sabato 28 luglio 2012

Noi, Danny Boyle e la cultura pop


La Regina, scortata da James Bond, va a prendere l'elicottero.

Quando ero piccolo mio nonno materno mi portò al cinema a vedere Mary Poppins. Dopo oltre due ore di balli di spazzacamini sui tetti di Londra, nannies volanti, ammiragli in pensione che cannoneggiavano la città ecc., uscii dalla sala estasiato. Mio nonno mi guardò severo e pronunciò una sola parola: “Americanate”.
Mio nonno non era un intellettuale, era un commerciante. Possedeva un albergo e leggeva il Borghese, figuriamoci. Però disse così.
Mary Poppins.

Vedendo oggi alcuni commenti alla smagliante serata di inaugurazione delle Olimpiadi orchestrata da Danny Boyle (quante imitazioni mal fatte ci sorbiremo, nei prossimi anni?) mi sono chiesto se la nostra cultura dominante non sia rimasta drammaticamente indietro rispetto a quella pop culture che ha segnato, quasi cinquant’anni fa, il tentativo di  comprensione, da parte degli intellettuali anglosassoni, dei meccanismi e delle poetiche della società di massa.
Ad esempio: la categoria “Disneyland”, usata in senso spregiativo (Maltese su Repubblica), è un segnale preciso di incomprensione della modernità. L’uso estensivo del termine kitsch (Grasso sul Corriere) per inquadrare humour e autoironia, pure. 
Fellini 8 e 1/2.

La forza della cultura britannica, in questi ultimi cinquant’anni, è stata proprio quella di comprendere l’elemento circense della mass culture e lavorarlo come un plus espressivo. Dai Beatles ai Monty Python, dal palinsesto di Channel 4 al rock degli anni settanta-ottanta, fino ad oggi. Sì, d’accordo, loro hanno fatto la Riforma e noi siamo ancora nella Controriforma, ecc. “Brains are optional but sense of humour is compulsory”.
Però. Però eravamo il Paese di Fellini e di 8 e 1/2

giovedì 26 luglio 2012

Niente politica in tv nel mese dello spread?


Formigoni a In onda con la coppia Facci-Lusenti.

Com’è possibile che, in un Paese che -facendo le corna- rischia il default, il servizio pubblico non abbia pensato ad un talk politico anche durante l’estate? Tutto è demandato alla 7, che indubbiamente fa un ottimo lavoro. (Peraltro, è evidente che, con le varie strambate rispetto al palinsesto ufficiale, Mentana voglia anche sottolineare il suo ruolo di vero kingmaker della linea editoriale della 7, vedi anche le sue incursioni a In Onda). 
Santoro su Raidue.
Ma è altrettanto evidente che alla Rai farebbe molto bene (anche dal punto di vista della sua collocazione sul mercato) non abbandonare il presidio sul pubblico interessato all’informazione. Che non può essere accontentato semplicemente con la seconda serata di Raidue il venerdi: ci vorrebbe un peso massimo. Certo, di talk in generale non se ne può più: ma per fare qualcosa di diverso da un talk (come fa Report e come faceva anche Raiuno con il Tv7 d’antan) ci vorrebbero redazioni aperte tutto l’anno, una macchina produttiva sempre accesa e competenze editoriali che vanno oltre il lavoro di cercaospiti. Tutte cose che costano e che  vanno pianificate per tempo. E che non sono nel dna delle redazioni dei tg, ci vogliono gruppi di lavoro dedicati.

Ma, in generale, credo che nella possibile agenda di Tarantola e Gubitosi dovrebbe entrare una risposta pratica alla domanda: quali sono i plus della Rai? Dov’è che la Rai riacquista e conferma una sua centralità? E dov’è che la perde? Chiedere a Raidue dopo lo scivolo a Santoro. 
Se la Rai vuole fare una politica efficace anche dal punto di vista commerciale (e cioé recuperare fatturato pubblicitario, oltre che abbonamenti) deve dimenticarsi i “periodi di garanzia” e tutti gli altri ammennicoli della tv commerciale anni ’90, e deve fare una sua politica commerciale legata al fatto di essere servizio pubblico 24/7 x 365 giorni. 
Gad Lerner ed Enrico Mentana.
Mediaset ha un problema diverso, continua a tentare talk politici ma non ce la fa. Per non fare discorsi complicati: se vuoi fare ascolto con un talk politico sulla tv di Berlusconi devi avere un conduttore di centro-sinistra (ma che dici? sì, dico) e un panel di ospiti non squilibrato (lo schemino tre-quattro pesi massimi di centrodestra e qualche vocina di centrosinistra è un gioco talmente scoperto da risultare trasparente anche al pubblico meno attento: quelli di sinistra non lo guardano e quelli di destra nemmeno, perché non c’è il confronto). 
Se per ragioni famigliari non te lo puoi permettere, allora tanto vale ributtarsi sul gossip, sapendo però che è una tattica difensiva e non espansiva, sembrano notizie da un mondo in rapido fading. 
Ma torniamo alla Rai. Ci sono tanti modi per risparmiare soldi, anzitutto cominciando ad eliminare duplicazioni frutto della trentennale lottizzazione. Ma ci sono pochi modi per farne, di soldi. Fondamentalmente, un servizio pubblico fa più soldi se è più amato e rispettato dal pubblico (e dagli opinion leader). Allora sarà più facile fare la voce grossa sul canone, e anche andare dagli inserzionisti chiedendo loro se vogliono investire sulla serie A. Non sulla bocciofila pensionati.

venerdì 20 luglio 2012

Vivremo senza libri, dischi, dvd?


Addio scaffali?


E così la Sony comprerà la Gaikai. Cos’è la Gaikai? E’ un servizio che consente di mettere  “sulla nuvola” i videogiochi. Traducendo: oggi per far girare un videogioco evoluto devi avere, oltre al televisore, una console (Playstation Sony, XBox Microsoft, Wii ecc.) e un dvd che contenga il (costoso) software del videogame. Con il sistema Gaikai, invece, basterà uno scatolotto collegato a Internet. Voi giocate da Roma, o da MIlano. Ogni vostro comando viaggia alla velocità della luce fino a un server in America, dove risiede il programma, che lo traduce in una visualizzazione che apparirà sul vostro tv. Tutta l’intelligenza è spostata in cloud. 
In parole povere: se oggi potete cominciare a rinunciare 
- alla vostra discoteca (con iTunes e iCloud ve la portate dietro, ma in realtà è soltanto un database puntato su un lontano server); 
- alla vostra libreria (Amazon ecc. vi fornisce gli e-book); 
- alla vostra collezione di dvd (i film e le serie saranno disponibili in streaming, nessuna necessità di supporto fisico, e neanche di spazio sul vostro hard disk);
-allo stesso modo, da domani potrete rinunciare anche allo scaffale con i dischi dei videogiochi. Un aspetto fondamentale per l’industria: non potrete più utilizzare videogiochi craccati e masterizzati dall’amico compiacente. Perché i programmi saranno custoditi sulla nuvola, in pratica dentro grandi datacenter.
Un videogioco in streaming.
Fin qua il discorsetto da blog tecnologico. (Anzi, loro potranno farvelo molto meglio di me, le notizie più fresche le ho raccolte da Riccardo Meggiato, mio specifico guru sui videogame).
La domanda che mi faccio è un altra: questa eliminazione tendenziale del supporto fisico è stato teorizzata da Steve Jobs quando ancora a noi sembrava fantascienza (e Jobs, passando dalle parole ai fatti, aveva boicottato la diffusione dei bluray escludendoli dalla configurazione interna dei mac; adesso i suoi epigoni hanno addirittura eliminato il lettore dvd dai nuovi MacBookPro). Chapeau alla lungimiranza. Ma, mi domando: in ogni civiltà è presente l’elemento del possesso fisico, l’elemento feticistico, insomma: il collezionismo.
Crescono gli e-book, diminuiscono i libri di carta.
Tutti noi collezioniamo qualcosa che ci serve non per il suo valore d’uso ma per il suo valore simbolico: l’intellettuale (mosche bianche, ok) ha la sua libreria. E anche se non riaprirà mai più in tutta la sua vita il 90% dei libri che possiede, la presenza di quei libri ha un senso. Ha una forte valenza simbolica. La presenza di un libro sullo scaffale è in qualche modo una scrittura. Scrive di noi.
L’amante della musica avrà la sua collezione di dischi (anche se la maggior parte dei pezzi li sente dall’iPod o da un hard disk). Il ragazzo appassionato di videogiochi avrà il suo scaffale dei games. E l’appassionato/a di cinema terrà tantissimo alla sua collezione di dvd e bluray, piena di “edizioni speciali” di classici del cinema. 
Sono nicchie? Sì, ma messe assieme non lo sono più. Come il bambino che segue le serie di Ben 10 o degli orridi Power Rangers ma pretende anche la sua collezione di pupazzi, supereroi, alieni e villains. A questo aspetto della questione (il feticismo) i teorici del cloud non hanno ancora pensato. Di solito la risposta è: guarda che si tratta di un fatto generazionale, i ragazzini non hanno più bisogno di queste cose. Ne avranno bisogno comunque, magari in forme diverse. Sì, ma quali? Cosa racconterà di loro, domani?

lunedì 16 luglio 2012

Se Rai Due assomigliasse a Channel 4


La home di Channel 4.

Ma la Rai vuol essere un editore? La questione l’ha riproposta Stefano Balassone (il co-fondatore della Raitre di Guglielmi e uno dei pochi che ci capiscono di televisione in Italia) in un bell’articolo uscito oggi. Poiché Balassone ha citato come esempio Channel 4, mi limito a una segnalazione di ordine generale. Perché Channel 4 è parte decisiva del sistema della tv pubblica britannica.
Mi spiego meglio. Il sistema dell’offerta televisiva pubblica in Gran Bretagna è così concepito: c’è la BBC, che vive solo di canone; e c’è Channel Four, per il quale non si paga canone, perché vive di pubblicità. Ma è comunque parte del sistema pubblico. (Poi ci sono i canali privati ITV e Channel 5. E sul satellite c’è Sky Uk).
I compiti di Channel 4 sono stabiliti dalla legge. In pratica Channel 4 deve garantire:
- innovazione, sperimentazione, creatività;
- multiculturalismo;
- contribuire al servizio pubblico anche con programmi che abbiano finalità “educative” (4Mation)
- esibire caratteristiche “originali”.
Black Mirror (Channel 4).
Schematizzando: diciamo che Channel 4 è un pezzo della migliore Italia Uno d’antan che incontra la Rai4 di Freccero con qualche sprazzo di Rai Tre e della 7. Channel 4 ha ospitato e proposto per prima i reality in Gran Bretagna (suscitando polemiche, ovviamente) ma è anche il canale che sperimenta serie di altissimo livello come Black Mirror, per capirci. Channel 4 produce documentari di alta qualità ma anche daytime popolati e innovativi (tutto il filone del cibo da Gordon Ramsey a Jamie Oliver, ad esempio); ha un bel telegiornale, affidato all’agenzia ITN; ha proposto le migliori serie americane (dai Simpson a The Big Bang Theory, da Glee a Six Feet Under, Sopranos, West Wing ecc., tanto per dirne qualcuna) ma ha promosso serie britanniche interessanti, da No Angels a Shameless.  Channel 4 ha, naturalmente, una veste grafica di altissima qualità, un linguaggio molto fresco, piace al pubblico giovane, è irriverente e talvolta scorretta, fa discutere. Cerca il nuovo ma è molto esigente con i copioni e la recitazione. Channel Four stabilisce una regola fondamentale nella tv di oggi: puoi prevedere quanto vuoi che un domani il palinsesto lineare morirà, ma questo non richiede meno brand, ma più brand. Qualcosa che dia una chiave di lettura a tutti i prodotti che proponi. Se non vi piace brand, chiamiamola una poetica.
Channel 4 non produce niente in casa: ma i prodotti di Channel Four sono inequivocabilmente “di Channel Four”. Perché Channel Four è un bravo editore. E in questi modo ha fatto vivere un tessuto di piccole e medie società di produzione che sono fucine di idee e non di raccomandazioni. Naturalmente Channel 4 non è perfetta. Nessun modello vale dovunque e per sempre. Ma sarebbe bello se un giorno Rai Due potesse assomigliare a Channel 4. Almeno un po’. 

sabato 14 luglio 2012

E' sempre obbligatoria la messa cantata?


L'Isola dei famosi ai tempi della Ventura.

Uno dei problemi che hanno i commercializzatori di format quando devono “localizzare”, cioé adattare un programma di successo al mercato italiano (bello, brutto od orrendo che sia) è che in origine si tratta quasi sempre di programmi che durano un’ora, e che sempre più spesso, non prevedono uno studio. Lo schema classico del programma di primetime italiano invece prevede la “messa cantata”: e cioé una durata monstre (fino a tre ore, e se dura più di tre ore, tanto meglio) e uno studio centrale, grande, magari grandissimo, riempito di pubblico. Non è che all’estero non ci siano programmi fatti in studio e con una live audience, naturalmente: ma sono sempre meno. 
Celebrity Survivor, versione filippina.
Non solo per una sorta di “spending review” naturale, ma anche perché il pubblico post-televisivo, al contrario di quello anziano e più tradizionale, non sente così fortemente il bisogno dello studio. A fare casa e brand ci pensano una buona grafica, il montaggio, la musica, persino la fotografia.
Lo studio di Report.
Se qualcun altro che non è la Rai si fosse preso L’isola dei famosi/Celebrity Survivor! (che nella crisi dei reality rimane ancora uno dei formati più modulabili, fanno bene a tenerselo) avrebbe potuto pensare di abolire lo studio. E magicamente tutto sarebbe costato molto meno. Ma sulla Rai, come fai? Se devi durare tre ore e raccogliere anche lo zoccolo del pubblico più tradizionale non c'è altra strada dello studio: un luogo rassicurante dove si parla, si parla e con le talking heads si fa minutaggio.  Naturalmente, ci sono vistose eccezioni. Quando un programma (qui siamo in una zona molto lontana da quella dei reality) ha un'identità forte, allo studio si può rinunciare. Report spesso batte il varietà di RaiUno. Con servizi fatti bene e con uno studiolo francescano che serve solo a lanciare i "filmati".
E’ anche un problema di cultura televisiva. I grandi broadcaster italiani, particolarmente quello pubblico, tendono a vedere i programmi come “studi con ospiti”.  Ma come avrebbe detto il bardo immortale, ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne possa contenere un teatro di posa.

venerdì 13 luglio 2012

Glenville: oltre 60mila visualizzazioni


Glenville ha superato oggi le 60mila visualizzazioni complessive, grazie a tutti per l'attenzione.

Se la Rai fosse HBO, anche solo un po'


Il logo di HBO Entertainment.
Qualche giorno fa Luciano Traversa (Lord Lucas) mi ha tirato per i capelli -impresa oggettivamente ardua- assieme ad altri tweetatori, in una polemica (fin troppo accalorata) su un bell’articolo, largamente condivisibile, di Guia Soncini. La motivazione dell’articolo era il libro, uscito da poco negli Stati Uniti, sulla Must-See Tv, cioé su quella tv degli anni novanta che era “impossibile non seguire” se volevi restare tra i contemporanei. Mentre oggi gli ascolti relativi dei singoli programmi sono molto più bassi (visione differita, internet, moltiplicazione dei canali, vi risparmio la solita lista della spesa). Traversa faceva alcune critiche sui dati (ad esempio su quanto siano diminuiti gli ascolti medi delle prime serate di intrattenimento in Italia) che onestamente non condivido. Le cifre si fanno sulle medie e quelle medie mi sembravano piuttosto precise.
The Newsroom,  di Aaron Sorkin.
 Ma il punto vero era un altro: secondo Soncini (e quest’ultima è questione fondamentale che riguarda anche noi e qualunque telespettatore in tutto il mondo) quelle serie tv americane che il mondo del cinema hollywoodiano invidia, perché sono più adulte, scritte meglio e più coraggiose rispetto a quello che si vede nelle sale hanno la loro genesi nell’esistenza della pay tv. Per essere più esatti, dal premium cable: cioé di quei canali tv che sono disponibili nelle case americane pagando una (significativa) differenza rispetto al cavo di base. Prima fra tutte la HBO. (Per capirci, HBO ha prodotto negli anni cosette tipo Sex and the City, Six Feet Under, i Sopranos, Carnivale, In Treatment, True Blood, Hung, Boardwalk Empire, rompendo tutte le convenzioni della tv americana).
Sue Eagle (HBO).
Al di là delle cifre singole sugli ascolti di questo e di quello, non c’è alcun dubbio che serie che talvolta non arrivano al milione di spettatori (in America! Rispetto all’Italia è come dire 2-300 mila spettatori) non si ripagano affatto, o meglio non si ripagherebbero affatto sulla tv free: non raccoglierebbero pubblicità sufficiente per essere economicamente vantaggiose. Ma se quelle serie servono a dare identità e “contenuto premium” a un canale come HBO (e se fanno felici i suoi abbonati, che le guardino o che non le guardino) l’equilibro è ristabilito. Naturalmente questo è un discorso generale, comunque devi fare degli ascolti medi convincenti con la media della programmazione, Game of Thrones è stata fondamentale quest‘anno per il futuro di HBO, ecc. ecc. Ma l'orizzonte rimane questo.
Quindi la HBO fa da volano per il resto della programmazione: siccome la pubblicità (in America molto più che in Italia) non insegue i grandi numeri in sé ma solo in quanto rappresentativi di un pubblico interessato a spendere (e quindi, nella realtà americana, mediamente giovane, grandi città ecc.) anche i network, cioé anche le tv free, sono costretti ad inseguire, in qualche modo, quel modello “alto”. Il pubblico più anziano e meno culturalmente attrezzato dovrà adeguarsi, perché, per questi buoni motivi, non c’è nessun Don Matteo in onda. Naturalmente la composizione demografica del pubblico americano è profondamente diversa dalla nostra, come dicevano quelli “non è un Paese per vecchi”, ecc. 
Il libro di Warren Littlefield,  ex capo della NBC.
Tutto ciò spiega lo stile e la libertà creativa, rispetto al mainstream, che le serie prodotte da HBO possono vantare. Con tutti i rischi di elitarismo che ciò comporta. Citando Freccero, “troppa libertà creativa può far male”. Il paradosso del guru nostrano è dimostrabile con il seguente aneddoto, tratto da un’intervista ad Aaron Sorkin uscita su Vanity Fair americano: rivedendo la sceneggiatura di The Newsroom, la nuova serie di Sorkin che ora è in onda e sulla quale sono già stati versati fiumi d’inchiostro, la presidente di HBO Entertainment, Sue Neagle ha mandato tempo fa all’autore un appunto criticando un passaggio della quarta puntata. Per sottolineare il climax drammatico della storia Sorkin aveva segnalato in sceneggiatura la necessità di metterci sopra una canzone famosa e non un pezzo della colonna musicale della serie. Serviva a “far crescere l’emozione”. La capa di HBO ha obiettato, con malcelato disprezzo: “E’ come fanno alla fine di Grey’s Anatomy!”. Al che Sorkin avrebbe ribattuto: “Non ho mai visto Grey’s Anatomy [va in onda su ABC, uno dei tre network storici], ma sono sicuro che non sia una cosa che hanno inventato loro”. Sue Neagle ha chiuso il discorso con un “E’ solo un’osservazione, tanto per farti sapere che HBO si deve distinguere nettamente dalla tv free”.
Quanto questo modello resisterà all’avanzata della visione differita, nei nuovi modelli di fruizione, di Hulu, Netflix, Apple, Google ecc. staremo a vedere. Ma senza dubbio HBO (così come BBC e Channel 4 in Inghilterra) svolge, a modo suo, quel ruolo da apripista ed elevatrice dello standard che anche in Italia, dovrebbe essere uno degli obiettivi (se non la ragion d’essere) di una presenza pubblica nel mondo della tv. A meno che non pensiamo che alla fine il problema della Rai non si risolva nel decidere da che parte sta il direttore del Tg1.

(P.S.: Con Guia Soncini sono d'accordo su tutto tranne che su Downton Abbey, di cui mi dichiaro fan).

mercoledì 11 luglio 2012

Quinta Colonna e il dilemma di Mediaset


Francesco Schettino a Quinta colonna (Canale 5).
Non era uno scandalo fare un'intervista a Francesco Schettino, perché le interviste non si fanno solo ai bravi ragazzi (anzi, le interviste migliori sono quelle fatte ai villain); e poi, perché di interviste pagate fior di quattrini da televisioni, newsmagazine, rotocalchi e quotidiani ce ne sono state millanta, nel nostro Paese, anche se se adesso tutti fanno finta di non ricordarselo. Ilaria Cavo secondo me ha fatto un serio lavoro giornalistico e (a parte le musichette messe in montaggio) adesso so qualcosa di più su Schettino, sulla sua personalità, sul fatto che l'orrido vigliaccone è stato il frontman di una catena di comando che non stava in piedi.
Ma neanche Schettino è servito a risollevare gli ascolti di Quinta colonna. Canale 5 ieri è passato dal 21% dell'ultimo minuto di Veline al 15% della fascia pubblicitaria, per poi scendere all'11-12% all'inizio dell'intervista a Schettino.
Il paradosso sta nel fatto che la media d'ascolto sarebbe stata un po' più alta se non ci fosse stato il crollo al 9% della seconda parte, quella dedicata agli orrori della Diaz. Una lunga pagina di critica (cauta) all'operato della polizia che non ha incontrato il suo pubblico di riferimento. Un pubblico che l'ha rifiutata perché "era su Canale 5". [Mentre lo zoccolo Mediaset è andato tutto sulla coda di Mammoni, che ha fatto il picco]. La scorsa settimana la fascia di seconda serata del programma aveva chiuso al 15%.
Con Quinta colonna si conferma il fatto che Mediaset ha un problema di identità e di brand, che paga soprattutto sul pubblico interessato all'informazione (che è un pubblico, volenti o nolenti, di sinistra o di centro-sinistra o grillinabile). Ogni suo spostamento, sia pur felpato e "molecolare" rispetto a questo vissuto dà qualche risultato soltanto quando è lungamente iterato (com'è nel caso di Tgcom24 o del nuovo Tg4).
Il problema è pesante come un macigno ed è politico, e ha il nome del suo fondatore. La prossima campagna elettorale potrebbe aggravarlo. Stavolta gli interessi di Silvio Berlusconi e della sua azienda divergono, visto che comunque non è prevedibile una vittoria della destra. Certo, potrebbe dire il fondatore: sostenetemi e avrò una pattuglia parlamentare che impedirà ogni incursione contro Mediaset. Ma è una tattica difensiva che non ha respiro. Una grande azienda di comunicazione, in una situazione di grandi cambiamenti com'è quella che stiamo vivendo, o parla a tutto il Paese o non è. E lo "spirito del tempo" oggi va da un'altra parte. Come si è già detto, hic Rhodus, hic salta.

martedì 10 luglio 2012

Chi ha paura della social tv?


La schermata che richiama Salto su France télévision.

Mentre da noi la fiction sulle Nomine Rai è solo alla seconda puntata (che si preannuncia abbastanza action, un po’ 24) nel resto d’Europa le tv pubbliche stanno ragionando su come riorganizzare le proprie piattaforme in previsione dello sbarco in grande stile dei colossi della Rete (Apple, Google ecc.), delle formule tipo Netflix e della sempre maggior diffusione dell’ascolto differito. In questo quadro il rapporto con i social network è fondamentale: sono nemici da battere, come sembrano credere i broadcaster italiani (Rai e Mediaset tendono a disincentivare, come policy, la citazione dei loghi di Facebook e Twitter nelle trasmissioni), o possibili alleati? Il second screen  è un pericolo o un’opportunità?
La tv pubblica francese ha appena lanciato Salto, una piattaforma di time shifting utilizzabile da chiunque abbia una tv di nuova generazione, connessa al Web (bastano 1,5 Mega). Funziona così: se facendo zapping incontri un programma che ti piace, anche se è già iniziato da un’ora, grazie a Salto puoi vederlo dall’inizio (e tornare sulla diretta quando ti pare). Una cosa semplice, intuitiva e interessante per gli inserzionisti. Funziona per France 2, France 3, France 4 e France 5, dalle otto di sera in poi. Naturalmente potete condividere con facebook e twitter e commentare in diretta.
Intanto M6 ha lanciato nel suo Replay il servizio Devant ma TV, con il quale sarà possibile interagire con le sue trasmissioni utilizzando uno smartphone o un tablet. Grazie al riconoscimento sonoro l’applicazione (per ora è per iPhone e  iPad) consente di sincronizzare il mobile (telefono o tablet) e il televisore, gestendo così un sistema integrato di “social tv”.
Twittando o scrivendo su facebook il telespettatore potrà dire la sua, partecipare a un sondaggio o comperare un prodotto in tempo reale. Sveglia, ragazzi.

mercoledì 4 luglio 2012

Perché Newsroom non parla di noi (o forse sì)


Il cast di The Newsroom, la nuova serie HBO scritta da Aaron Sorkin.


Da qualche settimana, su quotidiani, settimanali e blog (americani e non) è nato un nuovo genere letterario: la recensione a The Newsroom, la nuova serie tv firmata da Aaron Sorkin. Come in una tesina universitaria, chi scrive su Sorkin deve esibire il lasciapassare dei propri strumenti culturali. Dalla mitologia alla tragedia, alle regole del witz. E la ragione è che Sorkin è un grande scrittore e non solo un grande showrunner. Un grande scrittore, peraltro, fissato con il dietro le quinte: della politica (The West Wing), dell'intrattenimento tv (Studio 60), del successo di un'idea (Social Network), di un programma sportivo (Sports Night) e ora di un telegiornale (The Newsroom). Sorkin ha capito da tempo (fino a farne un’ossessione) che lo squilibrio, la dialettica tra interessi e comunicazione, tra immagine percepita e realtà dei conflitti è centrale nella nostra epoca (o forse in tutte le epoche, con la differenza che nella società di massa questo squilibrio si chiama audience e target).
Commentando The Newsroom in un tweet, un detrattore di lusso come Bret Easton Ellis l’altro giorno ha definito Sorkin “un Neal Simon che ha preso il crack”. Il che se non altro dimostra che lo considera, a suo modo, un drammaturgo.
Aaron Sorkin.
Il plot di The Newsroom (Jeff Daniels è l’anchorman del telegiornale serale di una rete All News, Emily Mortimer è la sua Executive Producer, oltre che ex fidanzata amata/odiata, Jim e Don sono i due galletti nel pollaio, Maggie è la preda) non è davvero comprensibile se non si conosce (per lavoro o per frequentazione da spettatori televisivi) la storia dei telegiornali americani. Che sono (erano) l’esatto opposto dei nostri.
Nel teaser di The Newsroom appare per un attimo alle spalle di Will la gigantografia di Edward R. Murrow. Il mito (o perlomeno il mito newyorchese) del giornalismo televisivo americano. Un mestiere che si considerava a tutti gli effetti una missione, con tutto il corredo di princìpi che vi potete immaginare e che Sorkin fa vomitare (sempre nel suo stile) a Mackenzie/Emily Mortimer durante il suo incontro-scontro con Will. Informare l’opinione pubblica, renderla capace di fare delle scelte ecc. E in effetti, da Murrow nel suo epico scontro con McCarthy ai tempi della caccia alle streghe a Walter Cronkite che con una battuta manda in crisi la resistenza nixoniana durante la guerra del Vietnam, fino all’incidente con l’esercito americano che costò il posto a Dan Rather, il ruolo del telegiornalismo in America negli anni d'oro era considerato sacro e inviolabile. Al servizio della verità. (Con una buona dose di sicumera, va detto). Certo non passavano il tempo a rispondere al telefono ai segretari dei partiti.
Edward Murrow.
Ma l’altro elemento (spesso sottovalutato) della tradizione americana del telegiornalismo è la diarchia tra anchorman e producer. Qualcosa che è intraducibile in italiano, perché non esistono i sinonimi. In America non esiste l’ordine dei giornalisti, il producer non è il produttore o l’organizzatore ma il responsabile della messa in scena televisiva e del suo risultato (quindi è strategico sui contenuti), ha un competenza specifica (sul linguaggio televisivo specifico, sui suoi aspetti tecnici e produttivi ma anche sull’efficacia della comunicazione) Nelle news italiane non ha un equivalente. Come dice Mackenzie prima della messa in onda, “durante lo show sono io che comando”. E Mackenzie vuole rilanciare il giornalismo “al servizio della verità”.
Quanto di quella visione romantico-elitaria-newyorchese del “reparto notizie” (come veniva tradotta  nell’adattamento italiano di Quinto potere 36 anni fa) esista ancora è difficile dirlo. La CNN, unbiased (e noiosetta) è in profonda crisi, l’America è divisa tra Fox (repubblicana-tea party- un po’ Libero e un po’ Giornale) e Msnbc (democratica-liberal, filo Obama). E il non più giovane Will/Jeff Daniels va avanti a tranquillanti. 
Perché in questa crisi anche negli Stati Uniti l'antica formula del “sopra le parti” mostra ormai qualche crepa. In un’intervista Sorkin ha fatto un esempio: “Se tutto lo stato maggiore repubblicano un giorno si presentasse ad annunciare che la Terra è piatta, il titolo del New York Times del giorno dopo sarebbe ‘Democratici e Repubblicani hanno opinioni diverse sulla forma della Terra’”.

lunedì 2 luglio 2012

Freccero e la tv per Dummies (1)


Carlo Freccero.


Sabato scorso Carlo Freccero, istigato dal gruppo di Fazio che aveva organizzato “Ideona”, il convegno degli autori tv che si è tenuto per quattro giorni a Savona, ha tenuto un’affollata conferenza-lezione dal titolo molto how-to: “Le sette regole d’oro per un programma di successo”. Non ho resistito alla tentazione di proporvene una trascrizione, assolutamente parziale (e non controllata dall’autore).  Per assoluta mancanza di spazio qui vi riporto soltanto la prima regola. More to come.

“L’ideazione nasce sempre e comunque da un perimetro di costrizione. E’ come il melò: più costrizioni ci sono, più si ama una persona. Pensare di potersi presentare semplicemente dicendo “ho un’idea” è una cosa che detesto, non vuol dire nulla. Per chi hai pensato quell’idea? Per quale rete? Per quale fascia oraria? Per quale motivo? Occorre sempre perimetrare la creatività: più è perimetrata, più sarà vivida e flamboyant.
La prima regola è fatta di quattro a priori:
1. La linea editoriale della rete: in questo panorama in cui ci sono reti generaliste, reti tematiche e tante altre cose, occorre subito stabilire da che luogo noi parliamo. Situarsi nel campo di battaglia. Anche adesso che le reti sono spappolate, anche adesso che sono una marmellata.
Ogni rete ha la sua storia, una sua identità.
E’ come nella moda. Anche Galliano, se va a lavorare per una certa maison, deve in qualche modo rispettare queste regole. Non può fare l’eccentrico ma deve in qualche modo ripercorrere la memoria storica della maison. Lui ha fatto una battuta sbagliata ed ha dovuto lasciare la Casa.
2. Qual è lo scenario competitivo nel quale bisogna emergere e gareggiare? Farò un esempio classico. Come sono nate le serie tv con un running plot (cioé con una narrazione autoconclusiva affiancata da un racconto dello sviluppo dei personaggi nelle varie puntate)? E’ molto semplice. Negli anni ’80 è apparso Dallas, la prima soap opera di prime time in America, con un ascolto incredibile. E tutti gli autori di poliziesco si sono messi le mani nei capelli. Come si poteva rispondere a questo successo? Anche perché il poliziesco è il genere principale della fiction americana. E allora hanno inventato una serie come Hill Street Blues dove, accanto al caso di puntata, si sviluppavano tutte le storie dei vari protagonisti della serie.
Francesco Guccini e Caterina Caselli durante il Concerto per l'Emilia.
Lo scenario è fondamentale: perché la televisione, lo dico con tristezza, lavora sull’audience. Non c’è mai un superlativo, “bellissimo, straordinario, indimenticabile”, come al cinema. CSI nel 2006 fa un ascolto incredibile e allora la concorrenza inventa il Dr House: è un medical drama che però è un poliziesco. E, tra parentesi, usa le stesse immagini di sintesi di CSI.
Altro esempio: il sabato negli Stati Uniti non si fanno più programmi, solo sport o repliche o programmi locali. E anche in Italia i grandi show non vanno più al sabato. Perché il pubblico che conta a livello pubblicitario il sabato non c’è.
Bisogna avere l’umiltà di capire quindi che un programma come C’è posta per te, che a qualcuno magari può sembrare rivoltante, è invece il programma che spiega molto bene cos’è il sabato sera: rimane a casa solo un certo tipo di pubblico. E su questo pubblico C’è posta per te riesce a splendere e luccicare. Sarebbe un errore contrapporgli un programma più festoso.
3. Il marketing “culturale”. In questo senso sono figlio di Guglielmi. Lo spirito del tempo indica l’insieme delle mode, dei tic, delle credenze, delle tendenze. Ogni epoca ha la sua tv. La tv del 2000, in pieno liberismo, in cui si pensava che l’individuo fosse al centro del mondo, non può che produrre il reality. Il reality è l’orgia della filosofia liberista applicata alla tv. Cui si contrappone la “tv verità”, la tv del sociale, la tv del “noi” contrapposta alla tv dell’”io”.  C’è una famosa espressione di Serge Daney, un critico cinematografico dei Cahiers du cinéma: la tv è l’inconscio a cielo aperto. Un’espressione che ha le radici in Miti d’oggi di Roland Barthes.
Lo spettacolo, la moda, sono la schiuma, l’immaginario della società. Negli anni in cui la televisione era tutto un reality anche la vicenda della morte di Papa Wojtyla è stata vissuta come un reality. Wojtyla sapeva fare missione, era un genio.
Fazio ad esempio: fa i suoi grandi spettacoli, da Vieni via con me a Quello che (non) ho, sempre in periodi di crisi. Se non ci fosse stata la crisi non avrebbero avuto questo effetto dirompente. In un momento di ottimismo questi programmi sarebbero stati sbagliati. Lo spirito del tempo: bisogna capire in che momento siamo. L’unico spettacolo di Raiuno che mi ha colpito quest’anno è stato il Concerto per l’Emilia. Perché funzionava così bene? Perché era molto “archivio”, nostalgia, ma anche perché rappresentava lo spirito del tempo. Rockpolitik è stato fatto nel momento massimo del berlusconismo. E Celentano (scusate se faccio questo esempio anche se oggi sono di destra) costruisce questo programma come una chiesa in cui tutti possono ritrovare sollievo. E’ il momento giusto.
4. Budget. Non si può fare qualcosa senza avere un budget.
Sono le quattro cose rispetto alle quali ogni autore deve in qualche modo fare opera di modestia, non essere autobiografico. “
(continua)