mercoledì 31 ottobre 2012

Usa: se il GF e X Factor stanno con Obama



L’idea che la televisione americana, rispetto alla nostra, sia totalmente unbiased, cioè non penda per l’uno o per l’altro dei candidati alle elezioni, sembra un po’ ridimensionata da una ricerca fatta da Chris Wilson per Yahoo News (la segnalazione mi è stata fatta da Guia Soncini, che sentitamente ringrazio).
E’ successo questo: fin da agosto la potente FCC (Federal Communications Commission, l’authority di controllo federale sui media) ha imposto alle emittenti tv delle 50 piazze più importanti (“the top 50 markets”) di comunicarle la messa in onda di tutti gli spot politici che via via venivano acquistati dai due partiti. I risultati non rivelano direttamente le opinioni politiche di chi ha realizzato ogni singolo programma, ma danno comunque il senso di quali trasmissioni siano state scelte dai due candidati e dai rispettivi spin doctor per veicolare meglio i loro messaggi.
X Factor versione Usa (Fox). ha ospitato quasi unicamente
spot elettorali pro Obama.
I dati non sono precisi al 100%, perché anche nell’America supertecnologica le emittenti locali (ricordo che negli Stati Uniti i grandi network sono vere e proprie reti, appunto, di emittenti locali che mantengono, quasi tutte, la loro autonomia) hanno mandato delle informazioni cartacee, che sono state scannerizzate e trasformate in pdf, quindi è molto difficile -spiega Wilson- creare un database affidabile.
Tra l’altro, mentre gli spot a favore di Obama sono stati comperati quasi sempre dai responsabili del Partito Democratico, quelli per Romney molto spesso sono il frutto di acquisti fatti da gruppi esterni di sostenitori. Comunque, se volete divertirvi, 
Lo show di Andy Griffith: va in onda da 50
anni su CBS. Spot quasi tutti pro Romney.
Wilson ha pubblicato un'infografica interattiva che vi dice su quali programmi  hanno puntato di più i repubblicani e su quali i democratici. Una buona cartina al tornasole per capire gli orientamenti, almeno presunti, di chi guarda i singoli show o telegiornali. (Oppure di quali siano le fasce di elettorato potenzialmente “mobili”). Vengono fuori cose interessanti, ad esempio: Letterman ha una (stretta) prevalenza di spot pro Obama (e ci saremmo arrivati da soli), l’Andy Griffith Show è pieno di spot pro Romney (e anche qui nessuna novità). Più curiosi altri dati: X Factor ha ospitato quasi solo spot democratici, il telegiornale della CBS più democratici che repubblicani, quello della NBC, curiosamente, molto più repubblicani che democratici, Seinfeld è un monocolore pro Obama, The Good Wife raccoglie spot in sostanziale pareggio tra i due partiti. E il Grande Fratello? Attento Garrone: in America ospita al 90% propaganda pro Democratici. Forse l'idea è di puntare tutto sugli elettori giovani. E la Ruota della Fortuna? Qui Romney non ha rivali: 784 spot in suo favore contro i 487 pro Obama. Bisognerà dirlo a Renzi.


Mamme, papà, fantagenitori e padri conigli


Timmy, i suoi genitori e la temibile baby-sitter Vicky (The Fairly OddParents, Nickelodeon).
[Avvertenza: questo post è riservato ai genitori].

Chiunque abbia figli dai 4 ai 10 anni è abituato a quotidiane discussioni sulla questione bambini e tv. Non mi sono mai piaciuti gli atteggiamenti apocalittici nell'affrontare il tema. Spesso si tratta di un modo per scaricare su un nemico esterno le tensioni familiari. Dal baby boom in poi esiste una sterminata letteratura, in cui cambiano gli imputati ma l’atto d’accusa è sempre lo stesso: “i nostri figli sono esposti ad un intrattenimento diseducativo da parte dei media”. 
E’ toccato, nel tempo, alla radio (anni ’30), ai fumetti (anni ’40-’50) e in seguito alla televisione (tuttora imputata, ma adesso in cooperativa con web e videogiochi). Paradossalmente – ma neanche tanto- le ire si rivolgono sempre verso i media tecnologicamente più “freschi”. Nessuno oggi si sognerebbe di polemizzare con il modo in cui la factory Disney raccontò la favola di Biancaneve 75 anni fa. Eppure all’epoca il film fu proibito in paesi come la Gran Bretagna, e non si contavano gli shock tra i bambini in età prescolare causati dalla scena (bellissima) della fuga nel bosco. In una celebre raccolta di saggi pubblicata negli anni sessanta, The Funnies, An American Idiom (a cura di David Manning White e Robert H. Abel, Free Press of Glencoe, 1963) un capitolo era intitolato, sagacemente “I bambini fanno male ai fumetti?”, invertendo così l’onere della prova.
Papà Richard ne Lo straordinario mondo di Gumball.
Quindi nessun problema? No, sarebbe troppo semplice. La differenza tra i dibattiti più o meno isterici che si svilupparono nel secolo scorso e quelli odierni non sta nei media in sé ma nell’altro lato del problema, e cioè la famiglia. Non occorre snocciolare statistiche per sapere che oggi il nucleo familiare molto spesso va in crisi quando ancora i figli sono in età prescolare. Ma la televisione come parcheggio non custodito, senza possibilità di dialettizzarne i contenuti con uno o entrambi i genitori diventa un medium sostanzialmente diverso. Il rapporto tra il programma tv e il bambino spesso non è più mediato da presenze parentali, come dicono gli educatori nel loro inquietante slang.
Cosa succede, allora? Succede che i principali produttori americani di serie animate per bambini  (Cartoon Network e Nickelodeon) si adeguino rappresentando, quasi introiettando nei soggetti delle nuove serie, come modello di riferimento, la famiglia in crisi. Operazione legittima, in alcuni casi perfino utile. Ma quel modello ha come precondizione, per rappresentarsi come normale, l’alleggerimento delle imago parentali idealizzate. Con tutti i rischi di frustrazioni e di conseguenti “disordini narcisistici del carattere” del bambino, come diceva Kohut. E la vedo dura anche per il principio di autorità.
In parole povere: papà e mamma litigano perché sono un po’ scemi, comunque dobbiamo voler loro bene. 
I fantagenitori Cosmo e Wanda salvano Timmy.
Ed ecco il moltiplicarsi di serie (anche di ottima scrittura, piene di ironia), al cui centro è lo stereotipo del bumbling father, o dei bumbling parents. Per bumbling gli americani intendono maldestro, imbranato. Lo schema classico è: padre maldestro e pasticcione/bambinone/perdente, mamma capofamiglia e detentrice delle regole. La sottospecie è peggio: genitori entrambi maldestri ed egoriferiti, con la necessità di figure parentali sostitutive e di elementi normativi esterni. E’ il caso, appunto, di Due fantagenitori (The Fairly OddParents, creato undici anni fa da Butch Hartman per Nickelodeon). 
Si dirà: ma già i Simpson, più di vent’anni fa avevano proposto un bumbling father (Homer, naturalmente). Però i Simpson sono considerati, nei palinsesti americani, una sitcom destinata alla famiglia e non ad un pubblico eminentemente infantile. E poi nel plot standard di un episodio dei Simpson la crisi viene risolta all’interno della dialettica familiare (con i due elementi normativi, madre e figlia maggiore, che risolvono la situazione). E il personaggio di Homer (anche se non troppo lontano da una realtà sociale palpabile in qualunque città americana) è raccontato con una forte accentuazione dei suoi caratteri grotteschi, di straordinarietà. Cioè Homer non è tuo padre, è Homer. (Anche se magari tuo pare gli somiglia).
Nelle serie prodotte oggi dai canali per bambini le cose sono molto diverse. Il ruolo idealizzato dei genitori viene sostanzialmente messo in discussione. Probabilmente perché, almeno negli Stati Uniti, la famiglia alla Simpson è già un’eccezione positiva. Non mi riferisco solo a The Fairly Oddparens (in cui non si può non notare qua e là un certo cinismo dell’autore).

La famiglia Watterson quasi al completo, con papà Richard, Gumball, Darwin e mamma Nicole
(Cartoon Network).
In una serie di grande eleganza visiva e anche narrativa, Gumball (The Amazing World of Gumball, creato l'anno scorso da Ben Bocquelet per Cartoon Network), il padre è un coniglio rosa –vigliacco e deresponsabilizzato quanto può esserlo un coniglio- e i due figli sono uno un gatto (Gumball) e l’altro un pesce con le gambe (Darwin), in un sobborgo di freaks (dinosauri, ecc.) che rappresenta lo spaesamento della multiculturalità.
Che dire? Si tratta i prodotti non banali, che andrebbero però visti, almeno all’inizio, in compagnia dei figli, e in dosi controllate: per fornire una chiave di lettura non ansiogena e per modulare con i figli il concetto di “normalità” familiare che tendono ad affermare.

Quelle serie tendono a rassicurare un pubblico infantile che vive già in un universo in cui la famiglia tradizionale si è dissolta. Il messaggio è molto simile a quello che la realtà forniva ai figli delle famiglie distrutte in tempo di guerra: devi cavartela da solo, imparare dalla vita, essere tu la fonte ultima del principio di autorità. Spaventoso? Neanche tanto, visto che spesso è così. Ma almeno sappiamolo.
Poi potremo anche gradire i giochi linguistici e le raffinate citazioni presenti in queste serie. 
Anche perché, mentre i canali americani mandano questi cartoon ad intervalli precisi, sul nostro digitale terrestre serie come Due Fantagenitori vanno in onda quasi “a rullo”, con la possibilità che lo stesso bambino le veda anche quattro volte nello stesso giorno. E cioè per un tempo molto superiore a quello che, nell’arco della giornata, un genitore potrà dedicare alla visione dei canali cartoon assieme ai figli.

venerdì 26 ottobre 2012

Michele e l'usato sicuro

Michele Santoro e Vauro dopo la prima puntata di Servizio Pubblico, su La7.

La prima puntata della nuova serie di Servizio pubblico, ospitata da La7, ha raccolto quasi il 13% dei telespettatori, un indubbio (e atteso) successo per la rete di Telecom. L'impressione è che Santoro abbia scelto di battere strade già conosciute piuttosto che avviarsi in insidiose sperimentazioni. Chi lascia la via vecchia per la nuova, ecc. Sarà una scelta giusta, nel lungo periodo? Ripropongo qui il post che ho pubblicato ieri sera sull'Huffington Post, a "urne aperte", e cioé prima dei risultati Auditel.


Domani Michele Santoro potrà essere soddisfatto degli ascolti. Ma è tutto usato sicuro. La prima puntata di Servizio pubblico in versione La7 si è sorretta interamente sul carisma di Santoro, sulla sua lucidità senatoriale (che gli consente di mettersi 'ncoppa, come direbbero a Napoli, agli interlocutori). Per il resto, a parte il talent dei leader - non pervenuto - e il liquid feedback, il grande autore del melodramma politico italiano si è basato più su pezzi di bravura che su qualche invenzione televisiva.
Michele Santoro è da sempre il Mozart del talk politico italiano. La sua assoluta conoscenza del pubblico televisivo, la sua totale padronanza del pentagramma politico gli hanno consentito di produrre, in tante occasioni, luminose invenzioni narrative, coloriture orchestrali e romanze indimenticabili. Ma il Santoro-Mozart di stasera era un po' il Mozart della Clemenza di Tito. Geniale la citazione dell'inno di Forza Italia nell'ouverture. Ma per il resto, la scrittura è sembrata un po' frettolosa.

Anzi, la prima parte dell'interminabile confronto a tra fra Renzi, Fini e Della Valle ha avuto momenti di inaspettata lentezza. Dopo le 23.15, all'inizio del terzo atto, c'è stato un cambio di passo, dall'andante all'allegro, grazie al mattinale di Travaglio e alle incursioni delle soliste (Luisella Costamagna in studio e Giulia Innocenzi all'inseguimento di Monti, come neanche il miglior Ballantini di Striscia la notizia. Mancavano solo le risate finte). La Costamagna ha sperimentato un nuovo genere, la domanda in apnea. L'obiettivo era quello di dimostrare che dietro il sorriso del nuovista Renzi ci fossero gli stessi peccati dell'ultrasessantenne D'Alema. Ma il meccanismo si è avviluppato in se stesso ed è finita lì.
Rispetto al "povero Formigli" (cit.) Michele può certamente contare su un ben maggiore carisma e una tagliente velocità tattica, ma a Piazza Pulita, pur basata sulla lezione del Maestro, vanno riconosciute alcune soluzioni e sonorità nuove (certi servizi, la scelta di certi ospiti, il ritmo generale).
Amadeus Santoro si è tenuto alla fine l'acuto che fa venir giù il teatro: in questo caso, l'intervista a Ruby. Preceduta dall'annuncio che nel suo personale talent dei politici (ma assomiglia più alle votazioni del GF, molto Endemol old style) il primo nominato era stato Alfano. Mentre Berlusconi anche stavolta aveva retto.
E' solo un'illusione, Michele. Silvio è tornato ad Arcore, ma quasi da privato cittadino. Le Ruby in dispensa sono quasi finite. Toccherà inventarsi qualcosa di nuovo, per reggere alla lunga.

UPDATE: Con la ridiscesa in campo di Berlusconi Michele Santoro potrà dormire sonni tranquilli, almeno dal punto di vista dell'audience. D'altronde, in questo Paese la realtà supera sempre la fantasia.

mercoledì 24 ottobre 2012

Glenville: oltre 100mila. Con un regalo



Glenville ha superato ieri le centomila visualizzazioni complessive. Grazie a tutti.


Per chi ci segue ho un piccolo regalo, un segmento in gran parte inedito di un documentario sulla nascita della tv che ho realizzato qualche anno fa. Si scopre che anche gli italiani, nonostante la dittatura, hanno partecipato alla nascita della televisione negli anni trenta. In Italia e, da emigrati, in America. Alcune immagini non sono mai state proposte in tv. (E' un premontato, non lo trovate su Youtube, c'è anche una sequenza di repertorio in inglese).



Sequenza inedita dalla versione internazionale di Radiovisione: la preistoria della tv (2007).
Regia mia e di Riccardo Cremona. La voce è di Riccardo Mei.
Purtroppo per ora la piattaforma blogger di Google non consente lo streaming sui
dispositivi iOS (iPhone e iPad).








domenica 21 ottobre 2012

Elogio di Costantino (della Gherardesca)


Costantino della Gherardesca.

In un Paese normale Costantino della Gherardesca sarebbe una star di prima grandezza. Dopo una dozzina d'anni di presenza in tv (il suo talent scout è stato Chiambretti, onore al merito) la tv generalista pare averlo scoperto oggi, dopo (diciamo dopo perché il programma è già stato registrato) Pechino Express.
Costantino della Gherardesca è proprio una delle cose che mancava a Raidue. Un essere pensante, che riesce a far transitare la sua ironia su un pubblico più vasto della nicchia nella quale aveva agito fino ad ora, una persona colta (e questo è un registro trascurato da tanti anni, ma che sul pubblico Rai ha sempre costituito un atout); della Gherardesca non scade mai nella macchietta, ha una solidità di fondo che, quando ha l'opportunità per emergere, esce fuori.
Costantino della Gherardesca e il nipote Barù.
Ho sempre pensato che i programmi tv (e anche i conduttori e i cast) assomiglino a chi dirige il canale o il genere. A ignorante, ignorante e mezzo. A persona intelligente, talent con vivacità intellettuale. Vale per tutte le tv, pubbliche e private. Dimenticatevi Auditel, marketing ecc. Alla fine è il padrone di casa che sceglie, in base a criteri suoi. Altrimenti non si spiegherebbe perché, a decenni di donne conduttrici (nate tra l'altro in un'Italia molto più maschilista di quella attuale) siano succedute, nell'ultimo quindicennio, pletore di ex vallette che non sapevano guardare più in là del loro naso. (Con le dovute eccezioni, naturalmente. Ma non sono neanche tante, le eccezioni). Anche per i protagonisti maschili vale lo stesso ragionamento. Sperando in una Rai de-bungabunghizzata, Costantino della Gherardesca potrebbe avere un bel futuro davanti a sé.

giovedì 18 ottobre 2012

Il periodo d'oro della Apple: durerà in eterno?


La coda per conquistare uno dei primi iPhone 5 in un Apple Store.

Quale sarà il futuro di Apple? Nel momento del suo massimo fulgore, la compagnia più ricca del mondo, la stessa che sta per lanciare, martedì prossimo, il nuovo iPad Mini, comincia a suscitare interrogativi negli investitori. E non perché vada male, anzi, va da Dio. La vera domanda è: quanto potrà continuare una crescita così impressionante? Quand’è che Apple diventerà una company “come le altre”? La “spinta propulsiva” di Steve Jobs durerà in eterno? Cook e i nuovi manager sapranno rinnovare la sua capacità visionaria? O si metteranno semplicemente a “fare i conti”? Perché non è con la diligenza che Apple è diventata Apple.
Tim Cook, CEO di Apple.
Vediamo.
1. Chiunque oggi è in grado di ricordarci che Apple non è più un’azienda di computer. I due terzi dei profitti di Apple vengono dall’iPhone. Poi viene l’iPad, e per ultimi i computer Mac. Perché l’iPhone ha un margine di profitto superiore al 50%. Questi dati sono venuti fuori durante la causa con la Samsung. Mentre prodotti molto buoni come il Kindle Fire vengono venduti quasi in perdita, pur di inondare il mercato. Ma perché l’iPhone può permettersi margini così alti? Perché è un ottimo prodotto, certamente. Ha un design imbattibile. E' basato su un sistema operativo chiuso ma molto più stabile e sicuro di Android. Ma il vero jolly è l’effetto alone che il brand Apple ha saputo costruire in questi anni.
Effetto dovuto alle scelte strategiche fondamentali di Jobs, quelle cioé di fare di Apple una hardware company che è prima di tutto una hardware design company. Cioé una società che inventa e possiede le idee che stanno alla base dei propri prodotti: hardware e software per farlo girare. I prodotti Apple devono perciò essere più belli degli altri, più ergonomici degli altri, più eleganti degli altri. E funzionare meglio.
Foxconn: una linea di assemblaggio degli iPhone 5.
La forza di Apple sta nel fatto che, a differenza degli altri giganti dell'era di internet come Google, Facebook, ecc. costruisce cose fisiche, tangibili e che puoi vendere. Ad alto prezzo. Cose fisiche che sono pensate in California, vendute attraverso gli Apple Store -quei posti più simili al MoMA che a un negozio di elettronica e che costituiscono una delle grandi invenzioni di Jobs. Ma costruite in Cina. Apple impiega 47mila persone negli Stati Uniti e 250mila in Cina, come ha ricordato Obama.
2. Ma l’effetto alone che consente ad Apple questo fenomenale ricarico sarà sempre più minacciato:
a.Il telefono a touch screen ormai lo possono realizzare tutti (e da qui la serie di cause contro la Samsung).
b. Foxconn & C. sono aziende le cui condizioni di lavoro e retribuzioni fanno sembrare Mirafiori un resort a 5 stelle: ma non durerà in eterno. 
b. Se il tuo modello di business è basato sull’integrazione verticale, se cioè vuoi essere originale e autosufficiente in tutto, dal sistema operativo alle applicazioni, devi riuscire a fare tutto meglio degli altri. Cosa che non sempre avviene: ad esempio, le nuove mappe di Apple per ora sono un disastro rispetto a quelle di Google; i tuoi software dovrebbero essere sempre efficienti, ciò che iTunes, ad esempio, non è, per non parlare del modello di Cloud proposto da Apple, che va semplicemente ad affiancarsi ad un modello di storaggio interno ai device (a differenza di quello di Google); se Siri promette di capirti sempre, spesso scoprirai che si tratta di promessa fallace, almeno per ora, ecc.
Dieter Rams, designer della Braun negli anni sessanta. La linea modernista imposta da Jonathan Ive
ad Apple ha le radici nel suo stile rigoroso ed elegante.

c. E il design? Il design è stata la grande cosa di Jobs. Soprattutto quando ha abbandonato lo stile post-moderno dei primi iMac colorati ed è passato a quello stile minimalista-modernista che ha molti debiti nei confronti dei grandi designer della Braun degli anni sessanta (e nelle idee geniali dell'Olivetti degli anni d'oro).
Nitore, eleganza, precisione. Ma non è detto che lo stacco di stile rispetto alla concorrenza non venga, prima o poi, superato da qualche newcomer. I più vecchi ricorderanno che un ventennio fa lo stile Sony era considerato ineguagliabile e consentiva all’azienda giapponese un sostanziale sovrapprezzo dei suoi prodotti rispetto a quelli della concorrenza.
Una vecchia calcolatrice Braun e la prima App calcolatrice
dell'iPhone.

d. E la lealtà verso i suoi clienti? Apple è comunque, nella memoria dei suoi fruitori, la società che ha prodotto i Mac. E gli “evangelisti”, come dicono gli americani, cioè quelli che hanno fatto proseliti convincendo gli amici che un computer Apple era “un’altra cosa” sono stati per decenni i designer, i grafici, i musicisti, i professionisti del video. Tutti abbandonati da tempo sul bagnasciuga dallo sviluppo della Apple come azienda produttrice di device diversi dal computer e destinati a un più largo pubblico. I Mac Pro non si sa bene se e quando saranno rinnovati, le applicazioni per professionisti come Final Cut ecc. sono state un po’ lasciate alla deriva o trasformate in applicazioni prosumer; tutte le menti migliori di Cupertino sono state impegnate su terreni molto più strategici come, appunto, iPhone e iPad. In più, l’evoluzione dei sistemi operativi Apple rende rapidamente obsolete macchine con più di quattro anni di età, cosa sopportabile per chi compera un telefonino, meno per chi usa un computer per lavorare. Quindi gli evangelisti in questo momento sono discretamente incazzati e tendono a disertare la mensa del Padre.
iPhone 5.

e. Il prossimo passo (obbligato) di questa strategia di integrazione verticale non potrà che essere quello dell’acquisizione dei contenuti, e qui la strada non è semplice. Anche se Apple è piena di soldi, per ora ha dovuto rallentare lo sviluppo della nuova iTv (o come mai si chiamerà) perché non avrebbe senso lanciare un televisore Apple se, oltre che all’uso di Siri e dei gesti per telecomandare l’apparecchio non portasse con sé tutto un ecosistema di contenuti. E cioè, in grande, quello che è stato fatto con le App per iPhone e iPad. Ma un conto è assicurarsi un programmino per cellulari, un gioco o una canzone, un conto è riuscire a legare mani e piedi ai produttori di Hollywood, ai quali non va tanto di finire la loro carriera come camerieri a Cupertino.
E quindi? Per carità, Apple ha mezzi, potenziale di fuoco e idee in archivio per campare benissimo nei prossimi anni. Ma non sarà una passeggiata, e forse abbiamo già assistito agli anni d’oro della casa di Infinite Loop.


martedì 16 ottobre 2012

Oltre la Scimmia: è importante l'immagine?


Checco Zalone a La Scimmia.

Hanno chiuso La Scimmia, non ho capito se è stata una decisione di TaoDue (che si accollava tutti i costi di startup) o della rete. Certo, due settimane sono poche per stabilire se un formato del tutto nuovo gira o non gira, ma questo è l’andazzo generale. Per inciso: sulla base dei risultati delle prime due settimane sarebbero stati chiusi, ai tempi, su Italia Uno: il Karaoke (e adesso non ci ricorderemmo neanche chi è Fiorello); le Iene; Mai dire gol; e Zelig (“Facciamo cabaret”). Non entro nel merito del programma, se funzionasse o meno, perché questo non è un blog di critica televisiva. Era comunque una cosa nuova.
Giulia Bevilacqua, una delle cose migliori
de La Scimmia.

Facendo un discorso un po’più di sistema sono rimasto però sorpreso dal linguaggio un po’ antico (mi riferisco a riprese, montaggio, musiche, post produzione). Tutte cose a cui il pubblico medio della tv generalista non attribuisce particolare importanza, ma che invece sul pubblico giovane, che ha l’occhio molto più esperto, non sono trascurabili. Basta guardare un programma di Mtv, o gli esperimenti di Web Series all’italiana su Youtube, o anche altre cose in giro per le reti per capire che quell’immagine un po’ frolla e polverosa da dvcam Sony stile Grande Fratello ha fatto il suo tempo. E, non a caso, una delle ragioni per le quali un programma inizialmente a rischio come Pechino Express ha dato dei risultati positivi è la qualità delle riprese.

mercoledì 10 ottobre 2012

Glenville: 95mila visualizzazioni

Con la giornata di oggi Glenville ha superato le 95mila visualizzazioni complessive, secondo Blogger. Grazie a tutti.

Celentano: chi vince con il guru

Adriano Celentano durante RockEconomy, trasmesso da Canale 5.


Ripropongo qui il post pubblicato ieri sull'Huffington Post. Mi pare che i risultati di martedì (32% di media, oltre i 9 milioni) confermino le impressioni della prima serata. A conti fatti, Celentano si è divertito e adesso è un padre della patria; dentro Mediaset, Alessandro Salem guadagna un punto; Lucio Presta mette in saccoccia un altro successo (aspettando Benigni su RaiUno); e Mazzi si prende la rivincita rispetto al dopo-Sanremo. La scelta della ex dirigenza Rai- rifiutare il concerto, che era stato proposto a costo zero tranne le riprese, almeno a quanto sostiene la Mori- non sembra sia stata lungimirante. Per Mediaset, invece, è un segnale (per ora effimero): può riacquistare centralità se rottama un po' del passato prossimo, si rinnova e allunga la strada per Arcore (sì, lo so, rottamare è un verbo che andrebbe evitato. Comunque ci siamo capiti).

Il vecchio leone ce l'ha fatta. Abbiamo passato la serata di domenica a ironizzare sui temi della decrescita e del consumismo, agitati nel suo show tra uno spot e l'altro di Canale 5 (pochi spot, in verità: faceva parte dell'accordo) ed ecco che Adriano Celentano si conferma come il vero guru della televisione italiana.
Celentano: il 34% di share sui 25-34 anni.
I dubbi c'erano tutti: potrà fare evento lo show di Celentano se, invece di invadere Raiuno andrà in onda dalle antenne di Mediaset? Rinunciando così a tutta la filiera del bouncing ball politico-mediatico legato all'emittente pubblica? E per di più, a casa del Cavaliere? E poi: il pubblico di Canale 5 accetterà la grammatica sfacciatamente anti-televisiva delle sue scalette, i suoi silenzi alla John Cage lowbrow, il puntiglioso spazio dato ai temi che lui ha più a cuore, le riflessioni conviviali con economisti e giornalisti anti-casta? E lui, intanto, vinceva la sfida.
 Poi dicono la potenza di un brand. Celentano è la nostra Apple. Nel senso che impone il prodotto. Ha un'aura che gli altri si sognano. Può anche stonare qui e là, può subire gli errori di qualche microfonista, può ripetersi e talvolta confondersi, ma unisce gli italiani. E quando canta, non ce n'è per nessuno. E' l'esponente più efficace di quell'ideologia italiana che, nei momenti decisivi, si ritrova attorno ad un pensiero unico. Che oggi non è più quello berlusconiano ma e' quello spiegato da Fitoussi, con il suo impagabile italiano da ispettore Closeau. E poco importa che gli spettatori paganti (poco) dell'Arena di Verona si permettano qualche intemperanza durante l'interminabile chiacchiera sulla crisi. Morandi, animale da palcoscenico, entra, fa il duetto e poi ammonisce l'amico: meglio tornare a cantare.
Morandi e Celentano a RockEconomy.
Ma il Pifferaio magico ne sa una più di Morandi. Perché, mentre nell'Arena qualcuno fischia, di fronte ai televisori accesi la platea continua ad aumentare: e alla fine della prima parte della chiacchiera sulla crisi sale fino al 34%. Un italiano su tre. Neanche uno spettatore, stando ai dati, è andato via durante la tavola quadrata con Rizzo, Stella e l'economista francese. Questo sì che è carisma.
Sbaglia Dagospia a dire che l'hanno visto 9 milioni di pensionati [Dagospia ha in seguito corretto il sommario]: dei giovani tra i 25 e i 34 anni, uno su tre (il 34%) ieri sera ha guardato Celentano. Renzi ancora piange (anche se Fazio è riuscito a tenere benissimo gli ascolti). Ma Celentano che canta e che predica e' un avversario impossibile da battere, altro che primarie. Perché Celentano conosce, come sapienza innata, le regole del bouncing ball: il comportamento dei sistemi basati sul caos. E cioé l'Italia di ieri e di oggi. E probabilmente anche di domani.

lunedì 8 ottobre 2012

Le due Minetti e le due tv

Nicole Minetti ospite di Domenica Live, su Canale 5.

Domenica 7 ottobre è avvenuto un corto circuito molto interessante nel palinsesto della tv generalista. Dopo che Virginia Raffaele si era esibita a Quelli che... nell’imitazione di Nicole Minetti, su Canale 5 è arrivata la vera Minetti, accolta ovviamente a braccia aperte da Alessio Vinci nella prima puntata di Domenica Live.
E’ evidente che la Minetti vera sfrutta gli stessi autori della Minetti finta interpretata dalla Raffaele. A Virginia è venuto perfino il dubbio che si trattasse di plagio (vedi il magistrale tweet che riporto qui in basso).
Virginia Raffaele e Victoria Cabello a Quelli che...
La Minetti, inquadrata già assisa (forse per evitare analogie troppo evidenti con la prossemica di Minetti/Raffaele) ha infilato una serie di luoghi comuni sostenuti da un notevole primo piano. Ma è soprattutto il suo bagaglio lessicale a sembrare rubato di peso dalla reinterpretazione della Raffaele: in quaranta minuti (!) di intervista Nicole Minetti è riuscita a pronunciare un “tre sfumature della stessa persona” (ne mancano 47, ma c’è tempo); due “per antonomasia” (in un contesto lievemente improprio); un “taluna” e un “in primis”, una spruzzata di “quant’altro” e perfino un “momento ludico”. L’unica palla goal è stata quando, vedendo i fotografi assiepati fuoricampo, ha esclamato un autoreferenziale “amici chips”.
In pratica, la dinamica dovrebbe essere questa: la Minetti presenta il conto e comincia a riscuotere; Canale 5 la ritiene un personaggio da ascolto, a costo di scontentare un po’ Alfano e gli apparatchik del Pdl, ormai visti a Cologno come gli ultimi giapponesi di una battaglia persa.
Scampini e Vinci.
Ma il gioco non riesce. Alla fine della maratona in primissimo piano Domenica Live si ferma poco sopra il 10%, sorpassata di oltre sei punti dalla Cuccarini. Cos’è successo? E’ successo che l’ha vista solo lo zoccolo duro di Canale 5, che si conferma essere un pubblico di donne attorno ai 40anni, con un picco sull’istruzione elementare: le figlie di Maria. (Mentre lo zoccolo dei vari segmenti di Domenica In è un pubblico di donne over-65, sempre con un picco sull’istruzione elementare. L’unico programma che si discosta come target è Quelli che...: la Cabello raccoglie consensi sul pubblico giovane e sui laureati).

Il programma di Canale 5 aveva un bello studio; Vinci è molto più in palla qui che nei meandri della politica italiana (ma alla CNN che fanno? Quando uno se ne va gli tolgono un chip dalla nuca?); la Scampini funziona (e potrebbe essere sfruttata meglio); roba ce n’era.  Ma è come quando la maionese non monta. Ah sì, una cosa c’era: in tutti i quaranta minuti di intervista a Nicole Minetti, Alessio Vinci non ha mai nominato Silvio Berlusconi. E salùtame ‘a siennenne.

martedì 2 ottobre 2012

Reality, il box office e la realtà



Il grandissimo Aniello Arena nel confessionale auto-costruito in Reality.
Il box office del primo weekend non ha premiato Reality. Ma tra vent’anni ci ricorderemo del Grande Fratello per il film di Garrone. Un film di rara eleganza e di splendente regia (come gira e monta Garrone nessuno mai, ecc.). Un film che non si può non vedere. 
Forse però un errore di comunicazione, nel promuovere questo film, c'è stato. Ed è stato quello di puntare tutto sull’oggetto (il reality televisivo e in genere il miraggio della promozione sociale attraverso la televisione) piuttosto che sul soggetto (la famiglia e la gemeinschaft italiana in questo crinale storico). Non so se sia un caso, ma mi pare che il lancio francese (rubo il manifesto da un tweet di Giorgio Viali) sposti saggiamente l’attenzione su quest’ultima.
La locandina francese di Reality.
Altrimenti il rischio è che Reality venga interpretato come un meraviglioso film in costume, quasi un musical bollywoodiano che ci parla di un’Italia che non esiste più, o che comunque, se esiste, non è più maggioritaria. Luciano e Maria oggi non sognano l’ascesa sociale nella Casa, ma si rassicurano nelle loro angosce piangendo con gli ospiti di Maria. Il sogno del GF è finito, assieme a tanti altri sogni di questo ventennio.
Ma il film di Matteo Garrone è molto più di questo. E’ un racconto fatto con la pazienza dell’entomologo e la precisione del chirurgo. Il problema è che entrambe queste difficili professioni si esercitano meglio sui corpi morti, ed in questo senso Reality può essere vissuto come una morgue di lusso.
Ciò che è necessario fare è sollevare lo sguardo dal corpo morto e seguire la dinamica attorno al luogo del delitto: e l’umanità dolente di Garrone è il vero racconto, tuttora non caduco, del film. Insomma, fatta pari a 100 la radiazione che proviene dallo schermo, rifletta l’esaminando sul perché l’esposizione ai raggi dei reality ha prodotto nella società italiana mutazioni più significative rispetto a ciò che è avvenuto in altre parti d’Europa.  [E più simili a cose viste in altre parti, meno fortunate, del mondo. Ricordo, en passant, il successo che ha avuto nelle Filippine la versione di Pinoy Big Brother con protagonisti ragazzini in età puberale.]


Valuti il candidato assonanze e dissonanze rispetto alle esperienze straniere. E concluda riflettendo sui mali endemici della società italiana. Per la quale Antonio Gramsci utilizzava sì la categoria di società civile, ma con qualche riferimento alla Russia zarista, dove la società civile, appunto, era “primordiale e gelatinosa”.