venerdì 28 dicembre 2012

Le 10 regole d'oro per fare campagna in tv

Discorso sul metodo tra Silvio Berlusconi e Massimo Giletti a Domenica In/L'arena.

Cari candidati alle elezioni, 
commentatori assai stimabili come Beppe Severgnini e Filippo Sensi (@nomfup) vogliono consigliarvi come utilizzare twitter. Sappiate che qualche mese fa sono venuti a Roma, al FictionFest, un po' di ragazzi della Bbc a spiegarci cos'hanno capito loro dopo due anni di lavoro su twitter per la tv britannica. Udite udite, hanno capito che se un programma, un argomento, un personaggio fa discutere se ne discuterà anche su twitter. Altrimenti, nisba. Anche i consulenti più abili non ce la faranno a farlo vivere nei tweet. Bella scoperta, eh? Oddio, i misteri della tastiera ios, quelli magari ve li potranno spiegare. Ad esempio, come si fa ad ottenere una i accentata, Senatore. Il resto appartiene alla capacità di comprendere cosa vuol dire "social". 

Ma, almeno in Italia, paese per vecchi, il mezzo determinante sarà anche stavolta la televisione (magari commentata sui social network). E quindi eccovi un decalogo semiserio sull'uso del vecchio tubo.

1. La tv è la tomba degli illuministi. Sappiatelo, voi che andate in tv a parlare di politica. Il discorso lucido e razionale rappresenta una curiosa novità e una boccata d'aria, dopo tante chiacchiere a vuoto: ma alla fine qualche frase rassicurante e un po' di empatia sono necessarie.

2. Non pensate ai commenti dei giornali. Gli editorialisti dei grandi quotidiani rappresentano meno di 1/1.000.000 degli elettori, e probabilmente si limitano a spostare l'opinione di un certo numero di stagiste.

Pierluigi Bersani si commuove a Porta a porta.

3. Churchill promise lacrime e sangue, ma l'alternativa era di andar tutti a servire birre in qualche bar di Berlino. Sì, lo so: il paragone potrebbe essere calzante. Ma Churchill parlava a un pubblico di protestanti, non di cattolici.

4. Non stupitevi per gli ascolti di B. Egli riesce a catalizzare, sui canali più generalisti, sia il suo zoccolo duro che i milioni di antipatizzanti, e il risultato d'ascolto è quasi sempre lusinghiero. Dopo vent'anni di "grandi comunicatori" il pubblico più semplice apprezza ancora l'abilità dell'eloquio più o meno travolgente, o straripante, di un pluripresidente del consiglio. Ma una parte di esso lo vive come l'ultima performance di un grande venditore.

5. In generale più ascolto non significa automaticamente più voti. La cosa più importante è centrare il bersaglio, cioè parlare a chi è disponibile ad essere convinto o vacilla tra il disimpegno e l'endorsement. Nessuno è passato da destra a sinistra, o da sinistra a destra, semplicemente guardando un programma alla tv. Più facile che lo abbia fatto guardando il portafoglio.

6. I consulenti d'immagine più improvvisati, quelli che ancora credono che Kennedy abbia vinto perché Nixon in tv era sudato, si preoccuperanno di come siete vestiti. A meno che non vi mettiate la tragica giacca color cacca di Achille Occhetto nel faccia a faccia con B. del 1994, dei vestiti potete anche fottervene. Non sbagliate la camicia, però. La cosa più utile che Mity Simonetto ha spiegato negli anni a B. (e daje) è stata quella di fargli mettere la camicia azzurra. Fondamentale per non avere la faccia troppo scura in tv, difetto a cui è sopravvissuto solo Carlo Conti.

7. L'intervista sdraiata non è un gran favore per l'intervistato. B. Invece ne è convinto, ma è ora che vi convinciate che lui non possiede nessuna scienza della comunicazione, solo arte. (Anche la commedia dell'arte è arte, come dice la parola stessa).

8. Lo schema di qualunque discorso in tv è la forma sonata (allegro, andante, allegro). Non partite mosci. Umanizzatevi, scoprite un lato del vostro carattere e della vostra sensibilità. Ma non subito. Fatelo a metà strada, dopo che si saranno convinti che avete qualcosa di interessante da dire. E chiudete con una punch line efficace.

9. Il pubblico studia come vi muovete, dove guardate, si picca di capire la vostra personalità. E' come quando arriva in casa il nuovo fidanzato di vostra figlia: la nonna non ascolterà i suoi discorsi ma lo guarderà negli occhi, gli studierà le mani, si accorgerà se sorride e soprattutto noterà ciò che fa quando pensa di non essere scrutato. Ecco: la tv è uguale.

10. Alla base di qualunque discorso retorico ci dev'essere un fondo di verità. Se raccontate balle a profusione, in meno di vent'anni rischia che vi beccano.

sabato 22 dicembre 2012

Madeleine: Capodanni differiti

 Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.

Poiché è Natale evitiamo riflessioni più o meno pensose su campagne elettorali, uso dei media, social network e altri temi che sposano malissimo col panettone. Parliamo di cose più interessanti. Canale 5 ha registrato il Capodanno a Cologno dieci giorni prima. E allora? Io ne avevo registrato uno con 15 giorni di anticipo, a Parigi. Ecco la madeleine.


Correva l’anno 1991 (credo, ma poteva essere il 1992). Italia Uno, direttore Freccero, mi manda a Parigi con Gigi e Andrea (e Rinaldo Gasperi come regista). Io sarò il produttore. Il capodanno si farà dal Crazy Horse. Ma si girerà due settimane prima. Fingendo la diretta, ovviamente.
Ora, voi avete presente come lavora una troupe seria, no? Si fanno i sopralluoghi, si chiedono i permessi, si fa il piano di produzione e poi si parte. Manco per il cazzo. Arriviamo a Parigi come dei ladri. Dobbiamo girare un promo davanti alla Torre Eiffel, corri corri sennò ci bloccano, infatti Roncato correva su e giù inseguito da una solitaria telecamera. Allora gli dico: facciamo che questo è l’inizio della diretta, sovrapponiamo un bel cartello via satellite da Parigi. E poi? Poi in post produzione ci metto un piccolo sgancio, come un drop del satellite. Fatto.
Il corpo di ballo del Crazy Horse.

Poi si parte in limo verso il locale. Dobbiamo incontrare Alain Bernardin, il patron del Crazy Horse. Bernardin mi riceve in un ufficetto dal soffitto bassissimo, nel retropalco. Poi mi porta a vedere come lavora. Le ragazze del Crazy Horse sono tutte in fila. Alain le passa in rassegna. Mi spiega che ha un’unica preoccupazione, devono avere tutte l’ombelico alla stessa altezza. Quindi, non potendo spostare gli ombelichi, cambia i tacchi delle scarpe. Nella stanza c’è un gran profumo di borotalco. Neanche una di loro è francese. Alain mi spiega che ha costruito il retro in modo che ragazze e fantasisti debbano accedere al palco da due distinti corridoi. Non vuole guai e storie di sesso tra spogliarelliste e giocolieri. Parla con la precisione e il distacco di un medico legale.
Registriamo lo spettacolo per due sere di seguito, per mettere assieme il meglio delle due. Il teatro è piccolissimo e il palco è sproporzionato tra altezza e larghezza. Per avere un totale devi inquadrare un bel pezzo di platea. Che è piena di giapponesi e soltanto di giapponesi. In coda al secondo spettacolo Gigi e Andrea devono salire sul palco e fingere il conto alla rovescia con apertura finale dello
Alain Bernardin.
champagne. I giapponesi non capiscono ma si divertono molto. Alla fine le ballerine si ritirano e Andrea scompare con loro. Dopo una decina di minuti riappare come un gatto che ha ingoiato il topo. Andiamo a mangiare ostriche sugli Champs Elysées. Roncato mi svela orgoglioso il suo piccolo segreto: ha dato appuntamento a due delle ballerine. Tra un’ora. Ci aspetteranno all’uscita degli artisti. Lo considera un cadeau natalizio. Imbarazzo. E’ così contento che ordina altre ostriche e altro champagne. 

Usciamo dal ristorante alle 2 e mezza di notte. Siamo entrambi appesantiti, ma non voglio rovinargli la festa. A passo veloce Andrea raggiunge l’angolo della strada. Si affaccia e conferma: sono lì che aspettano. Guardo anch’io. Sì, sono proprio lì. Sguardo d’intesa. “Troppo sonno, troppa fatica”. Andrea desiste. Scappiamo come ladri per non farci vedere. 

Torniamo a Milano per montare il programma. La cosa più complicata è fare il calcolo esatto per far scattare il capodanno posticcio all’ora giusta. Vado al Toc (la messa in onda di Italia Uno) e faccio vedere il punto esatto. Non ti preoccupare, mi dicono. Abbiamo il riferimento del time code. Naturalmente il capodanno di Italia Uno verrà celebrato con assoluto ritardo rispetto all’ora esatta, perché nel frattempo Publitalia aveva venduto due spot in più nel break precedente.
Comunque il programma fa tantissimo (15%), tutti fanno i complimenti. Bilancio del viaggio: Andrea si è divertito, Gigi ha sputtanato tre milioni di lire in gadget elettronici alla Fnac, io ho mangiato le ostriche. Due anni dopo Alain Bernardin si spara alla tempia e muore. E Silvio Berlusconi scende in campo. Chissà quelle due ragazze quanto avranno aspettato.

giovedì 20 dicembre 2012

La7 taglia. E spunta Sky


Cristina Parodi Live, su La7.

Il nuovo Amministratore Delegato de La7, Marco Ghigliani, ha già cominciato a sfrondare i rami (costosi) della sua rete. Come previsto anche qui già da un po'. Chi ne fa le spese è soprattutto il daytime, che è risultato discrasico rispetto alla vocazione prevalente de La7, quella a ispirazione mentaniana: un canale che fa della narrazione della realtà il suo atout. In parole povere, sarà una all news di lusso, con molti talk e con la comicità in grado di intercettare lo stesso pubblico (infatti il programma di Crozza si inserisce perfettamente in questo schema. Probabilmente lo faranno costare un po’ meno, ma quelli sono problemi loro).
In realtà tutto il palinsesto dovrà costare meno, perché i soldi che arriveranno dalla pubblicità non saranno quelli  favoleggiati l’anno scorso. Poi vedremo se arriverà un compratore soddisfacente per Telecom, Cairo permettendo.
Marco Ghigliani, nuovo AD de La7.

In questo scenario chi paga sono i programmi di intrattenimento, come Cristina Parodi Live o G-Day. Programmi che difficilmente avrebbero potuto intercettare il loro ideale pubblico su una rete che esplicita, dal tg di Mentana in poi, una precisa vocazione all’informazione. E che quindi parla (secondo i dati Auditel disaggregati) ad un pubblico centrale/maturo, prevalentemente maschile, ad alta scolarità. Insomma, cinquantenni che leggono i giornali. E le mogli? Le loro mogli a quell’ora si guardano Real Time, o Sky. (Poi ci sono quelle che invece hanno grande interesse per l’informazione, ma a loro le vite dei reali o anche l’ironia sul vintage della Cucciari non interessano).
I programmi di daytime de La7 –che è facile criticare in base ai risultati d’ascolto- erano tutti più che dignitosi, sia come fattura che come idee guida. Non è così facile dire che cosa avrebbe dovuto fare la Parodi al posto del programma che ha fatto, onestamente. Forse il problema non era tanto nel dettaglio ma proprio nella scelta editoriale e nel palinsesto.
Geppy Cucciari, un talento comico ancora
sottoutilizzato.
E quindi che fine farà l’intrattenimento? Qui è la seconda notizia, finora abbastanza snobbata dai commentatori dei media. Molto arriverà da un accordo con Sky. I passaggi in chiaro di molte produzioni del satellite (a cominciare dal “telepanettone” Un Natale coi fiocchi, con Gassman/Orlando) arriveranno direttamente su La7. Un vero e proprio output deal che fa comodo a tutti e due. E che traccia, a pensarci, una strada.

 Perché adesso tutti a farsi l’abbuffata di talk politici e telegiornali - con lo showdown del Più Grande Spettacolo del Mondo il 10 gennaio (Berlusconi da Santoro, l’equivalente 2013 del Circo di Natale). Ma dopo il voto? Qualcosa mi dice che la gente non ne potrà più di domandarsi cosa passa per la testa di Beppe Pisanu e Andrea Riccardi, e bisognerà tornare a fare un po’ di televisione.

lunedì 17 dicembre 2012

Silvio e gli spettatori della domenica

Barbara D'Urso durante l'intervista a Silvio Berlusconi a Domenica Live.
Alle sue spalle, a sinistra, si nota Paolo Bonaiuti.
Non credo che la lunghissima intervista di Barbara D’Urso a Silvio Berlusconi pretendesse di rientrare in un genere televisivo da scuola di giornalismo. D’altronde con onestà la D’Urso ha ammesso di considerarsi “una di famiglia”. E quindi le “cortesie verso l’ospite” (o per meglio dire, verso il maggiore azionista) erano implicite e probabilmente accettabili per i suoi (tele)spettatori.
Ciò che non è ben chiara, al di là delle facili ironie, è l’effettiva efficacia di questa strategia di comunicazione. Di primo acchito verrebbe da dire che sì, lo storytelling che ne deriva può avere una presa reale sul pubblico. Una specie di viaggio dell’eroe, un eroe ammaccato da mille vicissitudini ed errori di navigazione ma migliore dei suoi antagonisti, perché più empatico verso i destini dei suoi (tar/tassati) seguaci; e pronto a sbarcare in una terra nuova, forte dell'esperienza accumulata e di una rinnovata gestione degli affetti (la fidanzata!). Una rinascita, uno Skyfall appunto. Un discorso che parla la lingua del pubblico che segue Quinta Colonna e di una parte dello zoccolo duro di Amici.
L'Auditel ci restituisce infatti una discreta audience, in prevalenza femminile, con picchi nella fascia "bassa economica e sociale" (mi scuso per le definizioni, che non sono mie) e sui 15-34 anni. E quindi (analizzando freddamente l’operazione, ché a fare considerazioni più o meno sarcastiche sul conflitto d’interessi non serve un blog) il suo risultato B. l’avrebbe portato a casa.

Poi però si considerano due variabili:

1. la prima: questo non è stato solo il ventennio di Berlusconi ma anche il ventennio di programmi televisivi d’inchiesta che hanno abituato il largo pubblico a toni di duro incalzare nei confronti del potere: si tratta di un genere trasversale ai pubblici e alle reti, e indiscutibilmente popolare. Per cui l'intervista eccessivamente "cortese" stride. (Per capirci, mentre chi guarda Ballarò fa parte di un pubblico preciso, lo spettatore tipo di Report è più trasversale e anche più giovane);
Berlusconi ha scelto un mezzo tradizionale come il cartellone
per raccontare le tappe dei suoi governi.

2. il maquillage televisivo, dalle luci al trucco, dal "dettaglio a zero" nel controllo camere ai colori rassicuranti del fondale, dai toni dell’intervistatrice alle “teste” e “code” di blocco (e cioé gli sguardi, la mimica, le parole più o meno fuorionda, quei piccoli momenti di verità nei meccanismi della tv generalista) rappresentano un linguaggio che milioni di persone sanno oggi decodificare, in base a tutorial realizzati mille volte proprio da programmi come Striscia la notizia, Blob ecc.

Quindi l'efficacia reale dell’operazione, al di là della sua notiziabilità, sembra confinata al target di pubblico più fedele (nella fascia di sovrapposizione all'intervista, Domenica In è complessivamente di poco sotto Domenica Live, e i due programmi si rincorrono a sinusoide). Probabilmente il risultato può essere quello di aver motivato maggiormente al voto una parte dello zoccolo duro dell'elettorato che si ritrova nella politica, o per meglio dire, nella poetica di B. Ma l'effetto sarà duraturo se reiterato... (!)

Sul resto del pubblico il risultato non è affatto scontato, anche perché si scontra con un’agenda di mesi e mesi in cui la comunicazione di B. è risultata, coram populo, pesantemente contraddittoria. E  soprattutto, con un vissuto critico seriamente sedimentato.

Rimane la questione di fondo: quanto avrà giovato a Mediaset un’esposizione così irrevocabilmente tesa a ribadire che si tratta dell’azienda “di famiglia”?


giovedì 13 dicembre 2012

Apple si gioca tutto sulla tv?


La schermata di Apple tv su un display Mac.

Si riparla di un televisore Apple, un progetto del quale ci siamo già occupati varie volte su questo blog per l'effetto dirompente che (almeno in teoria) potrebbe avere sul mercato.
Le voci più recenti confermano alcuni punti fermi:
1. Apple ha coinvolto nel progetto, come supplier, la Sharp. Sharp è l'azienda giapponese sulla quale Cupertino ha messo dei bei soldi mentre stava vacillando, schiacciata dalla concorrenza nel micidiale mercato consumer dell'hardware tv. Un mercato spietatissimo, dominato -finora- dalla corsa al basso prezzo. Un mercato nel quale ormai splende una sola stella: Samsung. La stessa Samsung che è diventata il principale competitor (per non dire l'incubo) di Apple.
2. Apple punta su Sharp perché deve scrollarsi di dosso Samsung (che è ancora, anche se sempre meno, fornitore di parti essenziali per Apple, pur essendo quella con cui i suoi avvocati stanno litigando davanti alle corti di tutto il mondo). E' chiaro che Apple non potrà chiedere i display (gli schermi, in pratica il 90% di un televisore) ai coreani, che rappresentano il suo principale avversario. Sharp è azionista di Loewe, l'azienda tedesca unica protagonista, con Bang&Olufsen, del segmento "alto" del mercato (ma talmente alto da essere quasi fuori dal mercato). Loewe è quella che fa i televisori più belli - se hai i soldi per comperarteli. 
Un televisore Loewe.
3. Ad Apple non interessa la gara sui prezzi, anzi. L'idea è quella di fare leva sull'efficacia del brand Apple per mettere sul mercato un prodotto che abbia un prezzo più alto della media (e quindi un margine di profitto molto superiore al normale) grazie a soluzioni tecniche, funzionali ed estetiche originali. La stessa operazione fatta con l'iPad e l'iPhone, che ha squassato il mercato degli smartphone e dei tablet.
Solo che realizzare un prodotto assolutamente originale (non solo dal punto di vista estetico) non è facile: ad esempio, uno dei plus su cui all'inizio Apple era sembrata puntare quando ha cominciato a lavorare sui prototipi di televisori, e cioé la possibilità di comandarlo "a voce" attraverso Siri, e con i gesti, stile Kinect, è già vecchio, perché proprio Samsung l'ha preceduta inserendo questa funzionalità nella gamma alta della sua nuova serie di tv "smart".

C'è da dire che in generale sull'efficacia di Siri e dei suoi algoritmi ci sono ancora molti dubbi, come può testimoniare chiunque lo usi (o tenti di usarlo) sul suo iPad.
Ma il vero problema non è neanche questo: per sfondare Apple dovrebbe proporre un tv che fosse il centro multimediale di un ecosistema
Uno smart tv Samsung.

Ma per far questo è imperativo realizzare dei contratti capestro con i fornitori di contenuti (in pratica con le major americane): dammi i tuoi film, le tue serie, fammi distribuire il tuo segnale pay via i.p. ecc. Tutte cose alle quali Hollywood fa, per usare un eufemismo, resistenza: non va a nessuno di fare la fine delle major discografiche, che ormai lavorano per dare soldi a iTunes

Tutto questo in una fase in cui Apple sembra avere già raggiunto l'apice della sua espansione sul mercato: e già i primi scricchiolii si sentono con l'ultima trimestrale e con le oscillazioni del titolo.
Per cui il prossimo eccezionale, futuristico, geniale, clamoroso tv Apple può essere la mossa killer per la casa di Cupertino, ma potrebbe anche rappresentare un colossale trappolone per gli eredi (spirituali) di Steve Jobs. Staremo a vedere (in tutti i sensi).

sabato 8 dicembre 2012

Lo Skyfall di Berlusconi. E Mediaset?



Berlusconi si ri-ri-ri-ri-ricandida. E le sue televisioni?
UPDATE: Il post meriterebbe un aggiornamento, ma l'aggiornamento stesso potrebbe risultare vecchio nel momento in cui venisse postato. Per cui rinuncio e aspetto. L'ultima è di Bruno Vespa il 13.12 alle ore 10: "Sono convinto che Berlusconi non si candiderà". Inter pocula.

Il dado è tratto: Silvio Berlusconi ritorna in campo. E, come diceva De Gaulle, “L’intendance suivra!”. Nella sua idea del mondo, ovviamente, ai primi posti delle salmerie ci sono le “sue” televisioni. A poco sono serviti i dubbi, gli appelli alla prudenza, le preoccupazioni per un’azienda che come Mediaset è quotata in borsa e si trova in una momento assai delicato della sua esistenza. L’idea del Cav è che sia meglio impegnare tutti, pancia a terra, per raccogliere più voti possibili (con l’obiettivo di essere comunque determinanti, anche se non vittoriosi, nella prossima legislatura) piuttosto che sganciare l’azienda televisiva dal destino politico, non necessariamente trionfale, del Fondatore per rinnovarne l’identità e la proposta editoriale.

Quanto questa scelta sia lungimirante saranno i prossimi mesi a decretarlo. Se è stato facile serrare le fila del suo malandato Pdl, sarà ancor più fisiologico che chi dipende in tutto e per tutto non possa che allinearsi. Magari a malincuore, magari con molti retropensieri, ma allinearsi.
Quinta colonna di Del Debbio potrebbe rappresentare
il mood della nuova campagna. Funzionerà?
La strategia di comunicazione che ha in mente il Cav è evidente, e l’abbiamo già scritto più volte sia qui che da altre parti: è un tono generale di protesta “indignata”, quello che abbiamo sentito evocare con efficacia a Quinta colonna. E che ha dato già risultati notevoli sotto il profilo dell’audience.
Ma quanto sarà efficace questa strategia di comunicazione oltre le colonne d’ercole del target tradizionale di Retequattro? E’ tutto da vedere, naturalmente. L’idea è di dire che “quelli là” (Monti, le tasse, la politica, le banche, la finanza, la burocrazia europea, l’euro) sono il contrario di “questi qua” (la fiducia nel futuro, la libertà d’azione, il benessere, il divertimento, la spensieratezza degli anni ottanta). E “noi”, cioé le truppe del Cav, “siamo questi qua”. Peccato che non si parli di marziani, ma di chi ha governato fino all’arrivo delle ambulanze sotto forma di governo tecnico.
Pier Silvio Berlusconi
e le preoccupazioni per Mediaset.
Passerà questo discorso? E’ bene sapere una cosa: Silvio Berlusconi ha della tv la stessa idea di Marco Travaglio. E cioè un’idea quantitativa della comunicazione. Più martello e più vendo, più martello e più voti prendo. Peccato che spesso non sia andata così. Nè a lui né alla sinistra.  Nel 1996 Berlusconi perse le elezioni pur avendo schierato le tv dalla sua parte. Nel 2001 la sinistra perse le elezioni pur avendo schierato la Rai dalla propria parte. Le cose sono più complesse di quanto appaiano. Bisognerebbe avere la pazienza di leggersi (o rileggersi) il bellissimo The Real Campaign di Jeff Greenfield, dedicato alla vittoria di Ronald Reagan nel 1980. Una vittoria che tutti definirono “mediatica”. Ma che fu in realtà una vittoria politica. 
Silvio Berlusconi è il primo ad essere convinto di avere vinto a man bassa, alla sua prima discesa in campo, nel 1994, per il fatto di avere tre televisioni. Ma in realtà vinse per il fatto di avere costruito tre televisioni, non per il fatto di averle usate. Tanti italiani videro in lui uno che le cose le sapeva fare. Ma quali sono i risultati reali che oggi il Fondatore di Mediaset può esibire? Ecco perché oggi è lecito preoccuparsi per i destini di questo Paese, e anche per i destini delle aziende fondate dal Cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi.

venerdì 7 dicembre 2012

Il rebus della 7

Cristina Parodi Live, su La 7.

La telenovela de La7 continua, e non è vicenda trascurabile perché riguarda un canale che ha rappresentato una netta novità editoriale nel mondo delle tv generaliste italiane, e anche perché in ballo ci sono tanti posti di lavoro (tra rete e indotto).
La mia impressione personale è che non sarà facile trovare la quadra di una vendita oggi, sia per le condizioni difficili del mercato, sia per la complessa questione del contratto con la concessionaria di pubblicità (Cairo). Non escludo che alla fine non se ne faccia nulla, almeno per ora.
Crozza nel Paese delle Meraviglie
si adatta perfettamente al  target
della 7.
Sia che la 7 trovi un compratore, sia che rimanga nelle tasche di Telecom, si porrà in ogni caso il problema di rivederne i costi. Il palinsesto della 7 è molto costoso rispetto ai risultati di audience, e non è pensabile a breve una lievitazione degli investimenti pubblicitari (anzi, è più probabile, purtroppo, il contrario).
La 7 ha una strategia editoriale dominata, soprattutto nel prime time, dalla linea Mentana delle all news di lusso (nella quale rientra comodamente un bel programma di satira come quello di Crozza, che parla allo stesso pubblico). Le turbolenze politiche da qui alle elezioni certamente spingeranno gli ascolti della 7. Ma dopo?
Il problema è estremamente visibile nel daytime, con le grosse difficoltà in cui versano tutti i programmi di intrattenimento, anche se realizzati con indiscutibile cura. Epperò c’è una discrasia tra il pubblico tendenzialmente maschile/maturo cui si rivolgono Mentana, Santoro, Formigli, Lerner, Telese, Gruber ecc. e quello cui andrebbero destinati i programmi di daytime non politici, che presuppongono un target femminile oggi impegnato stabilmente su Real Time, Sky ecc.
Non è facile tracciare una rotta che riesca ad allargare il pubblico di riferimento della 7 senza perdere i consensi acquisiti. Sarà ancora più difficile farlo con i tagli, probabilmente vistosi, che si attendono all’orizzonte. Per cui il ruolo della Sòra Camilla rischia di rimanere attaccato alla 7 ancora per molto tempo.

lunedì 3 dicembre 2012

Note stonate da Cupertino


Ancora su Apple, visto che parlare di Apple è come parlare di una delle grandi potenze mondiali.
Ieri è stato diffuso il nuovo iTunes 11. iTunes, nell'ecosistema di Apple, è uno snodo chiave; perché è il negozio virtuale dal quale passa e dovrà passare sempre di più la capacità di dominare il mercato del software (applicazioni, musica, intrattenimento, video). Al tempo stesso, iTunes è l'idea Apple di integrazione con il Cloud, con la nuvola nella quale finiremo per archiviare tutti i nostri documenti, tutto il nostro passato, e tutto ciò che possediamo di memoriabilia (dalle foto del bambino al disco tanto amato, passando dalla dichiarazione dei redditi).
Beh. Si può dire? La nuova interfaccia "semplificata" di iTunes è una specie di rebus. Qualunque cosa dobbiate fare e che sia più complicata del semplice ascolto di un file musicale è un'impresa. Niente più cover flow. Perfino la pagina per il controllo del vostro device iOS (iPhone, iPad ecc.) è pressoché introvabile perché nascosta sotto menu contestuali. (L'unica cosa che non è cambiata è la discreta incapacità di iTunes di trovare le copertine del cd che digitalizzate. E non parlo solo di introvabili dischi di musica etnica, ma persino di stelle del pop).
Il mio iTunes in versione iCloud: sono sparite tutte le copertine
che avevo dovuto inserire manualmente.

Anche questo aggiornamento di iTunes fa pensare che a Cupertino abbiano ormai deciso che il computer, mac compreso, è ormai superato, che la mission oggi è realizzare device e applicazioni che celano accuratamente qualunque possibilità di intervento "intelligente" dell'utente. E anche qualunque customizzazione. L'ecosistema Apple diventa così sempre più chiuso, autoreferenziale, consumer-oriented. E i software stessi sono prodotti da lanciare o ad abbandonare per strada senza troppo curarsi di chi, nel frattempo, li ha adottati. Basta pensare come sono stati trattati Final Cut, Final Cut Server, Motion, Soundtrack, iDisk e compagnia cantante.
La vicenda delle mappe (con un'applicazione Apple a sostituire le mappe Google, un flop totale che è costato il posto al malcapitato capo sviluppatore) è anch'essa significativa.
Apple farà ancora degli ottimi prodotti, il ricarico altissimo tra costi e prezzo al pubblico consentirà ancora una cura particolare nei componenti dell'hardware, OSX e iOS sono ottimi sistemi operativi. Ma qualcosa si è rotto. Ed è la lealtà verso i propri clienti. Alla lunga potrebbe essere un problema serio per quelli di Infinite Loop.

domenica 2 dicembre 2012

Renzi-Bersani: al fotofinish

Il faccia a faccia tra Bersani e Renzi su Raiuno, dallo studio 4 della Dear
(grande ascolto, 6 milioni e mezzo di telespettatori, oltre il 22% di share).
Riporto qui il post che è apparso su Huffington Post giovedì notte. Il commento più o meno mediologico sul confronto Renzi-Bersani sembra già provenire da un altro secolo, visto tutto quello che è avvenuto dopo (e oggi si vota, quindi lunedì questa pagina sarà definitivamente archiviata). Però la fotografia dei due cavalli in corsa ci può essere ancora utile per capire cosa ci aspetta nell'immediato futuro, per cui riposto anche qui il mio intervento.

Stavolta nel primo tempo Renzi ha dominato, perché ha colto un punto di debolezza di Bersani: il segretario del Pd si deprime quando il sindaco di Firenze tira fuori dal cappello le sue soluzioni “one-line”, da una riga, ai problemi. E allora si annoia, sbuffa e si mette sulla difensiva. Ma lo svolgimento del secondo tempo ha cambiato il risultato. E lo ha trasformato in un sostanziale pareggio. Stavolta la metafora calcistica che piace tanto al sindaco di Firenze è d’obbligo.
Terreno di gioco: Lo studio di Raiuno e la sua poetica dell’horror vacui. Per cui al posto dell’asciuttezza quasi teutonica delle riprese Sky c’erano stacchi su totali squintati, controcampi sul pubblico in controluce azzurro, vidiwall riempiti con immagini di repertorio. Insomma, tutto il corredo dell’estetica tradizionale della tv pubblica. E poi collegamenti, vox populi eccetera. Un grande affollamento di stimoli visivi che ha tolto un po' di liturgia all'evento, come ha rilevato un'acuta commentatrice su twitter.
L’arbitro: forse la cosa migliore della serata. Monica Maggioni ne è uscita benissimo: non è mai stata pedante, non ha favorito nessuna squadra, ha fluidificato il gioco e nessuno ha potuto fischiare dagli spalti.
L’illuminazione del campo: costretto dal rifulgere fuoriscala della camicia bianca di Renzi il direttore della fotografia ha talmente chiuso il diaframma da far prendere alla faccia del sindaco di Firenze un tono a metà tra la carnagione di Obama (stracitato) e quella di Carlo Conti. Per le stesse ragioni la grisaglia di Bersani ha preso un color marrone mortaccino che ricordava pericolosamente quello della giacca di Occhetto del ’94.
Il pubblico sugli spalti: inutile come gli applausi delle distinte tifoserie, non ha aggiunto né tolto niente.
E veniamo alle fasi di gioco.

Primo tempo: lo schema di Renzi è quello del figlio impertinente che entra in casa scamiciato e, trovandosi di fronte il padre intento a riparare un elettrodomestico, gli toglie il cacciavite di mano dicendo “papà, faccio io se non ti dispiace”. Il padre allora si scoccia e diventa scuro in volto. Il figlio impertinente infierisce e si gioca il golazo dei comunicatori: l’abolizione del finanziamento pubblico. La replica di Bersani arriva, ma dopo la pubblicità (e quindi, come insegnano le regole della tv, non arriva).

Secondo tempo: Renzi, sempre all’attacco, mantiene lo stesso schema di gioco: lanciare soluzioni nuove, da dieci parole, a problemi complessi. Fino al punto in cui Bersani-figura paterna si incazza e cambia registro, abbandona il catenaccio e contrattacca alle argomentazioni del figlio scamiciato.

Risultato: Avrà sicuramente fatto breccia sul pubblico giovane, Renzi, con il suo presentarsi come l’uomo nuovo dalle soluzioni inedite e non ideologiche. Ma il campo è quello di Raiuno e l’elettorato ha un baricentro più “maturo”. Per cui alla lunga quella tattica di gioco si logora da sola. Come nel celebre dialogo della serie tv West Wing (una frase che Guia Soncini mi ha citato cento volte) in cui l’immaginario presidente Bartlet commenta così l’intervento del suo avversario: “Hai trovato le risposte di dieci parole che il mio staff ha cercato per due settimane, quelle che possono farti vincere o perdere un dibattito. Ma ci sono questioni troppo complesse per essere risolte con dieci parole”.

Ognuno si sarà convinto che ha vinto il suo beniamino, e Renzi si è battuto ancora meglio che a Sky. Ma eravamo su Raiuno, che è un enclave della Prima Repubblica in cui ancora vivono, come ectoplasmi, gli stereotipi di Peppone e Don Camillo. E Bersani è riuscito, alla fine, ad interpretarli entrambi, cosa che gli riesce perfettamente. E che lo rende autorevole e rassicurante sul pubblico over quaranta. Vedremo domani, anzi vedremo lunedì.

domenica 25 novembre 2012

In morte di Gei Ar



Larry Hagman, J.R.Hewing di Dallas. Sullo sfondo, Southfork Ranch.

E’ morto J.R., e Sue Ellen era al suo capezzale. E’ morto a Dallas dopo il Thanksgiving e Linda Gray è stata vicina a lui, vicina a Larry Hagman fino alla fine, come ci racconta con molta puntualità Huffington Post.
In questi mesi succedono moltissime cose per rammentarci la fine di un’epoca. E’ come se la storia fosse diventata una maestrina pedante, che ci riempie di simbologie fin troppo evidenti. Il nuovo Dallas è stato un flop, almeno in Italia (anche se non era brutto come dicono) e oggi la quintessenza di quel mondo ci lascia.
Chi non ha vissuto gli anni del successo di Dallas (in Italia dal 1981, prima per qualche mese sulla Rai, poi l’arma decisiva per l’affermazione di Canale 5, assieme alla trasmigrazione di Mike Bongiorno e all’arrivo di Carlo Freccero) deve sapere alcune cose.
Milano 2.
Perché proprio oggi, nel giorno delle Primarie del Pd (il cui risultato magari spingerà Silvio Berlusconi a riproporsi all’elettorato, ma sarebbe come la serie reloaded di Dallas, appunto) è utile avere una nozione precisa di quel momento.
1. La chiave di tutto è a Milano 2. Se volete capire Dallas, ma anche Berlusconi, dovete andare a Milano 2 e girarla palmo a palmo come se andaste a visitare Pompei. Naturalmente Milano 2 è stata costruita prima del successo di Dallas, ma la sua storia si intreccia perfettamente con quella delle fortune di Dallas, della cultura di Dallas e del successo di Canale 5.
All’inizio degli anni ottanta l’ultima pagina del Giorno (quotidiano all’epoca modernissimo, l’unico che già stampava a colori e titolava all’americana) ospitava regolarmente la pubblicità di Milano 2, presentata con un claim che (vado a memoria) diceva più o meno così: “Un barbecue a Southfork Ranch? No, una serata a Milano 2”. E, sotto, un ilare gruppo di milanesi con sfondo di verde, laghetti e palazzi color mattone super-terrazzati. Per la nuova borghesia milanese, che usciva dai cupi anni di piombo, l’alternativa di questo centro residenziale con ampi spazi verdi, balconi abitabili, strade pedonali e parcheggi era irresistibile. 
Silvio Berlusconi negli anni Settanta.
Era a Segrate, ai confini con la provinciale Cassanese, ma Berlusconi ebbe il colpo di genio di chiamarlo Milano 2. I soldi per costruirlo probabilmente gli piovvero dal cielo, come racconta Nanni Moretti, ma tant’è. Milano 2 (con il suo sporting club, e chi aveva uno sporting negli anni ’70?) divenne davvero la Dallas degli italiani, o perlomeno la sua proiezione fantastica. Come ricorda benissimo Carlo Freccero, che viveva ai bordi del laghetto, nel residence (interni orrendi, sia chiaro) dei Cigni.
2. Il successo di Canale 5 (è meglio ricordarlo, perché un giorno anche questa crisi finirà e sarebbe il caso di imparare dall’esperienza) nasce da una fortissima domanda di intrattenimento e di identificazione con nuovi modelli affluenti che era impossibile ritrovare nella Rai di allora. Per una parte del Paese fu come dar da bere agli assetati, quelli che una volta si chiamavano gli “animal spirits” dell’economia di mercato (o dello sviluppo capitalistico, tanto il senso è lo stesso). J.R. era cattivo ma si arricchiva. “Arricchitevi!” è lo slogan che fu lanciato da Bucharin nella Russia sovietica per risollevarla dalla miseria degli anni post-rivoluzionari, lanciando la NEP, la nuova politica economica che prevedeva una spazio all’iniziativa privata. (E “Crescete, arricchitevi, investite. Se ci sono ostacoli li toglieremo di mezzo” fu il messaggio di D’Alema agli imprenditori nell’ormai lontano 1998. Oggi ci lecchiamo le ferite da un’idea messianica del mercato che pervase anche la sinistra alla fine del millennio, ma non dimentichiamoci che torneranno i tempi dello sviluppo, e bisognerà non soltanto governarlo ma anche promuoverlo). 
Milano2, il laghetto (artificiale) dei Cigni.

3. Milano2 è la chiave perché Canale 5 nacque come tv a circuito chiuso per gli abitanti di questo enorme condominio. Per non coprire i tetti di antiestetiche antenne, il segnale tv era stato centralizzato. A quel punto bastava una derivazione al cavo d’antenna e gli inquilini di Milano Due, oltre alle reti Rai avrebbero potuto ricevere un canale tutto loro. Così nacque Canale 58 (che era, appunto, il canale 58 della sintonizzazione analogica) e poi, da lì, Canale 5. Perché scegliendo film e cartoni per gli abitanti di Milano 2 Berlusconi ci aveva preso gusto, e aveva imparato rapidamente quali fossero i gusti degli italiani degli anni Ottanta. Li colse (Dallas per primo) e li trasformò in una koinè. E l’Italia divenne una grande Milano 2. O almeno ebbe l’illusione, per un tempo infinito, di esserlo davvero diventata.
4. Adesso le griglie per i barbecue restano, quasi sempre, ad arrugginire in cantina.

giovedì 22 novembre 2012

Mediaset: i nodi vengono al pettine



Poiché mi ostino a considerare Mediaset principalmente un’azienda italiana con un fatturato e con migliaia di lavoratori, piuttosto che la terra emersa di un oscuro moloch berlusconiano, credo che il suo futuro sia un tema che riguarda tutti.
E’ evidente, come abbiamo scritto tante volte anche qui, che un modello di business è andato in crisi, sostanzialmente a causa della recessione. La caduta degli investimenti pubblicitari è una realtà che riguarda anche gli altri attori del sistema dei media italiano, ma nel caso di Mediaset l’effetto è più pesante perché Mediaset prosperava in un modello di business basato su grandi margini operativi (graziatemi, in questo ragionamento, dall’obbligo di sottolineare il peso della politica, di Berlusconi ecc.). Quel modello consentiva di muoversi sul mercato con una certa scioltezza (ad esempio, nel reperimento delle cosiddette star, dei format, e così via) e rendeva pressoché irrilevante il peso di eventuali errori editoriali (il programma o la fiction che non funziona, l’investimento in terra straniera o nella pay non fruttuoso, il prodotto d’acquisto che non sfonda e così via). 
Maria De Filippi, uno degli asset
più solidi dei palinsesti Mediaset.
Tanto i margini erano ampi e la presa sul mercato sicura. Nella competizione con la Rai, al di là dei quotidiani responsi auditel, il fatto di avere come zoccolo duro un target pubblicitariamente più interessante rispetto a quello del principale competitor garantiva un occhio di riguardo da parte dei big spender. (E il fatto di dare soldi all’azienda del Presidente del consiglio, anche se non costituiva la motivazione chiave nelle decisioni d’investimento degli inserzionisti, comunque non dispiaceva).
Oggi quel modello non sta in piedi, e le trasformazioni nell’offerta, nelle modalità di fruizione, nelle piattaforme utilizzate, perfino nei gusti del pubblico sono fatti strutturali che non scompariranno anche quando questa interminabile crisi mondiale dovesse mostrare segni di miglioramento (cosa abbastanza lontana, per ora).
Quindi l’azienda Mediaset deve trovare una strada nuova, con idee nuove e nuovi modelli produttivi. Deve fare una vera e propria rivoluzione copernicana. Non può limitarsi a tagliare tutto il tagliabile, perché da sola quella è una strada senza uscita. Altrimenti il finale di partita sarà la vendita a Rupert Murdoch, o a chi per lui. E non è detto che per questo Paese sarebbe la soluzione migliore. Stiamo parlando di Murdoch, non stiamo parlando di Che Guevara, eh.
I tempi stringono. Dalle parti di Cologno lo sanno? Io credo di sì, ma il coraggio non lo vendono al mercato. E poi c’è un piccolo particolare. E si chiama il Fondatore. Che non ha ancora deciso come impegnare l’ultima parte della sua vita. Una presenza che è come un macigno.

lunedì 19 novembre 2012

Gad Lerner, l'ironia e la musica classica



Gad Lerner nella celebre puntata de L'Infedele che ospitò la telefonata di Berlusconi.
Qualche giorno fa la segreteria di redazione di Repubblica mi ha girato cortesemente l'email di un lettore che criticava un mio pezzo, dedicato ai conduttori dei talk show e pubblicato dal Venerdì. La riporto espungendo la firma, per ragioni di privacy visto che missiva era indirizzata al giornale.
Buongiorno Direttore,
sono un cittadino italiano e mi chiamo Renato *.
La disturbo per un articolo a firma di Gregorio Paolini, apparso sul Venerdì di Repubblica il giorno 9 c.m.
Scrivo a proposito delle cosiddette “pagelle” date ai conduttori di trasmissioni televisive.
Rilevo che a Gad Lerner,dapprima il signor Paolini si esercita in forma mielosa sui punti di forza, poi evidentemente per ultimo la “stangata”  nei punti di debolezza.
 Il signor Paolini dà un giudizio a Gad Lerner  inferiore ad altri “esaminati”; la giustificazione “ama la musica classica”.
Orbene io che amo la MUSICA CLASSICA e non solo mi sento (uso un termine dolce) infastidito, forse il signor Paolini dimentica che la musica in generale è CULTURA.
Magari da noi ci fosse    “EL SISTEMA”!!!!
Da ultimo  mi pare del tutto fuori luogo,  cito testualmente, “... se fosse una signora della buona società avrebbe l’abbonamento al turno C della Scala”.
Come se fosse degradante il fatto di avere l’abbonamento alla Scala al turno C.
Forse il signor Paolini non frequenta la Scala e neppure la CULTURA.
La ringrazio per l’attenzione ed anche per  gli articoli  di natura culturale presenti su La Repubblica, Il Venerdì di Repubblica e su  D.
Renato *
Francesco De Angelis (violino) e Roberto Paruzzo (piano)
si esibiscono nel corso di una puntata de l'Infedele
Con tutto il rispetto per l'opinione del signor Renato, il suo intervento mi sembra indicativo di un modo di pensare molto diffuso nel nostro Paese tra i lettori progressisti (e non solo tra i lettori): il rifiuto di distinguere tra giudizio di fatto e giudizio di valoreHo sempre avuto molta stima per Gad Lerner e credo che il suo stile di conduzione e la sua struttura di programma, da Milano, Italia a oggi, siano -come dire?- più europei rispetto a quelli che fanno leva sui meccanismi del melò e dell’orazione civile. Ma tant’è: nella presente situazione, nella marea montante dell’antipolitica e dei vari populismi (causati negli orrori della gestione quotidiana della Seconda Repubblica) un programma come il suo fa più fatica a farsi sentire. E’ un fatto? E’ un fatto, basta guardare i dati Auditel. 
Parliamo pure di musica classica. Mi permetto di farlo perché chi mi conosce sa che sono, a mio modo, un melomane. Vivendo a Roma non posso abbonarmi alla Scala però ho l’abbonamento alla Stagione di Santa Cecilia (turno C, appunto). Nella mia libreria ci sono circa 1500 cd e altri 500 vinili di musica colta, con una predilezione per il Novecento e per la musica medioevale; le mie letture in ambito musicale le ho fatte e qualcosa, sull’argomento, credo di saperla. Così come so benissimo che mentre Lerner dà spazio al Quartetto d’archi o al Coro della Scala, tre giorni dopo Santoro darà spazio a Travaglio e a Luisella Costamagna. E porterà a casa un risultato a due cifre. E il lunedì stesso, su Retequattro, Paolo Del Debbio darà la stura, con indubbia abilità, alle proteste di chi non arriva in fondo al mese, facendo il doppio d’ascolto rispetto a Gad. Per non parlare di Paragone, trasformato ormai in rocchettaro re del nulla. Poi Lerner ha tutto il diritto di non essere corrivo e di difendere le sue scelte editoriali. Posso dirlo? O bisogna sempre fingere che la realtà ci dia ragione?
Volete sapere cosa guardo io il lunedì? Gad Lerner. E dove vado io il martedì? All’Auditorium a sentire Pappano. Ma il mondo, purtroppo, non gira attorno a me, e neanche attorno a Gad Lerner. Che ha tutta la mia imperitura stima.

venerdì 16 novembre 2012

Tutti i segreti della nomine Rai!

Per scoprire i veri nomi e tutto quello 
che c'è dietro grattate qui.








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Mi dispiace, è solo uno scherzo. Comunque ricordatevi che al mondo ci sono cose più importanti delle nomine Rai.

martedì 13 novembre 2012

Un punto per Sky, adesso tocca a viale Mazzini



Il Confronto tra i candidati alle Primarie del Centro-sinistra (hashtag #csxfactor ) ha raccolto, tra Sky e Cielo, oltre 1.800.000 spettatori medi (6,07%), cui vanno aggiunti quelli che hanno seguito lo streaming sul web. E' un ottimo risultato per Sky (anche confrontato con gli ascolti di Fiorello o di X Factor sulla stessa piattaforma). Adesso la parola passa alla Rai, il guanto di sfida è stato lanciato. Ripropongo qui l'intervento che ho postato sull'Huffingtonpost ieri notte.

La Rai avrà tempo per recuperare, ma certo il segnale (satellitare) dev'essere arrivato forte e chiaro a Viale Mazzini, visto che la scelta di Sky è stata fatta da chi, presumibilmente, governerà l'Italia tra sei mesi al massimo. Al di là dello share, che non sarà paragonabile a quello della tv generalista, la formula della tv di Murdoch per il confronto tra i candidati alle Primarie del centro-sinistra è una mezza rivoluzione rispetto ai dibattiti all'italiana. Come tutte le rivoluzioni vere ha in sè punte di giacobinismo (non possiamo diventare anglosassoni in una notte, 90 secondi a risposta sarebbero pochi anche per Obama); ma non c'è dubbio che dopo stasera non si potrà ricominciare a fare le tribune all'antica. I nostri bizantinismi, i pipponi a cui siamo abituati in molti talk show dovranno cedere il passo a risposte più semplici e brevi, più simili a ciò a cui abbiamo assistito stasera. Al netto della noia della prima mezz'ora, la cura da cavallo di Sky potrebbe fare del bene.
I candidati Democrats alle Primarie in uno Stato americano.
Ma andiamo per ordine:

Il format: il Confronto di SkyTg24 è iniziato con una voce off all'americana, che in realtà ricordava le presentazioni dei concorrenti di un talent, o peggio, del vecchio Gioco delle coppie. Il conduttore, Gianluca Semprini, è partito faticosamente; ma poi ha funzionato quando ha assunto un tono inflessibile, a metà tra quello del vigile urbano e quello del funzionario di Equitalia. Quando toglieva la parola a questo o a quello ci immaginavamo un suo omologo del servizio pubblico, costretto in una simile circostanza a calcolare a mente gli anni che lo separano dalla pensione.
Per l'inevitabile legnosità del suo rodaggio, il format di Sky (vicinissimo a quello dei dibattiti tra i diversi candidati alle nomination dei Democrats americani) non avrà sicuramente attirato frotte di pubblico giovane. Ma avrà dato una scossa di novità agli aficionados (e sono tanti, in Italia) del talk politico in tv.
Lo studio di X Factor in cui si è svolto il Confronto.
Le performance dei candidati: Bersani e Renzi riempiono lo schermo fin dall'inizio. Dei due, Bersani ha il passo del possibile premier. Nella prima parte si rompe un po' le balle: recupera sugli universitari e il lavoro e poi va via spedito. Una o due volte riesce persino a sorridere.
Ma Renzi si fa capire bene. E' il più a suo agio nello schema "americano" dei 90 secondi.
Va per slogan, slogan non tradizionalmente di sinistra e quindi più efficaci perché meno scontati.
Bersani lo placca con un abile "come diceva Matteo". Ma spesso Renzi si divincola. Renzi saltella sul ring come un peso piuma a confronto con un peso massimo. Più rapido nei tirare i colpi e nell'evitarli, ma più fragile nell'incassarli.
E Vendola: all'inizio i tempi contingentati non aiutano il lirismo vendoliano. In certi momenti sembra un cantante wagneriano costretto a produrre un jingle per un detersivo. Un incipit come "le ambizioni che erano nelle carte di Ventotene di Altiero Spinelli" è solo un recitativo che prepara l'aria che dovrà far venir giù il teatro. Ma se il tutto deve durare un minuto e mezzo l'acuto resta in gola. Vendola suda, al contrario degli altri due. A un certo punto Renzi tenta l'ammicco a Vendola per mettere all'angolo assieme Bersani. Renzi e Vendola si guardano, si sussurrano qualcosa all'orecchio. La regia, o il sorteggio, hanno dato a Renzi il posto del re, centrale sullo stage e sulle camere, e Renzi sa sfruttarlo. Ma Vendola, che è uomo di teatro, dopo la prima mezz'ora ha già capito come funziona il format e rapidamente si adegua (anche se con una certa fatica, da cui il copioso sudore).
Dibattito tv tra i Democrats americani.
Laura Puppato, aplomb merkelliano, sfora sempre con i tempi, ma si batte bene. Tabacci, nella parte del nonno saggio, dimostra che la vecchia dc produceva anche materiale di prima categoria (d'altronde, come dice Fedele Confalonieri, le uniche vere scuole di politica della Prima Repubblica sono state i salesiani e le Frattocchie, e qui ancora se ne sono sentiti gli echi, negli appelli finali).

Errori tecnici: quasi nessuno. Bersani ha azzeccato il look, con quella cravatta rossa su un vestito scuro molto rassicurante. Niente completino color cacca come Occhetto nel terribile faccia a faccia con Berlusconi che seppellì la "gioiosa macchina da guerra". Renzi con la cravatta violacea e la camicia alla Bob Kennedy era a suo agio, ed ha anche citato Lorenzo Cherubini, autodefinendosi "un ragazzo fortunato". Puppato come giovane maestra dai modi spicci e dalle idee chiare era "in parte". In un medio talent sarebbero passati tutti, almeno alla prima puntata: ognuno con i suoi supporter. Riprese e luci di Sky erano irreprensibili. Alla fine, Bersani è uscito come il padrone di casa, "assieme a tutti questi compagni di viaggio". Un po' di gente si sarà annoiata, ma al Pd questa serata non ha fatto male di sicuro. E tutto sommato, neanche alla televisione italiana.

lunedì 12 novembre 2012

Michele e gli altri: chi farà il cast della 3a Repubblica


Ripropongo qui il pezzo pubblicato sul Venerdi di Repubblica del 9 novembre scorso. Ho espunto il gioco dei rating, anche perché ho verificato con mano che pochi riescono a distinguere tra rating e forecast (e quindi tra l'affidabilità attuale di mercato e la previsione a due anni, come dicono quelli che sanno).


Da almeno un ventennio i nuovi leader (e gli slogan decisivi della politica) nascono quasi sempre nei talk show politici della tv. Nel marasma in cui ci troviamo, tra crisi economica, anda e rianda di Berlusconi, scandali della casta e conseguente successo del populismo in tutte le sue fragranze, i conduttori del talk show saranno decisivi per fare emergere i nuovi, possibili protagonisti: insomma, per fare il casting della Terza Repubblica. Non c’è solo Santoro. Negli anni, la panchina degli scopritori di talenti politici si è allargata: e dopo una fase interminabile di tentativi non riusciti, ora anche il centro-destra ha due conduttori che fanno ascolto, Paolo Del Debbio e Gianluigi Paragone. Entrambi capaci di gestire da destra l’antipolitica. Qualcosa ci dice che l’irrefrenabile tentazione berlusconiana di far saltare il tavolo (una pulsione che, come si è visto, Letta e Confalonieri fanno fatica ad arginare) non sia venuta solo dall’osservazione del successo di Grillo ma anche dallo studio di questi nuovi fenomeni televisivi. Perché ci sono due cose che Silvio conosce bene. E la seconda è la televisione.
Ecco un dossier riassuntivo.

Conduttore: MICHELE SANTORO
Programma: Servizio Pubblico
Rete: La 7
Punti di forza: E’ il più bravo. Ha una visione personale ma lucida della situazione politica, il populismo non lo spaventa di certo. Ha molto carisma e tende a giocare con gli ospiti come il gatto col topo. Conosce a menadito le regole “tecniche” della tv. E’ molto esigente con i suoi collaboratori. E’ un drammaturgo, con tendenze al grande melodramma.
Punti deboli: E’ Michele Santoro: tende all’autoreferenzialità. Con il suo stile nelle inchieste filmate ha fatto scuola, ma quando si sente sfidato o in esame preferisce mettere tra parentesi l’orchestra e giocare da solista. Vive con un certo imbarazzo i collaboratori con tendenze al primadonnismo.
Linguaggio televisivo: Sostanzialmente lo stesso da Samarcanda ad oggi. Gli innesti internettari sembrano la cravatta regalata a Natale su un antico vestito di sartoria.
Collocazione politica: santoriano. Starebbe con Grillo se Grillo lo seguisse (ma potrebbe valere anche per Bersani).


Conduttore: GIOVANNI FLORIS
Programma: Ballarò
Rete: RaiTre
Punti di forza: Ha rubato la Terza Camera a Vespa.  Riesce a mantenere un’idea di centralità al suo programma (e cioè: “di qui devi passare, sennò non sei nessuno”).  Se Santoro sovrasta l’avversario, Floris è mezzala, e talvolta ala tornante. Modello: Gianni Rivera (inteso come calciatore). E’ una persona educata.
Punti deboli: Ha troppa condiscendenza verso i sondaggi e gli economisti. Vive Crozza come il primo invitato alla cena che mette in imbarazzo gli altri commensali. E’ una persona educata.
Linguaggio televisivo: Molto RaiTre.
Collocazione politica: Tendenza RaiTre.

Conduttore: CORRADO FORMIGLI
Programma: Piazza pulita
Rete: La 7
Punti di forza: Ne sa più di quanto faccia credere. Ha insistito per il titolo “Piazza pulita” quando Giorgio Gori (il suo produttore, almeno fino a qualche mese fa) aveva ancora qualche dubbio. Sembrava l’alunno secchione senza lo smalto del Maestro, invece ha tirato fuori le unghie e si è difeso bene. E’ vissuto come “uno nuovo”.
Punti deboli: Non ha il carisma e la velocità di Santoro. E’ più giornalista che drammaturgo. Imbrocca il suo look una volta su dieci.
Linguaggio televisivo: è partito dal modello santoriano ma nel tempo si è evoluto, rinnovando abbastanza il linguaggio e il ritmo del talk politico. Ha collaboratori giovani ed è permeabile ai nuovi stili della comunicazione. 
Collocazione politica: Ha l’atteggiamento politico dei trenta-quarantenni di sinistra: un grande punto interrogativo sospeso sopra la testa.


Conduttore: ANDREA VIANELLO
Programma: Agorà
Rete: Raitre
Punti di forza: Sornione. Ha reinventato una fascia oraria che era quasi morta, almeno su Raitre. Giovialmente cinico, fa capire che non si aspetta nulla dai suoi intervistati. Nonostante ciò, riesce spesso a stanare gli ospiti sfidandoli ad essere uomini di mondo. Interpreta il disincantato uomo di sinistra che legge un sacco di giornali. E’ felice di non doversi più occupare di diritti del cittadino, argomento del quale non gliene fregava una mazza.
Punti deboli: E’ troppo conscio dei limiti dei suoi ospiti per farli rifulgere di luce propria. Dà l’idea di passare un sacco di tempo al telefono con gente che sa.
Linguaggio televisivo: Vianello e i suoi autori ne hanno inventate di molte, invecchiando di colpo i programmi concorrenti. Dalla canzone pop a mo’ di editoriale al “moviolone”. Si muove dentro twitter come un pesce nell’acqua.
Collocazione politica: abbastanza Pd.

Conduttore: PAOLO DEL DEBBIO
Programma: Quinta Colonna
Rete: Retequattro
Punti di forza: Intelligente, colto, furbo (è stato uno dei maître à penser della prima Forza Italia). Sposato con Gina Nieri, una delle vere menti politiche di Mediaset. Ha cavalcato tra i primi l’ondata della “destra indignata”: aveva ben chiaro in testa che oggi, alla telespettatrice di Retequattro puoi solo dire che sono tutti ladri, quelli del Pdl per primi (“ma anche tutti gli altri, capito?”). Linea: antipolitica, ma da “padre di famiglia”.
Punti deboli: E’ un professore. Abito, look e occhiali fanno temere l’interrogazione non programmata. Sorride poco.
Collocazione politica: (Post) berlusconiano.


Conduttore: BRUNO VESPA
Programma: Porta a porta
Rete: RaiUno
Punti di forza: Di solito è più informato dei leader politici che intervista. Nel caso del Pdl sembra spesso il membro interno della commissione d’esame che cerca di suggerire al candidato (però il più delle volte, rassegnato, rinuncia). Ha una solidissima redazione.
Punto debole: Vorrebbe fare di Berlusconi un democristiano, ma è come far marciare in parata un ballerino di tango. E’ troppo identificato con il suo cast storico e con le sue stagioni precedenti (sindrome del Bagaglino). Ma la cura a dosi massicce di nuove personalità  politiche “giovani” rischia di tradursi in un massacro.
Linguaggio televisivo: Tradizionale, di buona fattura. Orientamento politico inserito abilmente (ma ormai sgamabile dal telespettatore tipo).
Collocazione politica: Se ci fosse ancora la Dc e quel benedetto uomo non si facesse tutti quei lifting, sarebbe tutto più semplice.

Conduttore: GAD LERNER
Programma: L’infedele
Rete: La7
Punti di forza: Parla spesso di cose serie. Riesce a rendere interessanti i professori. Ha spostato i riflettori su una Milano colta che l’ultimo ventennio ci aveva fatto dimenticare. Aborre il provincialismo.
Punti deboli: Ama la musica classica e detesta le tattiche dell’ascolto televisivo. Le ha utilizzate  con profitto solo in alcune puntate sul “velinismo”: ma si è messo contro Antonio Ricci. Nasce di Lotta continua (tendenza dialogante), ma se fosse una signora della buona società avrebbe l’abbonamento al turno C della Scala. E’ in difficoltà con il populismo montante.
Collocazione politica: Ah, se ci fosse Prodi.

Conduttore: GIANLUIGI PARAGONE
Programma: L’ultima parola
Rete: Rai2
Punti di forza: E’ stato il primo conduttore di centro-destra a capire che doveva imbroccare con decisione la strada dell’antipolitica, a costo di scontentare un po’ di peones. Adesso che lo hanno copiato in molti è costretto a rincarare la dose. Nelle ultime puntate si è trasformato in un cantante rock con tanto di gruppo al seguito. Gli piace essere “re nel nulla” e sa che il nichilismo ha un grande futuro.
Punti deboli: Troppo folletto o scheggia impazzita. Va bene mischiare le carte, ma lo spettatore di destra ha diritto anche a qualche punto fermo. “Not Ready for Prime Time”, come dicono gli americani. Non è ancora pronto per la prima serata. Ma un domani, chissà.
Collocazione politica: “Il potere ci temono”. Insomma, era tutta colpa dei poteri forti.