sabato 30 giugno 2012

Autori tv, schiuma dei mari

Savona (Hipstamatic dal mio albergo).
Mi hanno invitato a Ideona, il convegno degli autori tv organizzato a Savona con efficienza militare dal gruppo di Fazio. E magari ne parlerò in un altro post (c’erano Santoro, Teocoli, oggi arriva Freccero con uno speech dal titolo abbastanza impegnativo, “Le sette regole d’oro per un programma di successo”, in pratica un how-to stile For Dummies. Ovviamente sono curioso).
Comunque: ieri Linda Brunetta, che dirige l’Aiart, un sindacato di autori televisivi piuttosto combattivo, ha raccontato una storia che probabilmente dovrei conoscere ma di cui ero totalmente ignaro. La Siae (che in teoria è la società che rappresenta gli autori e gli editori) da molti anni aveva istituito un “fondo di solidarietà”, in pratica una specie di mini-pensione per i soci anziani.
La locandina di Ideona.
Un fondo che era alimentato unicamente dalle trattenute fatte dalla Siae stessa agli iscritti (il 4% dei diritti d’autore). Il gruzzolo era di 87 milioni di euro.
Ad alcuni autori (anziani, magari disabili, talvolta in vera e propria povertà, perché com’è noto il lavoro di autore non è come lo studio di un notaio e neanche come una licenza di taxi, quando non lavori fai la fame) arrivavano circa 600 euro al mese. Arrivavano. Perché poi la Siae è stata commissariata ed è stato deciso che questi soldi non verranno più erogati. La motivazione: la nuova legge non lo consente, “per non contravvenire alle leggi normative delle Casse Previdenziali”. Ma gli autori mica beccavano la pensione. E adesso, questi soldi, chi se li prenderà? E soprattutto, da che parte sta la Siae? Mica sono soldi dello Stato: sono soldi degli autori.
La vicenda mi rammenta il discorso che abbiamo fatto anche su questo blog qualche settimana fa: il problema dei professionisti della televisione è che – in un Paese di lobby, corporazioni, consorterie e camarille – non sono un lobby, non contano un beato cazzo. Criticati come gli allenatori di serie A, ma tranne pochi casi, mal tutelati e maltrattati. Con l’idea che, in fondo, chiunque può creare un programma televisivo, o perfino dirigere una televisione. Con questa logica, mi vedrei bene alla Banca d’Italia.

lunedì 25 giugno 2012

Gli Europei e la tradizione Rai



Con Italia-Inghilterra Raiuno ha superato l’80% di share. Nel frattempo, ho letto vari articoli, post e messaggi critici nei confronti del modo in cui Rai Sport sta gestendo gli Europei. Non sono un esperto di calcio, seguo la Nazionale e poco altro, quindi non sono in grado di giudicare la qualità delle telecronache o dei commenti. (Peraltro, immagino che anche i giornalisti sportivi debbano confrontarsi con un sacco di problemi legati alla situazione generale della Rai e ai suoi tagli di budget).
Però vedendo ad esempio Italia-Inghilterra con annessi e connessi (pre-partita ecc.) qualche idea me la sono fatta.
Proviamo a partire da lontano. Ho un vaghissimo ricordo infantile. Nei lontani anni sessanta del secolo scorso, Indro Montanelli pubblicò un articolo polemico contro il modo ingessato e governativo in cui la Rai trattava l'informazione politica (Montanelli scriveva sul Corriere, che in quando a ingessatura filo-governativa non aveva uguali, a quei tempi). Sul finire del pezzo però Montanelli citò un esempio au contraire: il Processo alla tappa che Sergio Zavoli conduceva durante il Giro d'Italia. Se la Rai trattasse la politica come tratta lo sport, concludeva più o meno Montanelli, l'informazione sarebbe molto migliore.
Sergio Zavoli nel Processo alla tappa (1969)
Al di là delle singole eccellenze (Zavoli ovviamente era una di queste) nel commento di Montanelli c'era molto di vero. E non solo perché Zavoli riusciva a fare di ogni tappa una tragedia greca, o perché si portava in macchina un pesantissimo registratore Ampex portatile. E' chiaro che per la Rai di Ettore Bernabei era molto più facile essere swingin' sullo sport che sulla politica, che era (è) la padrona della tv di Stato. Ma c'era qualcosa di più.
A quei tempi, la redazione sportiva della Rai rappresentava la tradizione "tecnicamente" più avanzata dell'emittente di Stato. Il suo ceppo arrivava direttamente dall'Eiar del periodo fascista, di cui, per vari e in parte ovvii motivi, era la punta giornalistica, editoriale e produttiva. Vittorio Veltroni e Nicolò Carosio venivano dall'Eiar; Mario Ferretti, personaggio incredibile che meriterebbe almeno una fiction all'italiana, era stato un radiocronista di punta dell'Eiar, poi durante la guerra se n'era andato con i repubblichini e in seguito era stato, con fatica, recuperato da Veltroni. Zavoli (che all'epoca della radio fascista era un bambino) fu preso a benvolere e negli anni ’50 cooptato da Veltroni che ne aveva intuito le doti.
Paola Ferrari.
La "redazione radiocronache" dell'Eiar (poi travasata nella Rai del dopoguerra) si occupava dello sport e anche della politica (perfino - brrr- della visita di Hitler in Italia), utilizzava le tecnologie migliori disponibili al tempo (registrazioni su disco, e infine su nastro magnetico) e aveva studiato la lezione del documentario radiofonico tedesco di Walter Ruttmann. Ci aveva aggiunto un po' di prosa pascoliana e dannunziana, che piaceva tanto alla subcultura fascista, e che era diventata tratto distintivo dei dirimpettai dell'Istituto Luce. Stentorea e virilista quando si occupava di politica, quando raccontava lo sport sapeva virare sul lirismo liceale che tanto piaceva agli italiani (il famoso incipit di Mario Ferretti nella sua radiocronaca dell'exploit ciclistico di Coppi nel Giro del ‘49, "un uomo solo al comando: la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi". Colpi da maestro che oggi farebbero felice qualunque copywriter). Da quel ceppo era nato anche il varietà radiofonico (i Quattro moschettieri di Nizza e Morbelli) che poi sarebbe diventato lo stampino per il futuro varietà televisivo all'italiana. Insomma, comunque te la giri, era gente con le palle.
Vittorio Veltroni, Lidia Pasqualini e Nicolo Carosio (1939).
Di quella tradizione (che a suo modo era una tradizione di modernità, sia all'Eiar che nella Rai proto-televisiva del dopoguerra), cos'è rimasto? A occhio e croce, soprattutto un saldo insediamento della destra nei posti chiave e nelle redazioni. E poi un po' di prosopopea retorica (bastava vedere ieri sera la scheda sulla Nazionale del passato, tra l'altro tutta montata con figurine scaricate da internet). Si è perso un po' il resto. Basta vedere lo studio dei pre-partita, affidato a Paola Ferrari, con una scenografia (immagino anche per problemi di costi) fatta con quattro legnetti come quella di una dignitosa tv locale. Poco uso della tecnologia, poca grafica, impianto molto tradizionale, linguaggio televisivo antico. Nel frattempo però, gli italiani fanno ogni giorno un confronto con Sky e il suo stile di copertura dello sport. Che non è particolarmente originale: soltanto, è del ventunesimo secolo. Basta guardare qualunque tv straniera per accorgersene. La Rai di oggi non lo saprebbe fare? Probabilmente, anzi sicuramente sì (basta vedere l'altissima qualità dell'HD Rai) ma è un discorso di mezzi e di cultura televisiva. Di manico, insomma.

sabato 23 giugno 2012

La storia illuminante della Cinq



Il Post pubblica un capitolo del nuovo libro di Anaïs Ginori, Falsi amici. E' la storia della Cinq, il tentativo (fallito) di esportare la tv commerciale di Berlusconi in terra francese.
E' un racconto molto divertente e, per quanto possa ricordare, fedele. E' curioso che nessuno storico italiano dei media (storico italiano dei media? Su piazza?) abbia mai approfondito una storia come questa, che ha tutte le caratteristiche per essere definita paradigmatica. Perché dimostra tre cose: l'assoluta specificità della vicenda italiana della tv; il coraggio (perché, diciamocelo, di coraggio ne ha da vendere) ma anche i limiti strutturali di Berlusconi; e, last but not least, la complessità del personaggio Carlo Freccero.
Non basta certo un post su un blog per raccontare quella vicenda (il Post, invece, ha trascritto l'intero capitolo in 11 pagine web, non so se mi spiego). Rimandando a qualche scritto più pensato, mi limiterò ad aggiungere tre aneddoti, quelli che funzionano nelle interviste tv (quando in sala di montaggio tagli tutti i concetti e rimangono storielle e calambour).
Il primo riguarda Silvio Berlusconi. Berlusconi non si faceva vedere mai negli studi, ma per il lancio della Cinq fece un'eccezione. Arrivò una mattina in elicottero, e decise a sorpresa di piazzarsi a Cologno Monzese  occupando per vari giorni un grande ufficio di fronte allo studio 7. (Sì, perché il programma fu realizzato a Cologno, non a Parigi). Ne fecero le spese gli addetti alla portineria, perché la prima cosa che accadde il primo giorno furono le urla belluine di Berlusconi che entrando aveva sentito "puzza di sudore" e visto gente scravattata. Il giorno dopo la portineria all'ingresso degli studi era stata trasformata: tutti profumati e pettinati, la ragazza della reception esibiva una chioma perfettamente cotonata, alla moda del tempo. E una quantità industriale di ficus e vasi di fiori riempivano l'ingresso, quasi nascondendo i vigilantes alla vista di chi entrava. Berlusconi si aggirava tutto il giorno preoccupato tormentando il regista, Davide Rampello ("il nostro Fellini, anzi, Fellinì"). Faceva e disfaceva scalette e presentazioni, luci e costumi. Si avvicinava di soppiatto ai presentatori francesi e con un colpetto deciso faceva spuntare i polsini delle camicie dalle maniche delle loro giacche. Montare lo spettacolo era quasi impossibile, tanto che il povero Rampello dovette far partire un nastro Ampex con il programma, destinazione Parigi, due ore prima della messa in onda, mentre l'aereo di Berlusconi rullava da un giorno intero sulla pista.
L'idea di Berlusconi era semplice: prendere i programmi di maggiore successo di Canale 5 e rifarli in francese, per il grande pubblico popolare che riteneva annoiato dalla tv elitaria proposta tutti i giorni dall'emittente di Stato. Un'idea semplice. Così semplice che non poteva funzionare (almeno in Francia). Tra l'altro, non aveva fatto i conti con la fantasia italica. Collaboratori che si spacciavano di madre lingua francese scrissero i titoli di coda di Voila la Cinq!, inanellando una meravigliosa serie di "falsi amici" (ogni paese ha la sua terminologia per le professioni della tv, tradurre letteralmente quelli italiani in francese ebbe il disastroso effetto di destare l'ilarità d'oltralpe).
E Freccero? Freccero si mise con pazienza a correggere la linea editoriale di Berlusconi, tentando di costruirne una più adatta a un Paese molto diverso dall'Italia, un paese in cui il popolo ascolta le élites e viceversa. Insomma, un Paese che ha fatto la Rivoluzione e che ai tempi guardava anche Apostrophes. Ma era un'impresa pressoché impossibile. (Tra l'altro la provincia francese non riceveva, per molta parte, il segnale della Cinq, e il giudizio dei parigini divenne anche l' invalicabile clearance per l'operazione di Berlusconi). Anche se fu la politica a farle tirare giù la saracinesca, in Francia la Cinq non era mai passata fino in fondo. Comunque la Cinq diede una scossa alla tv francese e la rinnovò. Sembrerà un paradosso, ma senza la Cinq non sarebbe nata la 6 e neanche Arte. Ma l'effetto fu anche inverso: i tecnici della Fininvest, mandati in Francia come dei colonizzatori, scoprirono che la scelta dei francesi di non illuminare a giorno uno studio televisivo non era un errore, ma una scelta estetica.

giovedì 21 giugno 2012

Virus, CIA e privacy: come nei film


Il codice di Flame (Kaspersky Lab).

Quando leggo su Internet frasi in cui ci siano le parole CIA-malware-spionaggio l'effetto immediato è di fastidio, e vien voglia di rubricarle nell'interminabile tormentone complottista che ha tanto successo sulla Rete. Ma secondo il Washington Post di ieri (segnalato da Ars Technica)  è ormai certo che l'ultimo e più terribile virus per computer, il potente worm Flame, sia stato creato da CIA ed NSA americane e da Israele per danneggiare il programma nucleare iraniano.
Se il Washington Post non fosse sufficientemente credibile, anche Kaspersky (quello dell'antivirus omonimo, uno dei migliori su piazza) ieri ha twittato rilanciando questa storia e confermando di aver trovato in Flame alcune righe di codice uguali a quelle presenti su Stuxnet, un virus di 3 anni fa che sfruttava una falla di Windows (non documentata, naturalmente). Per realizzare Flame, un software molto complesso, sono state certamente usate intelligenze e macchine molto sofisticate. Lo scopo, da quanto ho capito, era quello di far impazzire i processori che controllavano la velocità delle centrifughe d'uranio, in modo da farle andare troppo veloci o troppo lente, segnalando però all'hardware che tutto era regolare. Come in un vecchio film di 007.
Uno dice: vabbé, sono le forme moderne di guerra. Poi però leggi che Flame, quando infetta il sistema operativo, oltre ad acquattarsi se un antivirus è in azione, riesce a manipolare il microfono, la webcam, le funzioni Bluetooth del computer vittima. E se il computer è staccato da internet, riesce a sfruttare le connessioni USB.
I tweet di ieri di Kaspersky.

Non per alimentare la paranoia già molto diffusa, però davvero la nostra privacy ormai è inesistente. Anche un cretino può manomettere un cellulare e controllarlo a distanza, figuriamoci un tablet, i cittadini (ma anche le aziende italiane) hanno sistemi di difesa e di protezione dei dati solitamente molto scadenti, anche perché l'ignoranza regna sovrana tra chi deve decidere gli investimenti in sicurezza. Basta vedere il livello basso di sicurezza dell'online di alcune banche italiane, che fino a poco tempo fa non tenevano nemmeno in conto il pericolo più diffuso, e cioé i virus che leggono e memorizzano le sequenze di tasti che digitiamo sulla tastiera.
Insomma: il problema non è il governo iraniano, che non riscuote le nostre simpatie. Il problema è che da sempre le tecnologie informatiche nascono nell'ambito militare e poi si applicano al civile. E quando Kaspersky ci ricorda che Flame è solo la punta dell'iceberg, parla a tutti noi.
[Comunque qui trovate il link al supporto di Microsoft che dà alcuni consigli sugli attacchi di malware originati da Flame].

martedì 19 giugno 2012

Tra lobby e società civile


"Se so' sbajati, volevano candidare il tenente Colombo, ché lui sì
che di tv ha un certo curriculum" (Guia Soncini su twitter).

Ho sempre pensato, in compagnia di un’ampia serie di fresconi in voga alla fine degli anni novanta, che sarebbe stato giusto far diventare questo Paese una nazione con meno corporazioni, meno lobby, meno rendite, meno conventicole, meno auto in doppia fila, meno evasori fiscali e più aperto al merito, alle idee nuove e quindi anche ai giovani. Che manica di fresconi eravamo! L'Italia non è il mercato giusto per questo genere di idee. 
Adesso so che era tutto sbagliato. E facendo ahimè il mestiere della televisione (lavoro che considero faticoso e usurante) ho capito che avremmo dovuto fare l’opposto. Cosa avremmo dovuto fare? Una bella corporazione. La lobby dei professionisti della radio e della televisione. Di destra, di sinistra, di centro, fighetti, snob e popolari, sciccosi e trash e sticazzi.   
Carlo Freccero.
Perché? Perché i giornalisti l’hanno fatta, e non leggerete mai la notizia che un banchiere sia stato mandato a dirigere un giornale. Così come non leggerete mai la notizia che un direttore di giornale sia stato mandato a dirigere una procura.  Mi basterebbe perfino avere una lobby light come quella del cinema. Avere una lobby non significa non cercare di farsi le scarpe tutti i giorni gli uni con gli altri, come dimostrano giornalisti e cinematografari, significa soltanto difendere la categoria. Ogni volta che leggo l’ennesimo articolo su Antonio Ricci inventore delle veline e perciò antemarcia del rimbecillimento italico (lo hanno scritto tante volte che il pover’uomo ormai sforna comunicati quotidiani contro "la macchina del fango", come quel vecchio ammiraglio che in Mary Poppins cannoneggiava Londra, a salve, dal suo terrazzino) penso ai meravigliosi cicli retrospettivi sullo “stracult” organizzati in pompa magna alla Mostra di Venezia, ma quello era cccinema. Giovannona coscialunga non perderà mai veramente l’onore, perché era a 35mm.
E cosa avresti voluto fare, l’ennesima corporazione che ingessa l’Italia? Mi sarebbe tanto piaciuto, in momenti come questi vorrei poterlo sognare. Almeno avremmo avuto un bell’esame di ammissione. E magari i ragazzi che lavorano in tv avrebbero avuto il dentista coperto dalla mutua.

Finale alternativo (serio)
Se davvero cambiassero le regole della governance (se cioé il Direttore generale della Rai ottenesse le deleghe fino a 10 milioni di Euro, come qualunque AD che si rispetti) il ruolo del Consiglio d'Amministrazione cambierebbe. E i consiglieri ritornerebbero ad essere i "controllori" che sono previsti in una Spa. A quel punto la competenza specifica non è strettamente necessaria e una specchiata moralità può essere anche più importante. Il problema è che in questo caso nè controllori nè controllati sembrano avere una competenza specifica. Stiano attenti alle sirene di Viale Mazzini.

domenica 17 giugno 2012

Le nomine Rai e il resto della galassia



Dall'Astronave Madre 837492/KZK11.

- Comandante Qwertyuiop, stiamo ricevendo!
- Finalmente, nostromo Asdfghjkl! Cosa capti?
- Sono trasmissioni su onde a pacchetti, una cosa rudimentale che i terrestri chiamano Internet.
- E di che parlano? Guerre, carestie, interrogativi sulla vita e sulla morte dell'universo?
- No, comandante Qwertyuiop, parlano di nomine Rai.
- Sarebbe?
- E' un po' complicato, Signore. E' una specie di gioco di società.
- Ah, come quello, te lo ricordi? "Distruggi una galassia!". Bei tempi, abbiamo fatto un bel casino con quel Buco nero al largo di Andromeda.
- E' diverso, Signore, qui si tratta di stabilire gli amministratori di un'entità che distribuisce emozioni in modalità unidirezionale in una zona del pianeta.
- E di che zona si parla?
- L'Italia, Signore, se la ricorda?
- Ma certo l'Italia. Bel posto, ci avevamo mandato Yeshua, il Nazareno.
- No, Signore, quella era la Palestina, poi i suoi seguaci hanno preso dimora in Italia.
- Ah beh certo, è un bel posto, si mangia bene dicono. E allora, questa "Rai"? Come li scelgono?
- Le interessa davvero, Signore? Perché ci sarebbe il problema dell'Euro che-
- Ma che me ne frega, l'Eurò non è divertente, è come quando saltò la Banca Galattica, ti ricordi? Non partiva più un'astronave! Che tempi, ragazzi...
Da Jeff Hawke, di Sydney Jordan.
 - Bene... allora la "Rai", ecco... devono eleggere i rappresentanti...
- Ma loro hanno quel sistema, i partiti, no? Guelfi, Ghibellini, Socialisti...
- Ehm, da quant'è che non aggiorna i files sull'Italia Signore? Adesso i partiti non vanno più tanto...
- Ma non si aggiornano in automatico? Uffa questi antivirus. E quindi?
- Signore, i "partiti" sono mal visti, dicono che rubano...
- Ma non li votavano proprio perché rubavano qualcosa anche per loro?
- Si ma sono finiti i soldi
- D'accordo, facciamola breve sennò è più appassionante l'Eurò.
- Euro, Signore. Comunque, la sinistra non vuole votare i suoi per non essere accusata di "lottizzazione". Insomma di mettere i suoi amici per distribuire posti.
- Mi sembra di sentire il vecchio Obi-Wan Kenobi! Ma non si era trasferito sulla Terra? Si fa chiamare... Si fa chiamare...
- Scalfari, Signore. Eugenio Scalfari.
- Ma la barba l'ha tenuta, no? E allora cosa mi stavi raccontando?
- Beh insomma, si sono trovati in un vicolo cielo perché se eleggono i loro perdono la faccia e tra un po' si vota per l'assemblea nazionale e c'è un uomo di spettacolo che potrebbe vincere a loro spese...
- Questa la so... Berlusconi!
- No, Signore, Beppe Grillo!
- Uffa, vabbè e allora?
- Però se non votano nessuno la Rai rimane in mano ai loro avversari
- ...Grillo!
- No, Berlusconi, Signore.
Obi-Wan.
- Mmh, più complicato delle lune di Orione! E quindi come faranno?
- Faranno scegliere a delle associazioni.
- Cosa sono queste associazioni? Dei partitini satelliti?
- No Signore, il manuale dice, dunque... "esponenti della società civile"
- Cioé amici di Obi-Wan Kenobi! Che ti avevo detto?
- Si, Signore, e poi metteranno a dirigere la Rai...
- Degli ingegneri? Poeti? Musicisti?
- No, signore, dei banchieri.
- Ma non dovevamo mandargli noi qualcuno? Banchieri. Ma i banchieri non si stanno occupando dell'Eurò?
- Euro, Signore.
- Vabbè ho capito, Asdfghjkl. Io premo il bottone.
- Si torna a casa, Signore?
- No, si distrugge la Terra, nostromo. In fondo, non è il 2012, secondo il loro calendario?
- Ah, la profezia Maya, Signore!
- E chi ce li aveva mandati i Maya? Noi, non te lo ricordi? Dai, Asdfghjkl, facciamo un bel fuoco d'artificio! E salutami Obi-Wan.


venerdì 15 giugno 2012

Fate vedere Aniene agli alieni



Il vero crimine televisivo di questi ultimi anni non è quello di aver tolto Luttazzi dagli schermi della tv pubblica, ma quello di non aver costretto militarmente Corrado Guzzanti a tornarci.
Aniene 2 è il più bel programma comico degli ultimi dieci anni.E non solo perché è il più intelligente, acuto, illuminante, sorprendente e creativo (memorabile il monologhino bipolare su Monti) ma perché sta all’engagement scolastico di altri membri della stessa famiglia come la Sinfonia 40 di Mozart sta alla La grotta di Trofonio di Salieri.
Perché Aniene 2, a suo modo, è un programma classico. Guzzanti è stato capace, dopo il diluvio di programmi e programmini di stand-up, dopo la babele di talk travestiti da comedy, di recuperare l’originalità migliore della comicità televisiva italiana (l’elemento parodistico, la sfumatura agrodolce, l’uso televisivo e non teatrale del mezzo). E nella sua classicità è riuscito però (merito anche, a occhio e croce, di una regia e di una produzione efficaci) ad usare in modo caldo e non legnoso le possibilità del greenback e del compositing, sorretto da una grafica tra le migliori mai viste negli ultimi anni in tv.
Guzzanti e Max Paiella nel Rambo di Aniene.
Guzzanti (Corrado) non racconta le idee, racconta l’Italia. Parla poco (una volta ogni due anni se va bene) ma ascolta molto. Ecco una cosa che i comici e gli autori, che tutti noi dobbiamo re-imparare. Quel mestiere che gli sceneggiatori della migliore commedia italiana sapevano fare: ascoltare l’Italia. Non per perdonarla, non per essere compassionevoli, ma per fare il loro mestiere. La freschezza dei testi di Guzzanti non viene da una pensosa rilettura degli editoriali di Repubblica (o magari delle lenzuolate del Fatto). I testi di Guzzanti (e Purgatori) vengono da un ascolto profondo del nostro Paese. E il Rambo di Guzzanti è una lapide definitiva sulla satira della Seconda Repubblica. Ecco la qualità televisiva, cari alieni buoni.
E questo non è un post di un critico, è il post di un fan. “Che cos’è lo spread signore? Non lo so figliolo, nessuno lo sa”. 

giovedì 14 giugno 2012

mercoledì 13 giugno 2012

La tv stritolata



Poiché la crisi non promette nulla di buono, la pubblicità si volatilizza e non si vede ancora la fine del tunnel -e tutte le altre metafore che vi vengono in mente vanno bene- l’ordine del giorno dei broadcaster in Italia è tagliare tagliare tagliare. Sì ma come? Per ora si sta tagliando sulla carne viva.  Nell’ordine:
1. prima vengono i budget dei canali digitali, che fino a un anno fa erano dipinti come il Sacro Graal della tv generalista, la soluzione di tutti i mali (e soprattutto l’arma segreta contro Sky) e adesso stanno diventando rapidamente, secondo gli stessi che li hanno voluti, un ingombrante carrozzone. Raccolgono ascolto ma non raccolgono pubblicità in proporzione. (A proposito, in che modo li vendete? Ma questo è un altro discorso).
2. Poi vengono le seconde serate: perché spendere soldi per una seconda serata quando si può allungare la prima? Ed ecco zac un altro bel taglione.
3. Al termine, si arriva ai “production values” delle prime serate. Per production values gli americani intendono il valore che viene speso nella produzione: qualità della fotografia e delle riprese, scenografie, location, grafica, musica, logistica ecc.
4. Al quarto punto ci sono i “compensi delle star” (che poi di solito si traducono in tagli soprattutto sui compensi medi e bassi “a scrittura”, cioé a tutti quelli che pur non essendo delle star vengono pagati con contratti artistici).
Il Trio Medusa in Coast 2 Coast.
Sul quarto punto naturalmente ci sarà una ola generale (è inutile dire che in quel modo, ad esempio, un giovane autore, anche bravo, guadagnerà meno di un segretario di produzione, perché non ha un vero salario, neppure a tempo determinato). Ma quando c’è la crisi è come sventolare il drappo rosso, milioni di italiani sono convinti che tagliando gli stipendi ai parlamentari si fa ripartire l’economia quindi figuriamoci. Di anime belle è pieno il mondo.
Sugli altri tre invece un ragionamento andrebbe fatto.  Andiamo per ordine:
a) I canali digitali “semigeneralisti” o tematici sono davvero molti. Forse andrebbero razionalizzati: ma hanno costituito un avamposto della tv generalista su terreni e verso pubblici che erano andati persi o si stavano perdendo. Non sono stati mai veramente promossi per paura che portassero via ascolti alle generaliste per cui alla fine non si è capito se ci fosse veramente una strategia editoriale e industriale dietro o meno. L’unica cosa che si è capita è che la Rai gestione Masi ha rinunciato a un contratto di 50 milioni di euro l’anno (50-milioni-di-euro-l’anno) con Sky per non dare una mano all’odiato Murdoch, con il risultato che oggi Mediaset Plus e Tgcom24 stanno anche sul bouquet Sky e Rai4 e Rai5 no. Bel colpo.
b) Non a caso l’unico vero investimento fatto quest’anno da un broadcaster italiano sul dtt, TgCom24, sta già dando i suoi frutti, regalando a Mediaset, oltre che alcune soddisfazioni d’ascolto, nuovi conduttori e know-how che stanno rafforzando testate storiche e programmi di rete. (Mentre Rai News viene tenuta a poca biada).
Lo studio di TgCom24 (Mediaset).
 c) Le seconde serate sono state storicamente strategiche (assieme, ultimamente, proprio ai canali digitali) come zona di R&D (ricerca e sviluppo, tanto per capirci) di nuovi programmi e nuovi talent. Tutti i programmi che oggi sono degli asset su Rai e Mediaset hanno cominciato in seconda serata (perfino Santoro e Report, senza andare ai programmi come Zelig, Iene  ecc.). D’altronde, chi sarebbe così pazzo oggi da rischiare su idee e facce completamente nuove nella prima serata di Rai Uno o di Canale 5? Quindi niente seconde serate =niente rinnovamento, il che vuol dire rimestare sempre le stesse quattro idee o affidarsi a format che “sono andati benissimo in Spagna”. Con il rischio di mettere su dei carrozzoni che verranno chiusi alla seconda o terza puntata.
d) I production values sono in continuo peggioramento sul daytime (già dal punto di vista dello standard tecnico, escludendo alcune eccellenze, che pure ci sono). Il prodotto medio dei principali broadcaster italiani è tecnicamente arretrato, per mancanza di investimenti, povero visivamente (basta pensare ai Tg fatti per metà con immagini prese da YouTube o con feed d’agenzia riprodotti con ratio sbagliata) e anche nell’intrattenimento si cominciano a vedere scenografie da tv locale.
Cartelli contro i tagli alla BBC.
Sia chiaro: noi italiani saremmo in grado di fare cose molto migliori di quelle che si vedono all’estero. A costo di sentirmi qualche risatina dietro le spalle dirò che la mise en scène di grandi spettacoli come Sanremo o Fiorello è talvolta migliore di quella di eventi della tv americana o inglese, ma si tratta di eccezioni dovute a un particolare sforzo produttivo.
Il problema però non è tanto il fatto di dover limitare i lustrini, i tagli arrivano in tutte le tv europee: è quello di restare indietro rispetto allo standard mondiale e diventa anche molto difficile interagire nel mondo multipiattaforma e soprattutto sulla rete (Web e App) perché il core della produzione è ancora basato sul vecchio modello analogico, spesso ancora si va in giro con le videocassette. E intanto a bordo campo si stanno scaldando Apple, Google e varie ed eventuali.

Quindi: non si può semplicemente tagliare tagliare tagliare. E’ come dal parrucchiere. Se tagli devi inventarti un’acconciatura, altrimenti vince il taglio militare. Occorre un modello produttivo diverso, che faccia i conti con le nuove tecnologie e le usi per produrre meglio (non peggio) ad un costo minore, e per più piattaforme e modelli di business. E la prima cosa, in questa direzione, è chiedersi se il modo di impostare e calcolare i costi da parte dei grandi broadcaster sia quello giusto. Forse dovrebbero diventare un po’ più editori e un po’ meno officina.





domenica 10 giugno 2012

Alla fine, arrivano i nuovi Mac Pro


Dopo due anni di tira e molla pare che alla fine Apple si sia decisa: domani (lunedi 11 giugno), all'annuale incontro degli sviluppatori, dovrebbero essere annunciati i nuovi Mac Pro.
Il Mac Pro è la "torre" che costituisce la presenza Apple nel mondo dell'hardware professionale. E' usato per far girare i programmi di montaggio (Final Cut ma anche Avid), i programmi audio e per scrivere i programmi per Mac che poi magari diventeranno Applicazioni per iOS (iPad, iPhone).  Per molto tempo si è pensato (congetturato, perché Apple è più muta del Cremlino dei tempi d'oro) che la casa di Cupertino avesse abbandonato l'idea stessa di produrre una workstation professionale: tanto impegno di ingegneri per raccogliere quattro soldi, rispetto ai miliardi che arrivano dai prodotti consumer. La trasformazione dello stesso Final Cut Pro in FCPX, dalle marcate caratteristiche prosumer, era un'altra indicazione chiara della direzione adottata. La chiusura della linea di prodotto server e anche del software che la doveva gestire era stata la ciliegina sulla torta della volontà che traspariva da Infinite Loop.
Il "vecchio" Mac Pro.
 Poi, qualche mese fa, lentamente, una correzione di rotta, di cui abbiamo parlato qui. FCPX è stato migliorato, i manager e i pr di Apple sono stati inviati come misssionari in fiere e incontri diretti per annunciare ai professionisti che "no, Apple non vi ha abbandonato". Le ragioni possono essere molteplici: prima di tutto, non è una saggia politica di marketing abbandonare del tutto gli "evangelisti" che hanno concorso a creare il brand Apple (musicisti, montatori, grafici ecc.). E poi, Apple crea software per vendere hardware, è vero, ma come si fa a scrivere quel software senza una workstation che giri sul sistema operativo Apple? Non si può pensare che progetti complessi possano nascere, svilupparsi e "debuggarsi" su un iMac. Per ultimo, è vero che i soldi che arrivano dalla vendita dei Mac Pro sono una goccia nel mare rispetto ai vari iPad e iPhone. Ma comunque è una divisione che genera profitti. Vedremo come saranno questi nuovi Mac Pro.
Arriveranno anche i nuovi Mac Book Pro con display Retina, iOS6 e qualche notizia sulla data di uscita di Mountain Lion, la nuova versione del sistema operativo. La Worldwide Developers Conference (WWDC) inizia lunedi alle 10 ora del Pacifico, e quindi sapremo tutto all'ora di cena. Come sempre, ci si aspetta l'ingolfamento dei server internet dei vari Mac Rumors, 9 to 5 Mac ecc.

UPDATE: Alla fine, l'upgrade dei Mac Pro c'è stato ma abbastanza modesto (solo un potenziamento dei processori e poco altro, anche il case è rimasto lo stesso e non c'è neanche una porta Thunderbolt). Tant'è che la nuova gamma non è neanche stata presentata alla WWDC ma è apparsa silenziosamente sul sito Apple mentre sul palco del Moscone Center i capi di Cupertino presentavano la nuova linea dei Mac Book Pro, questa sì davvero potenziata in modo significativo. Come dire ai Pro: tanto vi dovevamo, ma venite a prendervi 'ste torri dalla porta di servizio. I creativi di domani usano il laptop. Ne parleremo in un altro post.

sabato 9 giugno 2012

Nomine Rai: oltre l'istinto



Le nomine di Monti? La reazione istintiva sarebbe quella di rimarcare come anche per il salotto buono della finanza italiana, così come ieri per le segreterie dei partiti, sia incrollabile la convinzione che per dirigere la tv non sia necessaria una competenza specifica. (Gli stessi decisori metterebbero mai a dirigere il Corriere un direttore di banca? No. O a dirigere la Nazionale di calcio un manager, magari pure della Merrill Lynch, che non ha mai guardato una partita?)
Però questa è la reazione a caldo. A pensarci bene, poiché Monti tutto è tranne che uno sprovveduto, avrà valutato il rischio insito nel paracadutare su Viale Mazzini dei personaggi molto qualificati sul terreno finanziario ma totalmente digiuni dello specifico. Mandare gli "alieni buoni" gli sarà sembrato l'unico modo per sparigliare (sempre che SB non faccia saltare il banco e magari anche il governo per impedirle, ma la reazione avrebbe un costo politico non indifferente, vedremo).
Da quello che posso capire, l'idea di Monti e dei suoi è che sia inutile illudersi che domani la Sipra faccia il pieno di pubblicità in una Rai "risanata", e che quindi sia meglio
- riorganizzare tutto abolendo sprechi e rilanciando la meritocrazia
- garantire un flusso di soldi più certo trovando i modi per far pagare l'abbonamento a tutti (magari mettendolo in una bolletta elettrica)
-e cercare di far adempiere meglio alla Rai il compito di servizio pubblico, anche a costo di qualche perdita d'ascolto.
Non so perché, ma mi sembra una linea con qualche tratto illuminista. Spero di sbagliarmi. In ogni caso, se conoscete qualcuno che conosce qualcuno amico di questi signori, spifferategli all'orecchio un solo suggerimento: "pretendete la contabilità industriale". Sulle produzioni e su tutte le fonti di spesa. I loro sherpa interni spiegheranno loro che "il problema è un altro". E voi insistete: "richiedete la contabilità industriale". Come un mantra.
Ultimatum alla terra: "Klatu Barada Nikto".

Alla Rai bisogna "mettere a posto i conti". Ma non si risolve nulla considerandola un postribolo di nani e ballerine che disturbano la quiete e le buone letture, una fonte di schiamazzi notturni e di intollerabili volgarità. E non perché la tv non sia anche questo: ma perché, insomma, la tv è come gli italiani.
E quindi rigore e serietà non basteranno. Ci vorranno le idee. E le teste. Trovatele. Non pensate solo alla partita doppia. Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno.

mercoledì 6 giugno 2012

La vendetta della vecchia tv


Emily VanKamp in Revenge (Disney/ABC Studios, 2011).

Revenge, rinnovata per la seconda serie andrà in onda negli Stati Uniti nello slot che ABC riservava a Desperate Housewives.
Revenge rappresenta il segno più limpido del fatto che la Golden Age delle serie tv americane si è definitivamente conclusa. Imparagonabile, come plot, creatività, livello di scrittura e recitazione a DH, Revenge rispolvera uno degli archetipi di sicuro successo, assieme a quello di Cenerentola, nei manuali per sceneggiatori seriali: quello del Conte di Montecristo. Cioé il tanto di vendetta (Revenge) accettabile in una cultura “cristiana”.
Il plot è elementare: Emily/Amanda, bella e giovane,  ritorna sotto falso nome agli Hamptons, dove vivono tutti i ricchi e cattivi che hanno concorso alla rovina del padre. Lei ovviamente è diventata più ricca e più spietata di oro. Però l’amore è in agguato ecc. La sceneggiatura è da daytime soap, mancano soltanto le camere da studio per dare l’effetto Beautiful. La voce fuori campo di Emily/Amanda, che incornicia le puntate, è tolta di peso (e malamente) da quella ideata da Marc Cherry per le ben più intriganti signore di Wisteria Lane.  Ma l’America della crisi non vuole più conflitti familiari, vuole vendetta. Anche scritta male.
La mappa di Wisteria Lane.
La fiction americana è in crisi di idee e, tanto per cambiare, di soldi. JJ. Abrams, apparso a tutti qualche anno fa come il nuovo genio del seriale americano, ha inanellato una ciclopica serie di flop (compreso il triste finale di Fringe). HBO, che era in grado di spendere tantissimo per serie viste da pochi milioni di fighetti metropolitani oggi arranca sotto il peso dei vari Hulu, Netflix ecc. La risparmiosa Disney, proprietaria di ABC, dev’essere pazza di gioia nell’aver potuto sostituire, con successo d’ascolto, una serie impegnativa, costosa e rognosa come DH con una modesta soap girata in HD (con le luci calde sulla terrazza della casa di Emily che fanno a pugni con la vera alba dietro le spalle dei protagonisti, creando il mitico effetto facce rosse che alla BBC avrebbe comportato l’immediata decapitazione del direttore della fotografia).
Dalle serie che raccontavano (ad alto livello) la crisi (come il capolavoro, misconosciuto, Hung) alle serie che ne sono la conseguenza. Con qualche distinguo che tutti abbiamo in mente (inutile fare elenchi di “buoni”), adesso le vere luci arrivano dalla Gran Bretagna. Speriamo che prima o poi nasca una Silver Age anche per le serie americane. Speriamo in Newsroom.

martedì 5 giugno 2012

Cenerentola e l'evento tv

Cenerentola, una favola in diretta.
Volevo scrivere qualcosa sulla Cenerentola di Andermann (e di Verdone, e di Cavassilas) ma avendo in onda contemporaneamente un programma su Rai Tre (Cosmo) non sono riuscito a vederla se non per pochi minuti. Oggi sono andato su Rai Replay e ho scoperto che Cenerentola è "in grigio", cioé non è disponibile, il che credo significhi che la Rai non ha i diritti web. Sarà stato un problema di costi.
Però - permettete l'obiezione - queste non sono operazioni che hanno senso se vanno a library, per l'oggi e per il domani? Quando Arte manda in onda le opere in diretta e in location (lo fa da vari anni) puoi comodamente rivedertele sul web. Magari pagando qualcosa. A patto che tu abbia un indirizzo IP francese o tedesco. Anche questo è spread, purtroppo.
Comunque, la cosa mi incuriosiva. Anche 'sta storia che fare un'opera in tv, in modo originale, dimostri una concezione vecchia e pedagogica della cultura televisiva ecc. mi sembra una giaculatoria anni '90 che ha abbastanza stufato. Si può fare l'opera, si può fare teatro, si può fare tutto! Basta fare i conti con il mezzo. E farlo diventare un evento. Bravo Andermann che ci riesce. Ma per quel poco che ho visto e ho capito (non è mio mestiere fare il critico di un allestimento) direi che al di là di ogni altra considerazione stilistica, non puoi creare un evento televisivo quando è in atto un altro evento purtroppo molto più importante e più grave come il terremoto in Emilia. Ho capito, c'è l'Eurovisione, i contratti ecc. Però non puoi. La tv generalista vive dell'agenda mentale dei suoi spettatori.

lunedì 4 giugno 2012

Quanto fa paura la Casa di vetro


Life in a Glass House, il nuovo format Disney/ABC che sta facendo litigare le tv americane.
Enrico Menduni ha scritto un libriccino (nel senso che conta solo 72 pagine, ma è in tutto e per tutto un saggio) sul rapporto tra cinema e televisione (La grande accusata. La televisione nei romanzi e nel cinema. Archetipo Libri, 2012). Mi è piaciuto molto: perché sostiene molte cose che penso anch'io ma soprattutto perché Enrico quando scrive non riesce a dominare la sua onnivora curiosità, che lo costringe spesso a inattese e non stringenti divagazioni. Ecco, in quelle divagazioni che escono dal seminato, rompendo talvolta la nitida struttura accademica del suo saggio c'è secondo me la parte più stimolante del libro. 
Enrico Menduni.
 Per tornare a bomba: mentre a Cannes premiavano Reality (che non ho ancora visto, quindi non ho elementi di giudizio) Menduni ci ricorda che il cinema si è occupato fin dall'inizio della televisione, raccontandola molto spesso come una via di mezzo tra il citofono e uno strumento di occhiuto controllo sociale. A parte ogni altra considerazione che vi verrà in mente (la tv spossessa gli intellettuali tradizionali, ecc.; val più un minuto in televisione di dieci libri scritti ecc. ecc.) Menduni ricorda un altro elemento fondamentale: figlia della radio (e quasi sorella, perché se ne cominciò a parlare già agli albori delle onde hertziane) la televisione paga gli anni durissimi in cui la radiofonia esplose nel mondo, anni che corrisposero alla nascita dei grandi totalitarismi del Novecento. Gli intellettuali che fuggivano dall'Europa si ritrovavano in America la radio delle soap operas, e questo ai francofortesi come Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, come sappiamo, non è proprio andato giù (ma come, me ne vado dalla Germania nazista dove per poco non mi mandano in galera e arrivo qua per scoprire che gli intellettuali non contano più un piffero a causa di quel fastidioso altoparlante in mano ai produttori di saponette, non c'è neanche la tragicità del cataclisma europeo).
Menduni ricorda anche un passo del Mondo nuovo di Huxley, libro ormai caduto nel dimenticatoio, in cui il regime aveva inventato la casa di vetro, dove eri esposto tutto il giorno allo sguardo dei vicini. Verrebbe da dire, tanto per essere banali, come in un reality, poi al cronista di media viene a mente che da poco la Disney/ABC ha lanciato in America un format che si chiama appunto Casa di vetro (Life in a Glass House). E che per questo, da quanto ho capito, ha ricevuto una denuncia dall'Endemol e da CBS per plagio. Bisognerebbe avvisarli che i "nemici intellettuali" della tv avevano pensato ai reality molto prima di loro.

domenica 3 giugno 2012

Cosa ci insegna Netflix



Mentre la stampa italiana è di nuovo impegnata, da qualche giorno, nella sua occupazione preferita, le lenzuolate sulle nomine Rai (pardon, adesso si dice governance) nel mondo la crisi sta squassando il modello di business della tv tradizionale. E a occhio e croce niente sarà più come prima.
Invece di arrovellarsi su tattiche aziendali e organigrammi matriciali, forse anche i broadcaster italiani dovrebbero cominciare a chiedersi cosa faranno da grandi, anzi, da vecchi.
Li può aiutare in qualche modo il fermento nel mercato che è tuttora leader e anticipatore delle tendenze mondiali, quello americano.
Al di là della crisi (sta-migliorando-no-macché-è-colpa-di-voi-europei) i giganti di Internet sono immersi in una battaglia per la sopravvivenza. Ma come, se in America c’è Apple che fattura più di un medio stato europeo? Sì ma è il capitalismo, bellezza. Niente è garantito. Mentre Facebook si sta trasformando da protagonista della più grande success story dell’ultimo lustro ad auto civetta della nuova bolla tecnologica, Apple -sì proprio Apple - ha subìto la prima sconfitta da un decennio: e su un terreno decisivo per il futuro, quello dello streaming on line. E la protagonista è Netflix. Fino a poco tempo fa Netflix era quella che noleggiava DVD e Bluray agli americani mandandoglieli per posta con un abbonamento mensile (ve l'immaginate con le poste italiane?). Ma da quando si è lanciata nell’avventuroso mondo dello streaming online Netflix ha intercettato, come si dice, il trend.


Con la diffusione dei televisori “smart”, connessi a internet, ecco il boom: la sua percentuale di mercato è passata dallo 0,5% del 2010 al 44% del 2011, tanto da battere proprio il leader di mercato Apple, che in due anni è scesa nella share di mercato dello streaming dal 71% del 2009 al 32% del 2011 (Fonte: IHS Screen Digest, Giugno 2012). In altre parole: Se vuoi scaricarti un film a pagamento iTunes è sempre il numero uno, ma nel mercato dello streaming video, per ora Netflix l’ha strabattuta. Certo, si tratta ancora di una nicchia, ma in espansione geometrica.
Non è un punto da poco. iTunes è il frutto dell’intuizione di Jobs, che già vari anni fa aveva sostenuto che i supporti fisici (CD, DVD e perfino Bluray) non avessero futuro. In fondo, anche nel mondo del consumo illegale di media, i peer to peer tradizionali come eMule sono stati soppiantati dai vari Megavideo (parlandone da vivi) perché il pubblico giovane preferisce andare in streaming piuttosto che “scaricare”. I redditi da video on demand basato su abbonamenti (SVOD) sono schizzati in America nel 2011 a 454 milioni di dollari (il 10.000% dei ricavi dell’anno precedente, che era di appena 4 milioni circa).
Il modello di business di Netflix è basato sul noleggio, come le vecchie care videoteche dove si andava a ravanare per scoprire gemme sconosciute. E cosa offre Netflix?
Non ci troverete l’ultimo blockbuster o l’ultima stagione della serie tv preferita ma una videoteca di classici, di film d’autore e di genere, serie tv recenti ma non fresche di giornata, documentari. Hanno un'ottima qualità online (1080p) e possono essere fruiti sui nuovi televisori “connessi”, oppure tramite Playstation o Xbox, così come sull’iPad o sul proprio pc (o mac). Poiché non si tratta di novità Neflix riesce a strappare diritti a pochi soldi e a proporre abbonamenti a prezzi stracciati (quello di base negli Stati Uniti costa 8 dollari al mese). Naturalmente parliamo di Paesi dove la banda larga è una realtà.
Ennesima simulazione della tv Apple.
Cosa succederà adesso? Apple sta affilando le armi per la sua arma-fine-di-mondo, il televisore Apple (ne abbiamo già parlato varie volte). Ma in questo campo le vittorie non sono mai scontate. Apple dovrà riuscire a fare un deal con i produttori di contenuti che le consenta di gestire un modello integrato hardware-software, o sarà solo un televisore fighetto che puoi comandare a voce e che costa un po’ di più. Insomma, la battaglia è aperta. Quando il mondo cambia si riparte tutti dal via. Perfino i vecchi broadcaster potrebbero trovare la strada per trovare un nuovo modo per esistere, fare prodotto e fare soldi. In Italia ci sta provando timidamente Mediaset con Premium Play. La library è ancora modesta e il packaging è frettoloso, e a un prezzo molto superiore a Netflix. Ma almeno ci provano. Certo, per giocare a questo gioco prima che i giganti americani si pappino tutto servono tre cose: soldi (ahi), brand (non basta il gradimento delle figlie di Maria) e una connessione broadband efficiente in tutta Italia. E ho detto tutto - esclamerebbe Totò.

sabato 2 giugno 2012

Glenville ritorna domani

Glenville ritorna sabato 2 giugno. Scusate per l'assenza di qualche giorno, causata da una serie di impegni di lavoro. Grazie per la pazienza.