. Shark sì, ma molto smiling.