mercoledì 27 febbraio 2013

Elezioni in tv, tra populismo e illuminismo


Solo due cose sulle elezioni.
1. Abbiamo scritto anche qui, da tempo, che i temi della protesta “antipolitica” e anticasta avevano grandissimo successo in tv. Programmi come Quinta colonna (e non solo Santoro & C.) hanno alimentato questo mood, che raccoglieva e moltiplicava una protesta che aveva le sue radici nell’impoverimento reale dei ceti medi, e non solo nelle minacce al lavoro dipendente. La cosa ha fruttato a B. (come previsto) ma soprattutto ha fatto volare Grillo (che già di per sé non scherzava).
2. La scorciatoia populista (le spiegazioni semplici a problemi difficili) è stata resa più praticabile, oltre che dagli scandali, dall’assenza di confronti veri e propri sulle alternative reali di fronte alla crisi. In assenza di questi chi la sparava più grossa vinceva. E il principio di realtà sfumava.
3. Il successo della “campagna delle Primarie”, che aveva fatto sognare i dirigenti e i commentatori di centro-sinistra, era dovuto anche al fatto che lì si erano confrontate ipotesi politiche diverse, in parte alternative, e che erano echeggiate parole e idee diverse dal solito, condivisibili o meno, ma non scontate. Ma nella seconda fase della campagna elettorale il centro-sinistra non è stato in grado (e forse non ci ha nemmeno creduto fino in fondo) di imporre i confronti tra i diversi capi delle coalizioni. Ritenendosi incumbent, magari non lo riteneva neppure vantaggioso. Ma essere incumbent nei sondaggi, quando perdi centralità nell’agenda dei media, significa illudersi.
4. La campagna elettorale ci ha ricordato (dovremmo saperlo, ma spesso ci ricadiamo anche noi) che se il populismo è una brutta bestia l’illuminismo è la morte della politica, e non solo perché c’è la tv. Soprattutto in Italia. Ragionare pacati va bene se c’è qualcuno con cui ragionare. Altrimenti a un Paese smemorato, incazzato e impaurito devi anche dare la possibilità sognare un cambiamento. [Ah, e le tasse, in un Paese di poveri proprietari di case, se proprio si devono mettere si mettono, non si annunciano].

lunedì 25 febbraio 2013

Spotify contro iTunes, il darwinismo crudele del web



Spotify, il servizio di streaming musicale per abbonamento nato in Europa, è la vera
sfida a iTunes e alla Apple.

A fornirti La canzone mononota di Elio o Scream & Shout di will.i.am e Britney Spears son bravi tutti. Allora ho provato con qualcosa di più difficile, tipo The Planets di Gustav Holst: ne avevano otto esecuzioni diverse. Poi ho cercato La lontananza nostalgica utopica futura di Luigi Nono. E c’era anche quella. Kilindini Docks: tre versioni. D’accordo, Spotify, ti pagherò i 10 euro al mese per avere con me, in streaming, tutta la musica che voglio. Sul pc, sul mac, sul tablet e sul telefono. E’ qui che mi sono detto: ecco un altro terreno sul quale Apple è seriamente minacciata. E se non cambia passo…
I concorrenti di Spotify.
La libreria di iTunes è stata la grande invenzione che ha sepolto gran parte dell’industria discografica e delle catene dei suoi retailers (mettendo in crisi i vari Tower Records ecc. in America e Inghilterra e qui Messaggerie e Ricordi). E dando una risposta alternativa allo scarico abusivo di musica. Ma adesso anche quella formula sembra datata. iTunes è basato sostanzialmente sul download dei brani. Scarichi una canzone e paghi un euro scarso. Un euro è un micropagamento, la soglia sotto la quale non dai importanza al valore del danaro. Ma quell’euro, sommato a tanti altri, fa una bella somma. E soprattutto, un pezzo scaricato, anche legalmente, non è un pezzo “di tua proprietà”. Non è come un cd o un vecchio disco di vinile. Non lo lascerai ai tuoi eredi. Più probabilmente lo perderai nei meandri degli hard disk, assieme alle migliaia di foto fatte con lo smartphone. Sì, puoi riscaricarlo, puoi metterlo sul cloud e ritrovarlo lì chissà per quanto tempo. Forse. Ma non è più “cosa tua”. Una volta che sei passato mentalmente dalla proprietà di un bene al suo usufrutto hai già compiuto una rivoluzione mentale. Dolorosa per i feticisti come me, che hanno collezionato per decenni libri e dischi. Ma forse inevitabile. E tanto comoda.
iTunes Store nella versione 11.0.

E allora, a quel punto, non è meglio lo streaming (se la rete funziona)? Non è meglio portarsi dietro tutta la musica del mondo invece della tua piccola parte? Non è meglio scambiare playlist invece che dischi o chiavette di mp3? In più Spotify esce in iOs a 320kbyte, una qualità che, ascoltata con un medio impianto hifi, per non parlare delle spaventose cuffiette degli smartphone, è indistinguibile da quella di un cd. E soprattutto, hai a portata di mano tutta la musica del mondo. (No, non tutta, i Beatles per ora non ci sono, mentre iTunes finalmente li ha avuti. Ma chi non possiede un album dei Beatles? E gli accordi con le majors sono tuttora in corso).
Il confronto tra i vari servizi di streaming e downloading secondo il britannico
Which? (I prezzi sono in sterline).

Avverrà la stessa cosa anche con il video? E’ solo questione di tempo, arriveranno Hulu, Netflix e company. I dischi non scompariranno, i dvd e bluray non scompariranno, così come non sono scomparsi i teatri d’opera. Ma quanta gente va all’Opera?
P.S.: Come tutte le applicazioni social, anche Spotify è fantasticamente intrusiva. Oltre a consentirti di scambiare playlist ti informa anche di quello che ascoltano gli amici. Leggo sulla barra a destra che in questo momento (8.15 del mattino) Guia Soncini sta ascoltando l’ennesima canzone di Guccini. E’ la community, bellezza.


domenica 17 febbraio 2013

Perché fabfazio e giankaleone hanno capito tutto


Fazio e Littizzetto, scommessa vinta.
A Sanremo concluso possiamo serenamente affermare che Fabio Fazio e Giancarlo Leone, anzi @fabfazio e @giankaleone, i loro avatar su twitter, hanno capito tutto. La loro è stata un’operazione politico-editoriale pensata, costruita, abilmente gestita (solo qualche sbavatura, ma “quando si taglia l’albero qualche scheggia arriva”) che lascerà un segno nella Rai del dopo-elezioni.
Il soviet degli autori di Sanremo 2013.
1.     Cominciamo dagli ascolti. Sono stati certamente favoriti dal fatto che Raidue fosse spenta (i partiti che impongono le tribune elettorali in prima serata sono patetici come quelle ex fidanzate che pensano ancora di poter imporre qualcosa al loro ex, e i risultati d’ascolto sono stati da prefisso telefonico, solo amici e parenti). Ma se Raidue fosse stata accesa non avrebbe portato via più di due punti al risultato di audience del festival. Il dato davvero importante è che il Sanremo di Fabfazio e Giankaleone ha raccolto più attenzione sul pubblico giovane, centrale e delle grandi città. La Sipra dovrebbe far loro un monumento, perché nella crisi spaventosa degli investimenti pubblicitari la profilazione dell’ascolto è il vero valore aggiunto. 

2.     In scarsità di risorse (i soldi per fare il festival erano davvero pochi) i mattoncini usati da Fazio e dai suoi autori per costruire il festival 2013 sono stati quelli che provenivano dal loro mondo, il fazismo-lasettismo. Sostanzialmente il mondo di Raitre, quel mondo che va da madre Teresa a Bollani. Raitre portata su Raiuno. Un’operazione che ha funzionato perché corrisponde a smottamenti reali nel pubblico. Non tanto o soltanto elettorali ma culturali e valoriali. Il middlebrow di Fazio (il coro dell’opera mixato con il recupero “da sinistra” di Al Bano, Cutugno ecc. ecc.) può far sorridere i commentatori più snob ma, alla fine della fiera, è un’operazione culturale, di quelle che tanti anni fa si sarebbero definite “egemoniche”.
Sanremo 2013: il coro canta dell'Arena di Verona canta Va Pensiero.
3.     Il linguaggio visivo del Festival è la dimostrazione plastica di quell’operazione. Duccio Forzano è un regista molto attento alle tendenze internazionali, uno che si intriga anche di tecnica, di linguaggi, di illuminazione, di grafica, di qualità dell’emissione. L’immagine del festival potrà essere anche middlebrow ma probabilmente grazie a quel set milioni di persone hanno scoperto chi erano Burri o Lucio Fontana, e grazie a quell’immagine qualche produttore televisivo in meno reciterà la celebre giaculatoria “ci vuole più luce, è tutto troppo scuro” tipica dell’ignoranza nostrana verso le tendenze internazionali del broadcasting tv.
4.     Ovviamente questa operazione è una formula chimica molto instabile: basta che uno dei componenti sia inserito in dosi sbagliate o non abbia la composizione prevista che tutto precipita. E’ accaduto con l’incipit di Crozza nella prima serata (ma non poteva prendere un microfono e scendere dal palco?) e con l’antico monologo da circolo Arci di Bisio nella serata finale (eppure Bisio è un grande improvvisatore, ma la prima volta è come entrare a dire messa grande in Duomo, evidentemente). Comunque, nella somma generale delle serate questi momenti di impazzimento della formula sono comodamente rientrati, anche grazie alla rabdomantica capacità di tenere il palco dimostrata da Luciana Littizzetto.
5.     Se questa è una possibile prefigurazione della Rai del futuro, fossi in quelli del Giornale e di Libero non mi scalderei troppo. A crisi finita (e prima o poi, almeno un po’ la situazione migliorerà) una Rai middlebrow, intelligente e un po’ educativa consegnerà praterie intere di telespettatori a chi saprà fornire un’alternativa politicamente ed eroticamente scorretta. 

venerdì 15 febbraio 2013

Pubblicità: è dura ragazzi, ecco i dati Nielsen



Sono usciti gli ultimi dati della Nielsen (gennaio/dicembre 2012). E’ dura, ragazzi. “Il mercato della pubblicità chiude il suo peggiore anno degli ultimi 20 con una performance negativa del -14,3%, scendendo per la prima volta dal 2003 [...] sotto la soglia degli 8 miliardi di Euro a prezzi correnti”. In termini reali, secondo Nielsen, si torna praticamente ai livelli di oltre vent’anni fa, al 1991. Crollano tutti i mezzi: giornali, tv, affissioni. E il web? Il web sale del 5% ma, ragazzi, sono spiccioli. Con i soldi guadagnati in più dal web in pubblicità ci pagate al massimo tre fiction di Raiuno.
Tutti hanno tagliato: automobili (e te pareva), food, telefonici, abbigliamento. E’ salito solo il turismo grazie ai voli low cost e alla guerra ferrovie/Alitalia per la tratta d’oro Roma-Milano.
Il numero degli inserzionisti non è calato di molto (almeno quello), ma ciò che è calato sono i budget delle multinazionali del largo consumo, che hanno liberato molti soldi a favore dei Brics, dove gli investimenti sono, evidentemente, molto più remunerativi.


L'universo di riferimento è quello dei mezzi rilevati da Nielsen ad eccezione dei Quotidiani dove vengono utilizzati i dati FCP-ASSOQUOTIDIANI solo per le tipologie: Locale, Rubricata e Di Servizio e delle Radio dove vengono utilizzati i dati FCP-ASSORADIO solo per la tipologia Extra Tabellare. Le elaborazioni sono effettuate con il contributo di FCP - ASSOQUOTIDIANI e FCP - ASSOPERIODICI.
1 Per i dati di Stampa Commerciale Locale, Rubricata e Di Servizio la fonte è FCP-ASSOQUOTIDIANI 2 lI dato comprende le emittenti Generaliste, Digitali e Satellitari 3 Le elaborazioni sono effettuate con il contributo di FCP -ASSORADIO 4 CINEMA: Universo di riferimento non omogeneo
2012 The Nielsen Company All rights reserved.



E quindi? E quindi si taglierà. Ma non sarà sufficiente. Taglia, taglia, alla fine tagli anche il ramo su cui sei seduto. Bisogna anche riposizionare. Bene ha fatto Raiuno a fare un Festival un po’ più giovane di target (e smettetela di contare i milioni di teste, i milioni di teste ormai contano poco e niente, conta il profilo). Bene fa il gruppo Discovery con i suoi Realtime e DMax, che hanno aperto mercati nuovi. Ma sono gocce nel mare. I dati gennaio su gennaio (2013 su 2012, che già era un pianto) di Sipra e Publitalia segnano un pesante meno.
Si devono dare tutti una svegliata, Mediaset per prima. Se puntano tutto sulle fortune politiche del Fondatore avranno una grossa delusione (e mi sa che lo sanno benissimo, ma fra il dire e il fare...). Anche la 7, di cui lunedì sapremo (forse) i destini, deve decidere cosa fare da grande (quando le elezioni saranno finite e gli ascoltoni con i leader politici, le uniche star gratuite sul mercato, finiranno).
E’ peggio che in guerra. Ma vinceranno le idee nuove, non i tagliatori di professione. 

mercoledì 13 febbraio 2013

Sanremo e le insidie del politically correct


Crozza, applausi e fischi all'Ariston.


Ieri si è dimesso il Papa, oggi è stato sconsacrato Sanremo. La contestazione a Crozza (per quanto fatta da un gruppo sparuto di militanti) è il segno di quanto sia difficile, anche se probabilmente inevitabile, l’operazione tentata da Fazio & C. sul Festival.
Crozza ha commesso un errore tattico (iniziare con l’imitazione di Berlusconi, forse per un problema di trucchi speciali, o forse perché la gag del chansonnier era la più contestualizzata alla situazione festivaliera); e le recenti esperienze a RaiTre e alla 7 gli avevano fatto scordare cosa significhi lavorare in un clima ostile. Crozza, che aveva un repertorio più adatto al pubblico di Ballarò che a quello di Sanremo, ha subìto, anche se è andato avanti. Domani qualcuno si lamenterà pesantemente, magari pregustando vantaggi elettorali della serie chiagni e fotti.
Certo a questo Sanremo non manca la notiziabilità. E non mancheranno neppure, nonostante le prevedibili polemiche, gli ascolti.
[UPDATE delle 10.00: La prima serata del festival ha fatto il 48% di share, previsioni confermate].
La realtà è che Fazio e i suoi hanno tentato di rinnovare con prudenza, misurandosi con i pochi soldi a disposizione per gli ospiti, rinfrescando abbastanza coraggiosamente il decor (l’immagine del festival 2013 è una delle più innovative viste finora). E soprattutto, lavorando con i mattoncini che sono loro più congeniali (mattoncini sempre politically correct, forse un po’ troppo). Probabilmente una nuotata meno rigorosa e più libera nel mare aperto del pubblico generalista avrebbe loro giovato. L’equilibrio lo troveranno per strada (la Littizzetto il suo l’ha già trovato dall’inizio, ma lei è la vera furbona del festival).
Effetto politico? Agenda abbastanza di centro-sinistra, con probabile contraccolpo di vittimismo di centro-destra. Risultato: palla al centro, aspettando Al Bano e i Ricchi e Poveri. E guardando Grillo (ma quello è nelle piazze).

martedì 12 febbraio 2013

Sanremo e l'Italia smarrita


Sanremo 2013, il palco.

Ripropongo qui il mio post pubblicato ieri sull'Huffington Post.

Il festival di Sanremo, che già tutti pronosticavamo al centro del circuito politico-mediatico della settimana pre-elettorale, è stato pesantemente spiazzato dalla storica breaking news delle dimissioni del Papa. Bastava vedere la conferenza stampa d’inizio festival (e per vederla si doveva andare su internet, in quel momento tutti i canali facevano le straordinarie su ben altra conferenza stampa, quella di Padre Lombardi) per capire che la balena è stata spiazzata. Ma sarà anche spiaggiata? Già sui social network si addensano fosche previsioni (“dei cantanti e dei comici del festival non interessa più a nessuno, tutti vogliono sapere di Benedetto XVI”). Sarà  davvero così?
Luciana Littizzetto.

La mia personale previsione è che no, non sarà così. Non sarà così dal lato degli ascolti (che andranno benissimo). Sarà così per l’eco mediatica, per gli ascolti che “non si contano ma si pesano”? Forse domani il clima non sarà il solito tra i giornalisti in sala stampa. Ma minuto dopo minuto l’unico punto fermo della nostra società dell’incertezza, il Festival di Sanremo, si ergerà comunque come un corale e salvifico punto d’incontro dell’Italia smarrita. E tutti cominceremo a twittare. Se il giornale del mattino era per Hegel la preghiera laica dei borghesi, le serate del festival saranno, più modestamente, la nostra laica messa cantata, e insieme il punto di compensazione delle nostre ansie e delle nostre incazzature. Esagero, eh? No, non esagero. E Fabio Fazio lo sa benissimo. Il duo Fazio-Leone è una staffetta di cavalli di razza da prima Repubblica. Giocano di sponda, ma non gli sfugge mai il pallino.
Dicono che quest’anno la scenografia di Sanremo abbia gli strappi sulle tele, come i tagli di Lucio Fontana. Nell’anno in cui tutte le certezze crollano, nella crisi che “non dà visibilità” sul futuro, è stata probabilmente una decisione profetica. 

sabato 9 febbraio 2013

Ovvietà su Sanremo, è partita la giostra

Luciana Littizzetto e Fabio Fazio.

Preparatevi, perché saremo sommersi dalle ovvietà. Nella settimana di Sanremo (che è anche la penultima della campagna elettorale) poiché scrivere un'articolessa è sempre meglio che lavorare, leggeremo:
1. che Fazio ha costruito un festival buonista, politically correct e furbetto;
2. che Littizzetto e Fazio guadagnano troppo;
3. che il "corto circuito mediatico" e bla bla bla ha fatto diventare Sanremo la Terza Camera mentre le tribune elettorali rimangono deserte;
I Modà.
4. che la spettacolarizzazione della politica porta alla politicizzazione dello spettacolo;
5. che la tv generalista ecc. ecc. gli italiani, l'effimero, la memoria ecc. 
6. Che tutto sommato Al Bano, Cutugno e i Ricchi e i poveri sono nazional-popolari e ci ricordano un'Italia più felice;
6. e qualcuno oserà perfino chiudere il proprio pezzo con un tombale "sono solo canzonette".
Perdonateli. (Anzi, condonateli). Scriveranno ovvietà perché in questo modo tremila battute vengon via facile, e ci si può riaccomodare sul sofà a seguire Sanremo (tuittando, naturalmente).

mercoledì 6 febbraio 2013

Meno sondaggi e più confronti

[UPDATE: L'Agcom ci ha ripensato ed ha proibito la diffusione dei sondaggi, anche attraverso l'App per smartphone e tablet, dal 9 gennaio. E adesso chi indennizza Weber (e quelli come me che hanno pagato)?] 
Ho scaricato, a pagamento, un'App per i miei iPad e iPhone che si chiama PoliticApp ed è realizzata dall'Swg. Tutte le mattine alle 7 mi sveglia dandomi l'ultimo sondaggio. Dicono che continueranno a farlo anche nel periodo dell'embargo, grazie ad una falla nella regolamentazione dell'Authority (per cui i servizi su App e la loro eventuale diffusione tra i propri "amici" di facebook non vengono considerati messaggi broadcast, non sono pubblici).
L'Applicazione di SWG sull'iPhone.
Tralasciando ogni valutazione sulla pessima idea di farsi svegliare ogni mattina dal bip del nuovo sondaggio dell'ottimo Weber (ci saranno metodi migliori per iniziare la giornata) il punto è che ormai i sondaggi non sono sondaggi ma metasondaggi: il sondaggio è parte di una catena comunicativa, è assieme effetto e concausa dei possibili ondeggiamenti nelle intenzioni di voto e soprattutto interviene pesantemente nell'agenda mediatica della "notiziabilità". 
L'utilità di tutto questo ambaradan è tutta da dimostrare. Tanto gli italiani sono notoriamente, oltre che smemorati, ansiosi e permeabili all'effetto bandwagon, dei simpatici bugiardi per quanto riguarda le loro intenzioni nel segreto dell'urna. I più vecchi ricorderanno che ai tempi della prima repubblica non trovavi mai nessuno che votasse democristiano (e poi la Dc vinceva regolarmente le elezioni). 
Il vero punto è un altro: siccome i sondaggi sono fotografie e non segnano tendenze di lungo periodo il vero problema non è il risultato singolo ma la centralità mediatica di quello che fai. Che non può essere confusa con "l'errore di inseguire l'avversario sul suo terreno". 
In altre parole: consiglierei a chi si sente ancora vincente ma un po' appannato rispetto alla centralità mediatica di rovesciare il tavolo: sulla gara a chi le spara più grosse non c'è partita. E nessuno sa ballare il tip-tap meglio di un Fred Astaire (sia pure sovrappeso). Sul terreno del confronto diretto, invece (a tre, a quattro, a cinque, a sei) il principio di realtà vince sulle sirene populiste, di qualunque genere. Sarebbe bene richiederlo a gran voce, questo confronto. Puoi essere incumbent nei sondaggi e - allo stesso tempo- non essere più centrale nell'agenda mediatica. A lungo andare non è una buona cosa, perché i sondaggi sono una foto, ma la vita è un film. 

lunedì 4 febbraio 2013

Dopo Ralph: la Disney piacerebbe a Walt Disney?



I cattivi dei videogiochi, riuniti come gli alcolisti anonimi (Ralph Spaccatutto, ©Disney)
Ho portato mio figlio Mattia (5 anni e mezzo) a vedere Ralph Spaccatutto, il nuovo cartone della Disney [in una multisala di un centro commerciale, Uci Cinemas di Roma. Il film è iniziato dopo 40 minuti di trailer vari e orrida pubblicità locale, e dovrebbero anche vergognarsi].  Ma comunque.
Ralph mi dà la possibilità di parlare di cos’è oggi la Walt Disney. Una corporation di successo (42 miliardi di dollari di fatturato nel 2012, e in borsa va benissimo). Una corporation che probabilmente annoierebbe il suo fondatore. Il caso è molto interessante, perché la Disney è il contrario di Apple
Disney ha nel brand il suo tesoro, come Apple. Ma Disney ha esternalizzato quasi tutta la creatività: i film di animazione migliori li crea e realizza Pixar (con tutto l’enorme indotto di merchandising e attività ancillari); Disney ha appena comperato la Lucasfilm con tutta la sua legacy di Star Wars; ha acquisito Marvel, con tutte le franchise di supereroi possibili e immaginabili; possiede la ABC, che è quella che sforna Grey’s Anatomy, Once Upon a Time ecc., gestisce l’ESPN, con tutto l’immaginario sportivo americano; fa opinione nell’elettorato delle famiglie americane grazie a Good Morning America, al top del daytime Usa; ecc.
Bowser, il cattivo di Supermario Bros.
Con tutto questo, i film di animazione Disney al 100% sono generalmente scontati e banali (a meno che dietro non ci sia una personalità autonoma, in grado di imporre le proprie scelte creative, com’è stato per Tim Burton con Frankenweenie. Lui sa come tenerli a bada anche perché tanti anni fa fu coinvolto, da dipendente, nel più brutto film d’animazione uscito dalla factory, Taron e la pentola magica). Anche Ralph, nonostante il successo al box office, è il classico film costruito a tavolino per i bambini che amano i videogames (c’è perfino il Bowser, il cattivo di Supermario che manda in visibilio chiunque giochi con il Nintendo). Poca ironia, quasi assente la seconda lettura, non c’è un protagonista realmente forte, la storia è sconnessa e banale. Però funziona, come un detersivo. Da usare e dimenticare. L’opposto dei film della Pixar, insomma.
Quando Walt Disney era vivo, come ha raccontato una volta Chuck Jones “la sua società non distribuì mai uno straccio di dividendo”. Perché Disney era impegnato a costruire un mondo e la sua pignoleria lo portava a fare e disfare, facendo saltare tutti i conti e mandando nella disperazione il fratello Roy, che era quello dei soldi.
Tom Hanks interpreterà Walt Disney in Saving Mr Banks, in uscita a giugno.
E' grazie a quella follia creativa che ancor oggi il brand Disney è quello che: ciò che gli ha dato la forza economica per assorbire factory creative ormai molto più creative della casa madre. Bravo Iger ad aver gestito questa fase. Ma la Disney sembra sempre più un potente conglomerato di creatività esterne, un ministero dell’immaginario americano. Il brand non promette, rassicura. Forse è inevitabile. Come dice mio figlio quando vede l’identity Disney col castello della Bella addormentata: “Papà, ma la Disney è un pezzo della Pixar?”.