martedì 31 gennaio 2012

Gli spot dei Repubblicani: incredibile, usano l'ironia


Quasi nessuno da noi si sta studiando la Campagna per la primarie tra i candidati repubblicani negli Stati Uniti dal punto di vista mediatico. Invece è molto interessante. I candidati del GOP se la danno di santa ragione (e questa non è una novità, i democratici fanno di peggio). Ma per la prima volta (forse è merito di internet, di youtube, delle campagne “virali”) usano l’ironia. Una vena ironica certe volte di grana grossa, altre volte insospettabilmente più sottile. Santorum, che non è esattamente un progressista, ha fatto (o perlomeno ha approvato) uno spot tutto centrato sul fatto che uno che ha il coraggio di portarsi tutta la famiglia in giro per l’America con il minivan merita di fare il Presidente degli Stati Uniti.


Rick Perry, che aveva infilato un colossale sfondone nel dibattito a più voci in tv, dimenticandosi il nome del Dipartimento dell’Energia, in questo spot fa dell’autoironia la sua (più o meno credibile) arma. Non so se abbia funzionato, però chapeau. Chissà cosa verrebbe fuori da noi in una battaglia all’interno del pdl a colpi di spot. Vabbé, era una battuta.

domenica 29 gennaio 2012

Maria e i talenti di Mediaset

Maria de Filippi e Gerry Scotti a Italia's Got Talent

Proviamo a dare dei giudizi di fatto e non di valore. Mediaset non ha mai compreso bene i propri successi. Berlusconi li ha sempre cercati seguendo una sorta di modello Rai-On-Steroids, cioé il grande intrattenimento Rai del trentennio e quarantennio passati ma con più soldi, più lustrini e più sesso. Una formula che oggi sarebbe impraticabile per i costi e antistorica per la sensibilità generale.
Invece i veri successi sono spuntati quando lui meno se l’aspettava (da Drive In a Stranamore), e così è andata anche nei decenni successivi. Dove per successo si intende un long seller: cioé un prototipo che non necessariamente “sfonda” subito, ma si impone nel tempo, diventa un asset e insieme un modello creativo e produttivo che ridefinisce l’ambito del suo genere.
Il modello-Maria, nel bene e nel male, è nato in modo casuale e sotto il “campo di forza” di Costanzo, che all’epoca era una vera potenza, essendosi occupato in prima persona, a metà degli anni 90, della mediazione politica con la sinistra per breve tempo al governo. Il lento e progressivo shift del target di Canale 5 dalle “famiglie giovani” a un pubblico femminile giovane-centrale (quello che Agostino Saccà nelle riunioni riservate Rai chiamava con malcelato disprezzo ma indiscutibile acume “le sciampiste”) è stato determinato fondamentalmente dai programmi di Maria De Filippi e dal GF. Che anche se oggi è in crisi è stato una rivoluzione per il pubblico di Canale 5 (anche se nessuno se lo ricorda, a Berlusconi il Grande Fratello faceva orrore, e solo dopo il suo grande successo cominciò ad apprezzare, da commerciante, la gallina dalle uova d’oro che si era trovato in casa a causa di Giorgio Gori, allora direttore di Canale 5 e di Marco Bassetti, capo di Endemol). 
Antonio Ricci. 

Le grandi importazioni di modelli Rai non hanno mai funzionato a Canale 5, e ciononostante Berlusconi le ha sempre perseguite: dalle grandi campagne acquisto (la metafora calcistica è sempre quella rivelatrice, parlando della cultura imprenditoriale di B.) che portò alla Fininvest la Carrà, Baudo, e molti altri personaggi Rai; alla mimesi di prodotti Rai, dal grande varietà al programma in stile “arboriano” di seconda serata, fino ultimamente al tentativo di replicare i talent sul ballo. E invece Striscia la notizia, un programma che la Rai non avrebbe mai potuto produrre (e neanche mai potrà, secondo me) è diventata la gallina delle uova d’oro; così come le Iene (poco importa che sia un format d’importazione, ciò che conta è che la Rai non potrebbe mai permettersi le Iene). E arriviamo fino a Italia’s Got Talent. Nel bene e nel male Italia’s Got Talent è indiscutibilmente un programma Mediaset, ha un’identità forte che viene ribadita e moltiplicata dalla presenza di Maria e di Gerry Scotti. Il generalista Rai non è il generalista Mediaset e viceversa. Una cosa che anche la Rai dovrebbe tenere bene a mente.

mercoledì 25 gennaio 2012

Cosa farà Apple con tutti quei soldi?


Ho avuto un capogiro quando ieri sera Tiziana Scanu ha mandato anche a me (come a qualche migliaio di altre persone in indirizzo) i risultati dell'ultimo trimestre di Apple. Li avevo un po' letti qualche ora prima sui siti americani ma sentirli in italiano in un comunicato stampa ufficiale fa il suo effetto. In tre mesi Apple ha guadagnato (parliamo di utili) 13 miliardi di dollari.  (Per capirci, la capitalizzazione di Mediaset oggi è 2,6 miliardi di euro). Altro che Bce e poteri forti, questi se vogliono si comprano l'Europa per farci un kinderheim per i dipendenti.

In sintesi, se andiamo a spiluccare le cifre:  
1. i mac vendono più di prima, trainati dall’enorme successo di ipad e iphone 
2. comunque con i portatili Apple guadagna il triplo dei soldi che si fa con i desktop (iMac, MacPro ecc.)
3. tra i desktop, i guadagni fatti sulle torri professionali, i Mac Pro, sono una piccola parte
4. i soldi guadagnati con la vendita del software sono quisquilie rispetto a quelli portati dai device, siamo nell' ordine di uno a cento! Si conferma il modello di business Apple: il software serve a far comperare il ferro.

Quindi: il cash flow è enorme e qualche investimentone si farà. L'iTv arriverà, eh se arriverà, naturalmente quando tutto sarà pronto, in pratica quando Apple avrà in tasca i contratti strategici con i produttori di contenuti (senza i quali le famose App sulla tv rimangono delle fastidiose finestrelle). E anche nuovi campi d’azione (e di guerra con Amazon) non sono da sottovalutare: iTunes va benissimo e l’operazione sulla “scolastica” con iBooks potrebbe essere un terremoto per il mondo dell’editoria.

E i poveri geek devoti al mac? Ragazzi, continuerete ad avere dei bellissimi mac. Anzi, iMac. Saranno sempre piu' fighi, piu' semplici e piu' sottili. Basta che non pretendiate di usarli come potenti e noiose workstation in ambito professionale. Per quello, visto che sempre geek siete e geek eravate, fatevi un bell'assemblato-intel-multicore-con-tanta-ram-e-due-belle-gpu-nvidia. O se avete soldi da spendere, un orrendo (da vedere) ma muscolosissimo Hp. Il sistema operativo? Sì lo so si chiama Windows 7. Ma a 64 bit, diciamolo, non è neanche così male. E poi con Windows 8 si metterà pure il vestito alla Mondrian. Dà solo fastidio dover uscire di nuovo con la ragazza secchiona del liceo solo perché la bella della scuola non è interessata ai nerd. Neanche se di mestiere fanno i registi.

lunedì 23 gennaio 2012

Chiambretti e la Dandini (e la tachipirina)



Mi sono perso Chiambretti Sunday Show, complice un’orrenda influenza, e quindi non ho elementi diretti per valutare (e, sul web, Video Mediaset non lo mette tra i programmi da rivedere, non so se per scelta o per altre ragioni). D’altronde grazie all’influenza non ho visto neanche la prima puntata di The Show Must Go Off, solo qualche minuto per apprezzare la grafica, c’era Camilleri, scrittore che amo, intervistato e stava commentando il divano. Sono andato a prendere una tachipirina, mi sono misurato la febbre, ho fatto un sonnellino e ho riacceso per un attimo, c’era sempre Camilleri, scrittore che amo ecc., ma forse questo non e’ il ritmo giusto per una prima serata. In ogni caso il risultato della Dandini è per la 7 incoraggiante e credo che un po’ di “militanza televisiva” abbia ovviato a un certo spaesamento da prima puntata che mi era sembrato di cogliere nel poco che ho visto.


Di Chiambretti invece ho potuto soltanto leggere la scaletta nel minuto per minuto e mi sono accorto di due cose:
c’erano molte idee non banali, tutto il programma per quanto si potesse capire dalla scaletta era “ a doppia lettura” (il governo tecnico, la muzika è cambiata, chissà mai a cosa si riferiva, indovina un po’). E tutto il moralismo che già sento circolare in rete sulla presenza di ballerine e sexy girl mi sembra un po’ ipocrita e scontato.
Il problema è che, stando ai freddi dati, alla partenza del Sunday Show la Littizzetto era già in onda e tutto il pubblico che poteva capire l’impervio tentativo di doppia lettura (divertente, ma è un giochetto un po’ abusato) si è piazzato su Raitre e a Chiambretti è rimasto quel pubblico di teens e ventenni che da tempo è lo zoccolo duro di Italia 1 (quelli che in spiaggia si fanno le foto urlando Italia Unoooo), un pubblico interessante ma forse poco interessato a Scilipoti.

L’unica cosa che ho capito su Chiambretti, e non solo su di lui, è quella che ho scritto sul blog tante volte: la formuletta di passare in prime time i programmi di seconda serata (così da overnight costosi diventano magicamente primetime risparmiosi) non funziona molto, almeno in Italia: soprattutto se si rivolgono ad un pubblico che a quell’ora e su quella rete è abituato -a torto o a ragione- a tutt’altro.

venerdì 20 gennaio 2012

Addio seconde serate?

Chiambretti andrà in prime time perché costa troppo per la seconda serata

Pare che uno degli effetti della crisi sui grandi network italiani sarà quello di abolire le seconde serate. Per abolire intendo non spendere più soldi per produrre programmi che vadano in onda dopo le 23 (al massimo qualche talk, quattro persone sedute su delle poltroncine davanti a una scenografia squinzia non si negano a nessuno). Il resto saranno programmi d’acquisto. Quando è possibile le prime serate (già stiracchiate a due ore e mezzo) si allungheranno ulteriormente, com’è già avviene per alcuni reality ecc.
Mediaset è già su questa linea (anche Chiambretti, per i suoi costi, è stato reindirizzato vero le nove di sera). Non è escluso che dalla prossima stagione anche la Rai si adegui.
Il punto è che se si chiudono le seconde serate la tv generalista potrebbe morire di soffocamento. Perché quella è la fascia in cui da tempo immemorabile (diciamo da un ventennio, ecco) si sperimentano formati, formule, idee e conduttori.  Qualche esempio dal 1990 ad oggi? 
Zelig nasce in seconda serata (1997)

Le Iene, che sono il programma di punta (anche commercialmente) di Italia Uno, sono nate in seconda serata (1998) ed hanno stentato non poco, il primo anno, a fare ascolto (e dalle Iene sono usciti, in pratica, il 70% dei personaggi che hanno funzionato nel decennio trascorso). Zelig, che è Zelig, è nato in seconda serata ed ha stentato per anni prima di diventare il gigante che è. Ciro (da cui sono usciti la Littizzetto, Luca e Paolo e Bertolino) andava in onda alle 23 e all’inizio faceva il 7%. Mai dire gol è stato per lunghissimo tempo un programma di seconda serata. Vogliamo continuare? Samarcanda di Santoro è nata nel 1987 in seconda serata, era povera e scura come Calimero e senza una stagione in seconda serata oggi non sapremmo nemmeno chi è Santoro. Libero, in seconda serata, ha fatto nascere Teo Mammuccari, ha fatto crescere a conduttrice tv Paola Cortellesi ed ha rinnovato il linguaggio televisivo della Rai; Convenscion fece tre serie in seconda serata prima di andare con successo in prima e da lì uscirono Max Tortora, Ale e Franz e molti altri comici. Senza Target (seconda serata di Canale 5) non sarebbe nato il primo Verissimo con Cristina Parodi, né i talk con la Bignardi ecc. Costanzo, Vespa, Gad Lerner, sono tutti nati in seconda serata. Lupo solitario e Matrioska furono esperimenti coraggiosi di seconda serata senza i quali Antonio Ricci non avrebbe avuto gli stimoli per fare Odiens e Striscia la notizia. Cocktail d’amore su Raidue andò in seconda serata, e senza quell’esperimento sui repertori Rai non ci sarebbe stato neanche, per dire, I migliori anni.
Samarcanda in seconda serata lanciò Michele Santoro (1987)

Insomma se togli l’incubatrice delle seconde serate i bambini, intesi come nuovi volti e nuove idee, affogheranno. Faranno rapide incursioni in prima serata, daranno risultati insoddisfacenti e i direttori di rete, scuotendo la testa, diranno: l’avevo detto, è roba di nicchia, non funziona. Cosa rimarrà? Rimarranno i format. Intesi come formati importati dalle tv o dalle società che fanno trading di format nel mondo. Cioè proprio quella tv che oggi pare pesantemente invecchiata e incapace di parlare alla sensibilità degli spettatori di oggi.
A sperimentare rimarranno solo la 7 e Sky. Ma quale futuro ci potrà essere per i network che non sono capaci di rinnovarsi?
I programmi di intrattenimento in Italia (e in Spagna) già durano molto di più che negli altri Paesi, e il costo al minuto del prodotto tv è già molto più basso da noi che nel resto d’Europa. (Già sento gli ululati: “basta con i conduttori miliardari”, ecc. Ok, ma all’estero spendono di più non per i conduttori, li spendono per fare meglio i programmi, e questa è un’altra storia che avrebbe bisogno di un post ad hoc). Forse sarebbe meglio studiare come poter continuare a sperimentare, magari a basso costo, in seconda serata. Non per generosità o bontà d’animo o per voglia di fare una tv intelligente (per carità) o per dare “spazio ai giovani”. No: soltanto per non morire.

martedì 17 gennaio 2012

Sciagure e servizio pubblico (inteso come Rai)

Come si deve comportare il servizio pubblico televisivo (insomma, la Rai) in situazioni di cordoglio nazionale? Sia chiaro, non sono un moralista. Spesso i rigurgiti di moralismo sono interessati e “a comando”. Ma storicamente il comportamento della Rai nelle situazioni di tragedie collettive è sempre stato ondivago (lo so, il termine stona). Non c’è mai stata una regola, dipendeva sempre dalla governance, dai direttori, dall’aria che si respirava nel Paese. Ci sono stati momenti in cui un lutto determinava l’immediato spegnimento dei programmi di intrattenimento, altri momenti in cui si andava avanti imperterriti, altre situazioni in cui un fervorino iniziale del conduttore risolveva il problema. La regola non c’è perché in realtà non c’è un’idea chiara di cosa dev’essere il servizio pubblico. Non mi riferisco alla retorica pubblica ma a una riserva mentale nella testa dei dirigenti. Dobbiamo pensare alla pubblicità? Dobbiamo pensare a non stressare troppo il Paese? Dobbiamo dare l’idea che le cose comunque vanno avanti? Dobbiamo far sentire la parrtecipazione a un lutto? Non è una risposta facile, soprattutto se non sono chiare le premesse.
Nel 1963, quando John Kennedy venne colpito a morte a Dallas, la Rai sospese le sue trasmissioni in segno di lutto. Fu una decisione bizzarra. Nello stesso momento i network americani andavano in onda senza sosta (e tagliando la pubblicità) per informare il pubblico. Ma erano i tempi del monopolio, si respirava ancora una certa aria di sagrestia e la soluzione dev’essere sembrata semplice e chiara (d’altra parte, avvenne alle nove di sera ora italiana, non esisteva il satellite e due ore dopo comunque il Programma nazionale avrebbe concluso le sue trasmissioni).
Walter Cronkite annuncia in diretta la morte di Kennedy alla CBS

Cinquant’anni dopo la Rai non solo non è monopolio ma non è neanche maggioranza assoluta, nel senso che tutte le televisioni private, free e a pagamento, messe insieme coprono due terzi dell’audience. E quindi? E quindi forse la strada di dedicare la serata del canale principale all’informazione sarebbe stata più consona al servizio pubblico. Ma, scusa, si dirà: i canali sono tre. Anzi sono 12, considerando tutto il bouquet del digitale terrestre. Già, sono 12. E tra quei 12 il canale news non ha neanche i soldi e la struttura per mandare subito una fly all’Isola del Giglio.

Quando poi sono passate più di 48 ore dalla notizia ecco che la macchina si sveglia: i programmi di infotainment si mobilitano, i talk si riorganizzano e arriviamo ad una copertura melassosa e continua, con quel retrogusto un po’ ipocrita che talvolta spunta nella mestizia esibita. Cos’è successo? Nessuno seguiva le notizie? Qualcuno sia è accorto che l’argomento interessa? Che “funziona”? Ecco, è proprio questo ciò che forse stride in un servizio pubblico: andare a rimorchio e non, come dicono alla BBC, “setting the standard”.

lunedì 16 gennaio 2012

A marzo l'iPad3, prima che Kindle Fire dia fastidio



A marzo dovrebbe uscire l'iPad 3, principali novità lo schermo a più alta definizione, probabilmente Retina (non solo per vedere meglio i film ma anche per consentire una lettura dei testi più simile a quella di una pagina stampata), un processore quad-core (quindi più multitasking), grafica più potente e quindi più veloce (i video dovrebbero partire subito) e sarà compatibile con le reti veloci LTE (quelle che da noi vengono chiamate 4G, in pratica un UMTS perfezionato, che i provider telefonici stanno per attivare anche in Italia).
Il Kindle Fire (199$)
 L'altra novità è che probabilmente non sarà Sharp a produrre i display. Il deal con Sharp era stata la grande novità anche in prospettiva della iTelevision, in programma (forse) per l'anno prossimo, ma secondo i siti specializzati Sharp non avrebbe "passato" i requisiti richiesti da Apple (non si capisce se dal punto di vista qualitativo o quantitativo). Se lo schermo non sarà Sharp non potrà essere usata la tecnologia IGZO, quindi l'iPad 3 non dovrebbe essere più sottile del precedente, dovendo ospitare tra l'altro una batteria in grado di farlo funzionare per 10 ore. Il problema del lancio di una nuova versione di un device Apple è ormai anche legato alla capacità produttiva dei fornitori (al momento del lancio Apple dev'essere in grado di distribuirne milioni di esemplari). L'effetto alone del brand Apple continua, come si vede dalle risse a Pechino per comperare gli iPhone, documentate dalla CNN (la vendita per ora è stata sospesa).

Folla a Pechino per comperare l'iPhone

E quindi a Infinite Loop puntano sul momento favorevole per bloccare i concorrenti: non solo Samsung e gli altri device su Android, ma anche il nuovo Kindle Fire dell'Amazon, che a differenza dei precedenti Kindle è un temibile avversario ad un prezzo stracciato (costa un terzo dell'iPad, 199 dollari, ma in Europa non è ancora distribuito).

sabato 14 gennaio 2012

Mai morire di sabato in Italia


Mai morire di sabato in Italia. Soprattutto adesso, con i tagli che hanno colpito i telegiornali e i canali news. Stamattina, oltre a Sky News, solo TgCom24 era in diretta con un inviato dall’Isola del Giglio.
Ma com’è possibile? E com’è possibile che, anche nei contenitori di soft news del sabato, nessuno avesse sconvolto la scaletta per raccontare una tragedia in corso?
Nella nostra memoria c’è ancora lo stereotipo del giornalista alla Prima pagina, disposto a tutto per acchiappare la notizia, soprattutto se può darla per primo. Soprattutto se si tratta di una notizia vicina a noi. Ma non nei tg. Risposta presumibile? Già mi fischiano le orecchie: non abbiamo le troupe, non possiamo fare straordinari, non ci davano il ponte ecc. Tutto giusto, ma non sottovaluterei il peso, nei palazzi delle tv, dell’algoritmo sticazzi.
-C’è la nave naufragata!
-Sticazzi.
-Non funzionavano le scialuppe!
-Ehh, sticazzi
-C'è ancora gente sulla nave!
-Ma non c'abbiamo neanche la squadra in studio, dai.
-Ma ci sono dei morti!
-Eeeh, sticazzi, che ci posso fare io?
-Dicevano sembra il Titanic!
-Uh. Perchè non lo mettiamo in palinsesto, Titanic? Ragazzi, quanti passaggi ci sono rimasti, di Titanic?
-C’abbiamo solo quello in bianco e nero.
-Vabbè, sticazzi.
E amen. Viva internet.

[UPDATE, ore 20: La tragedia dell'Isola del Giglio sembra anche più grave, col rischio che i morti siano molti di più. Lentamente l'informazione televisiva delle reti generaliste comincia a coprire come si conviene l'avvenimento. Ma rimane l'incredibile sottovalutazione, miopia, approssimazione delle prime 24 ore. E resta l'assurdo equivoco- una moda di questi ultimi anni- per cui quando c'è una tragedia nazionale i canali generalisti possano continuare a trasmettere giochini e scemenze "tanto ci sono i canali news". Tv generalista significa occuparsi di ciò che interessa a tutti. Che nel caso di oggi pomeriggio non erano i giochini e il gossip.]

giovedì 12 gennaio 2012

Ti lamenti di Cortina? Non hai provato l'America


Come si comunica l’esigenza etica di pagare le tasse? Interessante problema. Dopo le polemiche sull’ispezione dell’Agenzia delle Entrate a Cortina, con la rivolta dei suvisti finti poveri e dei negozianti  malati di scontrinite cronica, ci siamo chiesti: ma in America, come fanno?
Paolo Malizia mi ha dato una dritta ed ecco qua una prelibatezza: lo spot (che abbiamo sottotitolato) con cui lo Stato della Pennsylvania consiglia agli evasori fiscali di pagare le tasse. Altro che parassiti dei ruminanti.
A proposito: il Governatore della Pennsylvania è Tom Corbett, Repubblicano.

Glenville supera le 10.000 visualizzazioni

Con oggi Glenville ha superato le 10mila visualizzazioni. Grazie a tutti.

Il tredicesimo apostolo e la tv del secolo scorso

Claudio Gioé e Claudia Pandolfi, Il Tredicesimo apostolo
Scrivo questo post “a urne aperte”, senza aspettare il responso dell’Auditel alla seconda puntata del Tredicesimo apostolo, la fiction di Taodue che è andata benissimo con il primo episodio e immagino andrà  bene anche con il secondo. [UPDATE delle 10.05: Chi l'ha visto le ha dato un po' fastidio, ma comunque ha vinto la serata]. Com’è noto questo non è un blog di critica televisiva (chi fa tv faccia tv e chi fa il critico faccia il critico). Mi interessa invece cogliere un mood.
Secondo me è stata un'intelligente intuizione recuperare un genere che nella storia della tv italiana ha avuto pochi precedenti ma tutti di successo. Non mi riferisco ai romanzi di Dan Brown né a Fringe, a cui il pubblico più giovane potrebbe aver associato Il tredicesimo apostolo (Fringe però è, come dire?, linguisticamente più complesso). Ma al Segno del comando.

Carla Gravina e la Roma misteriosa (1971)
Il segno del comando fu uno shock per il pubblico televisivo del secolo scorso. E’ una fiction (ai tempi si diceva un originale televisivo) di quarant’anni fa. Andò in onda a maggio e giugno del 1971. Ebbe una lunga gestazione, con litigi, dimissioni e ritiri di sceneggiatori, cambi di finale, discussioni interminabili e fu prodotto con scetticismo dalla dirigenza Rai.  Fu uno straordinario successo (quasi 15 milioni di telespettatori, cifre da capogiro possibili ai tempi del monopolio). Ma fu anche un caso di scuola: si evidenziò che il pubblico italiano ha una particolare sensibilità alle storie che riescono a trattare in modo efficace l’occulto con temperature accettabili dalla nostra  tradizione culturale, fondamentalmente cattolica. (Poi arrivò Ritratto di donna velata, diretto da Flaminio Bollini nel 1974, dove Daria Nicolodi era la reincarnazione della donna velata ritratta in una quadro del Settecento. Grandissimo successo anche in quel caso).
Il pubblico televisivo italiano veniva da un precedente shock culturale, la miniserie francese Belfagor (Belphégor ou Le fantôme du Louvre, 1965), andata in onda in Italia nel 1966, che aveva alimentato i friccichi di paura di un Paese che scopriva contemporaneamente la tv, la lavatrice, il frigorifero e l’insolito.
Il segno del comando, oltre alla recitazione dall’occhio umido di Ugo Pagliai e alla fantastica fissità di Carla Gravina (che poi fu eletta Deputato al parlamento per il Partito comunista) aveva dalla sua una dotta scrittura teatrale e la capacità di inventare una Roma settecentesca-londinese dove tutto ti aspetti tranne sentirti dire aho’. Flaminio Bollini e Dante Guardamagna, e poi Lucio Mandarà e Giuseppe D’Agata scrissero e riscrissero, si sfancularono, e alla fine lasciarono solo D’Agata a finire la sceneggiatura. La regia viene affidata a Daniele D’Anza che mescolò creativamente i set esterni di Roma, usando molto i portici dello stabile di via Margutta dove tuttora abitano intellettuali e noti scenografi romani. Gli interni vennero girati alla Rai di Napoli, che era un centro d’eccellenza per gli “sceneggiati”. Grande artigianato che si è perso per strada. Tanto che ora, per raccontare una storia de paura ambientata a Roma servono un regista inglese e un direttore della fotografia americano, celebre per la fortunata serie Erotic Confessions (1994).

martedì 10 gennaio 2012

Smartphone: ormai è una gara a due, Apple vs Google

Sono appena usciti i dati sulle vendite negli Stati Uniti degli smartphone in ottobre-novembre e sono abbastanza impressionanti. Ormai la gara è a due, Apple e Google. Secondo NPD Group, una grande società americana di ricerche di mercato, la quota di Apple, con i suoi iPhone basati sul sistema operativo iOS sta raggiungendo quella data dalla somma di tutti i telefonini intelligenti basati su Android (il sistema operativo sviluppato da Google, che viene usato da Samsung per i suoi Galaxy e da altre aziende).
Il colpo decisivo è stato dato dal lancio sul mercato del nuovo iPhone 4s. A questo punto è probabile che i prossimi dati sul periodo natalizio segnino il sorpasso da parte di iOS su Android, almeno sul mercato Usa. Anche se rimasta seconda (e bersagliata in tutto il mondo dalle cause di Apple, che le ha anche cancellato le commesse di outsurcing per parti dei suoi device) Samsung tiene duro molto bene.
E tutti gli altri? Sembrano sempre di più fuori dai giochi. Specialmente Rim (i produttori del Blackberry), per non parlare dei Windows Phone. Anche negli Stati Uniti, patria per più di due decenni degli orridi messaging devices è ormai il momento degli smartphone, che sono passati complessivamente dal 46% del mercato (terzo trimestre del 2010) al 67% (ottobre-novembre 2011), mentre i telefonini “semplici” sono ormai il 15% del mercato. Ciò significa un’America che sarà anche in crisi ma sempre più “connessa”.

Cosa succederà alla Rai e a Mediaset?


Finita la pausa natalizia sono ripartiti i boatos sul destino dei management Rai e Mediaset in questa spaventosa crisi economica. Per la Rai ci ha pensato direttamente Monti a mettere un paletto grande come una casa, quasi a prefigurare un intervento diretto sulla governance Rai allo scadere dell'attuale Consiglio d'Amministrazione. A Mediaset, dopo i lamenti di alcuni investitori esteri, le preoccupazioni sulla raccolta pubblicitaria e le valutazioni sul peso rilevante dell'investimento nella pay tv, sono partiti i rumors sulla possibilità che plani su Cologno un manager esterno. Voci presto smentite, ma anche a questo blog erano fischiate le orecchie qualche settimana fa su nomi non troppo diversi. Magari non succederà nulla -oppure è possibile che, essendoci ad Arcore un papà con più tempo libero, voglia tornare ad occuparsi un po' di tv (ma le ricette di ieri oggi sono inapplicabili).
In realtà Rai e Mediaset si misurano con lo stesso problema:
1. La pubblicità porta meno soldi e le prospettive per il 2012 non sono brillanti, per usare un eufemismo;
2. A puntar tutto sui tagli ai palinsesti si rischia un gigantesco effetto boomerang;
3. La crisi paradossalmente riporta una domanda (non so quanto congiunturale) di programmazione generalista, ma le aspettative sono superiori alle risorse disponibili (traduzione: magari Fiorello tutte le settimane sarebbe un successo costante, ma chi ha i soldi per Fiorello tutte le settimane? ecc.).
4. D'altronde i dati di tutta Europa segnano un aumento del consumo di tv in minuti rispetto agli anni passati.

Poiché l'unico vero precedente che abbiamo è -ahimè- quello della Grande Crisi del '29, gli storici concordano sul fatto che quelli furono gli anni dell'esplosione della domanda di cultura di massa (cinema, fumetti, radio). Se ci pensate le grandi icone dell'entertainment sono nate tutte in quegli anni e ce le siamo portate dietro per tutto il secolo passato. Ma il punto è che quello era un modello di business, come si dice adesso, basato sull'utente finale (traduzione: chi produceva intrattenimento doveva vendere un prodotto -un film, una canzone, un fumetto, un rotocalco- al consumatore). Oggi il modello dominante è quello pubblicitario (vendere uno spettatore a un inserzionista). Ma i soldi della pubblicità non bastano più ad alimentare tutto il sistema. E senza i big spender, fondamentalmente i network televisivi, tutto il sistema si inceppa perché nessun altro può investire per produrre una fiction o un grande programma di intrattenimento, e neanche coprodurre un film (ci sta provando Sky ma nel suo modello non è un investimento sostenibile per tutto l'anno). Quindi? Quindi i grandi fornitori di contenuti devono imparare a navigare in un regime misto, in cui i soldi per il prodotto arriveranno in parte della pubblicità e in parte dalla spesa (micropagamenti) diretta dei consumatori. E' proprio lì che non puoi sbagliare. Ed è proprio lì che la vecchia scuola tv non aiuta. Insomma i network, pubblici e privati, devono trovare nuovi modi per fare soldi (far pagare il canone a tutti sarebbe già una strada, ma vale solo per la Rai). Anche perché stanno per affacciarsi nuove ragazze in città (Apple Tv, Google tv, Smart Tv e vattelapesca). E' il grande tema del futuro di internet, delle App, della possibile evoluzione dei social network. Ma per far questo ci vuole una rivoluzione copernicana nella mentalità del management. Non basta tagliare sulle mazzette dei giornali.

lunedì 9 gennaio 2012

Il paese degli indignati



Siamo diventati il Paese degli indignati. L’ultima indignazione è contro lo spot istituzionale della McCann per gli Abbonamenti Rai, in cui a un certo punto si vede- in un contesto del tutto inoffensivo- Papa Wojtyla. Mi ha sempre commosso la tenacia con cui i creativi romani di McCann riescono, anno dopo anno, a proporre un'immagine della Rai friendly e cool, che neanche i capi della Rai hanno in testa (figuriamoci i creativi di McCann, secondo me devono farsi dei gran pediluvi, PPM appesi al lampadario, training autogeni e alla fine pensare al mutuo, e oplà la strategia creativa ogni anno esce fuori. Tanto di cappello, comunque, anche se si capisce che quest'anno i soldi da spendere erano pochi).

John Belushi in 1941
In ogni caso, è curiosa questa nostra tendenza ad indignarci per le cose più diverse, basta che l’indignazione porti come bottino un po’ di spazio mediatico. Anni fa c’erano le mitiche Associazioni dei genitori (me ne ricordo una di cui non faccio il nome perché ha la querela facile, ci bastonava continuamente poi una volta invitai credo la sua Presidentessa a Cronache marziane. Evidentemente la cosa le piacque perché tornò altre volte e alla fine ballava sul tavolo con personaggi che non avrebbero sfigurato nel bar di Guerre stellari). Poi è arrivato il Codacons, con cui non so mai se si debba essere d’accordo a prescindere o sanamente dubitare (come diceva un noto statista democristiano vivente, a pensar male non si sbaglia quasi mai). Adesso gli specialisti dell’indignazione facile (con comunicato alle agenzie incorporato) allignano nell’Idv. D’altronde da lì è uscito anche Scilipoti, per chi se lo fosse dimenticato. E’ una tradizione italiana: indignarsi spesso, ma con la memoria corta.

Una volta Oreste del Buono, un intellettuale vero che purtroppo non c’è più mi invitò a vedere la prima di 1941, un folle (e sfortunato) film di Spielberg che metteva in burletta la mobilitazione collettiva nella provincia americana contro la possibile invasione giapponese. Vedi, mi disse Oreste, è come se da noi avessero fatto un film comico sulla Resistenza. Da noi non si può fare. Amen.

(A proposito, la questione del canone è molto semplice: è una tassa. Poi come i soldi si spendono è un altro discorso. Altrimenti avrebbero ragione gli evasori fiscali.)

domenica 8 gennaio 2012

Do you remember, Michele?


L'intervista di Santoro a Fazio di ieri (sabato) richiama una riflessione seria sull'esperienza che Michele sta conducendo con "Servizio pubblico" e il suo futuro (e quindi sul futuro, Rai o non Rai, di Santoro stesso). Nel frattempo mi è capitata tra le mani una vecchia cassetta di Target (credo del '97) che aveva in testa un promo istituzionale Mediaset. Ve la ripropongo perché serve a capire che le cose sono sempre in movimento. Le cose cambiano.

sabato 7 gennaio 2012

Oplà, dentro Criminal Minds ci metto la mia pubblicità

Sopra, la scena originale di Criminal Minds; sotto, la sstessa scena con l'inserimento del poster pubblicitario
Da un po’ di tempo (e cioè da quando i soldi hanno cominciato a scarseggiare) tutti gli addetti ai lavori sostengono che il futuro della produzione tv è nel product placement, che adesso è legale anche in Italia. Il problema è come farlo. A quanto pare la Cuatro, il network spagnolo recentemente acquisito da mediaset ha trovato una strada abbastanza curiosa: inserire manifesti virtuali dentro le serie tv già girate. L’esempio lo mostra El Mundo di ieri (me l’ha segnalato Dario Viola a cui non sfugge nulla). Eccolo qua: sopra, il fotogramma originale di Criminal Minds; e sotto, il fotogramma modificato con l’inserimento del tabellone pubblicitario. In questo caso, di Alain Afflelou.
Il dubbio era venuto ad alcuni appassionati: come mai una catena francese di negozi di occhiali ha piazzato cartelloni dovunque in una serie americana? Semplice. Macché, non li ha mai piazzati. Nella serie originale non ci sono. Sono stati inseriti digitalmente (e a occhio, anche bene, con un buon lavoro di tracking e di luci) solo per i telespettatori spagnoli, da MPG-Media Contacts assieme ad Havas Sports & Entertainment. Un’idea interessante, anche se avevamo capito che il product placement dovesse essere qualcosa di più dell’inserimento surrettizio di un prodotto, come facevano i nostri cinematografari ai tempi d’oro di Cinecittà con le marche di sigarette.
Chissà se presto vedremo un bel poster 6x3 di Calzedonia dietro l’addio tra Bogart e la Bergman  in Casablanca.
Comunque Criminal Minds non si può lamentare, visto che stando ai maniaci di Brandin’Movie la serie già contiene prodotti di Apple, AT&T, Chevrolet, Chrysler, Converse, Crunch'n munch, Ford, Microsoft, Mumm, Nissan, Pepsi, Sony Ericsson, Toyota. Magari alcuni inserimenti sono casuali: Apple, ad esempio, non paga mai. Eppure i suoi laptop con la mela occhieggiano qua e là in tutte le serie americane. Magari il props manager (insomma, il trovarobe) ci mette il suo al volo. E senza effetti speciali. Miracoli del brand.

UPDATE: Mi dicono che si stanno già commercializzando dei package di virtual product placement, e la mia battuta su Casablanca era rimasta indietro rispetto alla realtà. Sentite cosa scrive Advertising & Marketing Review: "It is interesting to consider how many digital product placements could tastefully be inserted into the movie classic Casablanca."

Anche Real World passa ad Avid

Il cast di The Real World, il primo reality della storia
[UPDATE: Mark Raudonis di Bunim/Murray ha spiegato diffusamente perché il gigante del reality americano ritorna ad Avid in un'intervista a Creative Cow, che trovate qui.]
Tutti i blog americani sui media stanno dando molto spazio alla notizia che anche quelli della Bunim/Murray Productions (e chi diavolo sono? Sono quelli che hanno inventato vent’anni fa i reality, con The Real World, su MTV) hanno deciso di mollare Final Cut Pro. Final Cut è il software di montaggio più diffuso al mondo, creato dalla Apple e dalla stessa abbandonato sul bagnasciuga quest’estate, quando in pratica la casa di Cupertino ha iniziato a dismettere la Divisione “Pro Applications” e si è votata definitivamente alla caccia di una selvaggina più grossa e profittevole, le masse dei consumatori di devices come iPhone e iPad, per le quali è stato scritto il nuovo FCPX.

 Bunim/Murray (gli stessi che attualmente producono reality come l’orrida e meravigliosa Keeping Up with the Kardashians, in Italia su E!,  e Project Runway) hanno annunciato di essere passati armi e bagagli ad Avid. Ovviamente la società del Media Composer ne ha dato subito notizia. Per gli addetti ai lavori: la nuova pipeline di Bunim/Murray sarà basata su Media Composer 6 e le sue stazioni saranno interconnesse a uno storaggio Avid ISIS. Nei mesi scorsi si era  saputo dei mugugni dei settori tecnici di BBC e Disney, alcune delle grandi aziende che negli anni scorsi erano passate in parte al sistema Apple, dedicando a quella transizione importanti investimenti. Il costo è prima di tutto umano (riaddestrare i montatori e in certi casi i producer a montare con un sistema che in passato era stato abbandonato perché costoso, rigido e antiquato). Ma con la nuova release (Media Composer 6) tutto sembrerebbe più semplice: la Avid ha imparato duramente la lezione del mercato e ha riscritto il software in una versione più aperta, come abbiamo spiegato anche in un post che trovate qui. In pratica MC6 può lavorare con i computer Apple e le schede (Aja, Blackmagic, Matrox) già usate per Final Cut (cosa che fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile) e può leggere il codec Apple più diffuso, ProRes. Basta che le workstation siano abbastanza potenti. E sennò si torna al vecchio (sob) Pc Windows, visto che a Infinite Loop pare sia stato archiviato il progetto di un nuovo Mac Pro e le torri di due anni fa cominciano a mostrare segni di vecchiaia (velocità dei processori, espandibilità ecc.). Perfino Blackmagic, la super-vitale società che ha comperato il glorioso DaVinci, farà uscire tra poche settimane il più famoso software di color grading in una versione per Windows.
La GUI di Media Composer 6


L’interrogativo rimane sempre lo stesso: visto che Apple è seduta su una montagna di dollari (caso più unico che raro nella situazione attuale) era così difficile mantenere un presidio nel settore, quello professionale fatto di grafici, montatori, musicisti, creativi, che le ha dato lustro e, come si dice adesso, “brand”? Non è che anche dalle parti di Infinite Loop hanno smesso di pensare “out of the box”?
[P.S.: Ho cinque licenze Final Cut Pro, maledizione].

giovedì 5 gennaio 2012

Il braccio di ferro tra Apple e Hollywood per la tv


Nuova puntata della guerra attorno alla prossima tv di Apple. Secondo Usa Today nell’ufficio del mitico Jonathan Ive (il senior designer che ha inventato il look Apple) è custodito come un segreto industriale un televisore da 50 pollici, ovviamente wifi (che si immagina guardato a vista da una inflessibile security). Cosa stanno architettando? 

L’iTV, di cui abbiamo parlato in un post di qualche settimana fa, sta attirando la curiosità e le preoccupazioni (comprensibili, dal loro punto di vista), di tutti i CEO dell’industria elettronica, dei network e dell’intrattenimento. I produttori di televisori come Samsung temono che un device fighetto, connesso al chain iTunes, alle varie App e basato sui comandi vocali di Siri possa rappresentare un pericoloso concorrente (magari leggermente più caro della concorrenza, così mentre il ricarico su ogni televisore di Samsung, LG, Sony ecc, è sempre più basso il cool factor Apple potrebbe consentire alla casa di Cupertino un extra-profitto: la coltellata finale per un comparto tradizionale già in crisi). 

Jonathan Ive, Senior Vice-President, Apple
La forza di un’operazione così ambiziosa sta nell’enorme disponibilità di liquido, che potrebbe consentire agli abitanti di Infinite Loop di acquisire i diritti di primo passaggio di film, serie tv e altri contenuti premium. Anzi, questo è il pre-requisito per Apple: avere nel suo iCloud una ricca dotazione di contenuti originali da distribuire (e da scambiare, per il consumatore Apple, tra mac, ipad, ipod, iphone e, appunto, la prossima iTV). Ma stando ai rumors che già impazzano sulla rete [lo so, i rumors sempre impazzano, sono luoghi comuni, ma stavolta è vero] Apple avrebbe già iniziato i suoi abboccamenti con i vari “produttori di contenuti”, da NBC Universal a Fox, da Disney a Warner a tanti altri. Presentando, si può immaginare, un portafoglio talmente pieno di cash da far impallidire qualunque CEO. Ma dall’altra parte del tavolo (o dei tavoli) pare le risposte non siano state così entusiaste. 
"Non è che così ci infiliamo direttamente nella bocca del leone?" Avranno pensato i capi di Hollywood e dintorni. "Abbiamo visto com’è andata all’industria discografica, ormai nelle mani di iTunes. I soldi dalle pay-tv (sostanzialmente, negli Stati Uniti, dal cable) continuano ad arrivare, l’ascolto complessivo della televisione è comunque, anche grazie alla crisi, aumentato, perché dobbiamo consegnarci mani e piedi a Apple? Si sa come sono quei ragazzi: poi vogliono comandare loro". Altro che Google Tv. Certo, potrebbe essere un affare per tutti, e Dio sa se l’industria dell’intrattenimento non ne abbia bisogno, visto che i soldi della pubblicità si sparpagliano. Ma i produttori di contenuti vogliono vendere cara la pelle. Anzitutto, la mossa di Apple ha chiarito una cosa: computer, tablet, iPhone quanto si vuole, ma il controllo dell’industria dell’intrattenimento e della tv passa sempre dal televisorone del salotto. Già si parla di “neo-broadcasting”. Meglio misurare i propri passi.

mercoledì 4 gennaio 2012

Se lo Zio Walt batte il Grande Fratello

Beauty and the Beast (Disney, 1991)
Ragazzi dei palinsesti, menti brillanti del marketing, masterizzati dei centri media, attenzione! L'altro ieri La bella e la bestia (Disney, 1991) ha surclassato il GF, con performance impressionanti soprattutto sul pubblico giovane (33% sui 15-24, 29% sui 25-34!).  Ora: è vero che l'edizione di quest'anno del Grande Fratello (anzi, di Grande Fratello, come dicono all'Endemol) è particolarmente sfortunata, così come è vero che i dati dei meter durante quelle che gli esperti di marketing chiamano "le strenne", e cioé le feste di Natale, non sono totalmente rappresentativi del bacino d'ascolto reale (gente che va in vacanza, ecc.). Ma è anche vero che Beauty and the Beast, superclassico della Disney Renaissance degli anni '90 era già presente sotto forma di home video nelle case di qualunque famiglia italiana abbia avuto figli o nipoti nel passato quindicennio (da quando cioé Buena Vista ha iniziato a distribuirlo in vhs e poi in dvd).

1990: Jeffrey Katzenberg allo storyboard di Beauty and the Beast  (C) Disney
 Ritorna quindi il successo della ricetta generalista, in controtendenza con quelli che, fino alla Crisi, abbiamo considerato i trend inarrestabili verso una fruizione polverizzata tra i canali e i media. D'altronde a livello mondiale gli addetti ai lavori cominciano a parlare di tv "feel-good" come ricetta per i network in crisi. La formuletta è tutta da verificare, ma il caso dei prodotti Disney è particolarmente significativo. I "classici" Disney in passato non avevano raccolto ascolti entusiasmanti su Raiuno. Almeno fino alla sventagliata di longometraggi disneyani programmati in questo periodo natalizio. E' vero (come ricorda saggiamente Hit su Tvblog) che quando si mettono in mezzo le principesse è come usare l'arma fine-di-mondo, ed è quasi impossibile perdere sul pubblico femminile indifferenziato. Ma è altrettanto vero che il prodotto in questione era già disponibile in quasi tutte le case degli italiani. Tant'è vero che Beauty and the Beast è nella top ten delle più grandi vendite home video mai realizzate dalla Disney. E quindi? E quindi
1. un conto è vedere o rivedere un classico in dvd (o da un orrido divx scaricato da Torrent), un conto è rivederlo assieme a tutta la famiglia sapendo che altri milioni di persone lo stanno vedendo con te. (Niente di nuovo, il fenomeno ha tante definizioni sociologiche, quello che importa è sapere che nella crisi ciò è ridiventato un plus);
Alessia Marcuzzi si commuove durante il GF
 2. c'è una inaspettata domanda di "tv generalista": che non deve più essere confusa con la tv per i "telemorenti", come direbbe Boncompagni. La tv generalista non è la tv per vecchi o il formatino "family" accroccato con quattro soldi e la solita compagnia di giro di ospiti noti alle patrie "risorse artistiche" dei principali network. Oggi la tv generalista -quella che riunisce la famiglia o comunque generazioni diverse, com'è stato per Fiorello- è tale se viene riconosciuta come un prodotto premium, un'offerta ricca e di qualità, non un ripiego per disperati. Diciamo che la crisi ha dato una insperata chance ai difensori delle generaliste, ma a un prezzo: devono essere prodotti di alto livello. (A proposito: spero che prima o poi venga distribuito anche in Italia un documentario come Waking Sleeping Beauty, che racconta appunto quali furono le basi del Rinascimento disneyano dopo la crisi degli anni '80). Insomma: non confondiamo tout court il Capodanno di Conti con un grande successo generalista. Lì il problema è un altro ed ha sede a Cologno Monzese.

domenica 1 gennaio 2012

9000 contatti, Glenville torna il 4 gennaio

Auguri di buon 2012 a tutti e grazie per i 9000 contatti. Sono in ferie, il blog ritorna il 4 gennaio con un post sulle tendenze della tv del nuovo anno. Sara' l'anno della miseria anche in tv? O saremo tutti costretti a inventare qualcosa di nuovo per adeguarci alla situazione? Cambiera' qualcosa? Appuntamento a mercoledi.