giovedì 29 dicembre 2011

Viaggio illuminante nella Silicon Valley cinese (2a parte)

Ecco la seconda parte del lungo articolo di Kai Lukoff che è apparso ieri su TECHCRUNCH e che potete trovare in inglese qui.  
La home di Tencent


Ho scritto che Zhongguancun è l’equivalente cinese della Silicon Valley. Attenzione però perché c’è molto movimento anche in altre zone della Cina. I tre giganti di Internet in Cina sono Baidu, Alibaba, e Tencent, ma dei tre solo il gigante della ricerca Baidu ha sede a Pechino.

Hangzhou è sede del Gruppo Alibaba e del suo impero di  e-commerce (Taobao, TMall, Alipay e Alibaba.com). La zona di Shanghai è ricca di aziende di videogames, multinazionali, e venture capitalist, anche se poi volano a Pechino per fare la maggior parte dei loro affari. Per quanto riguarda gli hub tecnologici, questa zona è la seconda dopo Pechino.

Shenzhen è la sede di Tencent, il più grande social network e società di videogame cinese. Altrettanto impressionante è l'hacking hardware che arriva da questa regione. E’ anche sede di innumerevoli produttori di elettronica "shanzhai" [pirati, imitatori, n.d.r.] che copiano, accroccano, e creano telefonini "Motoloba" e tavolette Android “commemorative di Steve Jobs”. Quando si parla di dispositivi Android fatti in Cina a meno di 100 dollari, è Shenzhen a guidare la carica.

Altri hub “up-and-coming” includono Dalian, Chengdu e Xian,

Il centro di Hangzhou 

The Edge

Silicon Valley è ritenuta capace di attirare i migliori talenti, perché è uno dei migliori ambienti in cui vivere sulla Terra. Nessuno lo direbbe di Pechino.

Pechino bisogna farsela piacere, visto che è anche spesso nebbiosa l'inquinamento. In un podcast di Sinica per discutere “l'anima” di Pechino, Jeremy Goldkorn del blog Danwei.org l’ha definita "la capitale anti-lifestyle”, l'anti-San Francisco. La sgradevolezza della città, l’assenza del comfort di Shanghai o delle albe di Shenzhen le dà però un vantaggio. C'è una aspra determinazione nel cogliere l'attimo, di qualunque tipo siano gli ostacoli.

Un amico mi ha detto che a Kai-Fu Lee è stato recentemente chiesto perché la sua start-up InnovationWorks non sia stata collocata nella pittoresca Chengdu, dove il costo della vita è basso e le donne sono considerate le più belle di tutta la Cina. Lee ha risposto scherzosamente ai suoi imprenditori che quando sono loro felici e rilassati, lui non lo è.

Ma non confondetela con una città di imprenditori-automi. Pechino è al tempo stesso "il centro dell’autorità e una fucina di pensiero creativo", come scrive Evan Osnos in City of Dreams. “Ci sono veri e propri balzi di creatività. Siti che iniziano come imitatori di realtà straniere diventano poi irriconoscibili rispetto all'originale, come il rovente microblog Sina Weibo, che oggi assomiglia molto poco a Twitter.

Quando TechCrunch ha tenuto la sua prima International Disrupt  Conference, ha fatto bene a venire a Pechino. E’ dinamica, disordinata, e molto diversa. Ma  Silicon Valley a parte, non c'è posto migliore al mondo per la tecnologia, in questo momento.

mercoledì 28 dicembre 2011

Viaggio illuminante nella Silicon Valley cinese

Techcrunch, il super-blog americano di tecnologia e informatica (12 milioni di visitatori unici al mese) ha appena pubblicato un reportage illuminante di un suo collaboratore, Kai Lukoff, che ha sede a Pechino ed è a sua volta co-fondatore del blog TechRice. Kai descrive meglio di chiunque altro la realtà cinese delle start-up tecnologiche e del software e ci fa capire perché i suoi protagonisti sono duramente motivati e perché la Cina attira creatività, finanziamenti e multinazionali, fino a far paventare un prossimo gap tecnologico a sfavore degli Stati Uniti (non parliamo dell'Europa).  Oggi vi propongo la prima parte, tradotta in italiano. Se volete potete leggere l'originale qui. Grazie a Techcrunch, naturalmente.


La zona di Zhongguancun a Pechino



Vent'anni fa Zhongguancun non era altro che una teoria di campi e piccole case, lontano dal centro della città di Pechino. Il 'cun' alla fine di Zhongguancun letteralmente significa "villaggio". Come per molte altre cose in Cina, il cambiamento è stato fulmineo.
Oggi, Zhongguancun è l’equivalente cinese della Silicon Valley. Ospita super-centri commerciali di elettronica, centri di ricerca, giganti tecnologici quotati in borsa e centinaia di start-up. Durante la mia passeggiata tra torri di uffici di venti piani, è difficile immaginare che questa fosse tutta campagna coltivata, solo una generazione fa.
Ecco le le tre ragioni per cui Zhongguancun (o il più grande distretto di Haidian) si è trasformato nel centro a più alto contenuto tecnologico della Cina:

1) Hub accademico
Qui accanto ci sono le due università top della Cina, l’Università di Pechino e la Tsinghua University. Ma il nord-ovest di Pechino è anche sede di numerose altre università, comprese le università tecniche come USTB, BIT, BUPT e Beihang. E’ quel  pool di “talenti grezzi” che fa paventare a industriali e politici americani un nuovo "gap tecnologico".
A Zhongguancun lavorano più di 500mila  tecnici

Il passaggio da borgo agricolo a hub tecnologico è iniziato con la ricerca. Oltre alle università, il finanziamento è venuto dall'Accademia Cinese delle Scienze e in seguito da società multinazionali. Come osserva Daniel Shi su Quora "a Pechino c'è un numero incredibile di multinazionali con i loro centri Ricerca&Sviluppo: Nokia, Ericsson, Motorola, Sony Ericsson, Microsoft, IBM, Sun, Oracle, BEA, Alcatel Lucent, Google. Da nessuna parte negli Stati Uniti hai una tale concentrazione enorme di organizzazioni R&S in una sola città ".

All’inizio Zhongguancun era un piccolo mercato per vendere elettronica a studenti e accademici. Jack Xu, fondatore del lite-blog Diandian descrive un incontro fortuito in questa scena:

    “Nel 1997, il Parco tecnologico di Zhongguancun era un piccolo villaggio. Aveva solo due edifici, e un assortimento di imprenditori che promuovevano le proprie capacità di programmazione, ottenendo contratti governativi, e assumendo studenti come me per fare il lavoro. A volte si potevano ottenere 100.000 Renminbi (12.000 Euro) per un contratto, ma a noi venivano 5000 Renminbi (600 Euro), il 95% se lo tenevano loro. Allora guadagnavo solo 2000 RMB (240 Euro) al mese, 1000 li tenevo per me e 1000 li davo ai miei genitori, così non dovevano più lavorare nei campi. Per me era una priorità mantenermi da solo prima possibile. E’ stato anche grazie al mio lavoro a Zhongguancun che sono diventato un noto programmatore, inizialmente in una piccola cerchia; e poi è arrivata una vera opportunità.”

La vera occasione è stato l'incontro di Jack con Joseph Xu Chen, nel 1998. Oggi, Chen è il CEO del social network Renren, dove Xu ha lavorato per cinque anni, anche come vice presidente della divisione Interactive.

2) Governo e Media
Il portale di Sina Weibo, l'anti-twitter cinese

In America, un imprenditore alla parola "governo" scappa nella direzione opposta. In Cina il governo lo si tiene stretto, per scelta o per necessità. Internet è una delle industrie più “private” in Cina, uno dei pochi ambiti senza grandi imprese statali, ma il governo gioca ancora un ruolo chiave.

Nella fase iniziale ci possono essere contratti governativi, uffici sovvenzionati all’interno di un parco tecnologico, o il finanziamento da un istituto di ricerca affiliato al governo. Il governo vuole far diventare Pechino la capitale vetrina sotto tutti gli aspetti, quindi si ottengono finanziamenti extra anche per la tecnologia.

Una volta che una start-up raggiunge una dimensione interessante, le connessioni con il governo sono la chiave per ogni cosa,  dal pagamento delle licenze al “content management”. Quando il vostro sito web viene bloccato perché è stata rilevata la presenza di contenuti politici sensibili o di materiale considerato pornografico, chi chiamerete?

Praticamente tutte le attività in Cina sono considerate di "interesse strategico nazionale", ma alcune lo sono ancora di più. Tutte le imprese dei media o anche i siti con contenuti generati dagli utenti devono avere una forte presenza, se non il loro Quartier Generale, a Pechino.

3) Un "circolo virtuoso"

Un hub tecnologico può dare un impulso a un circolo virtuoso. Fondatori di start-up escono dai centri di ricerca e le grandi aziende tecnologiche, attingendo la loro rete, finanziano e fanno crescere i talenti tra i dipendenti. Quando il boss se ne va per lanciare la sua attività in proprio, è normale che metà  della sua divisione- la metà più  talentuosa- lo segua. Le reti dei dipendenti dei colossi tecnologici con base a Pechino, come Baidu, Sohu e Sina stanno diventando versioni cinesi della "mafia PayPal".

In "Perché l’Hub della start-up funziona," Paul Graham di Y-Combinator scrive: "Penso che ci siano due componenti: essere in un luogo dove le start-up sono la cosa cool da fare, e la possibilità di incontri casuali con persone che ti possono aiutare. E ciò che spinge entrambi è il numero di persone delle start-up intorno a te.” Come nella Silicon Valley, a Zhongguancun c’è  una massa critica di persone che sono abbastanza pazze da mettere su una start-up.

Nel prossimo post: Oltre Pechino, la seconda parte del reportage di TechCrunch.

martedì 27 dicembre 2011

Perché non possiamo non dirci fan di Ben 10


Gli alieni di Ben 10.

Visto che nel mondo multipiattaforma “content is the king”, parliamo di Ben 10. Se avete più di 12 anni e sapete chi è Ben 10 (e l’importanza che ha oggi nel mondo) i casi sono due: o avete figli (maschi) o avete qualche nipote. Avendo un figlio che va per i 5 anni so tutto di Ben Tennyson, del nonno Max, di Kevin Levin e della cugina Gwen, e so anche distinguere tra Fango Fiammante e Ultra Fango Fiammante. Ben 10 (con spin-off e crossover vari) è la franchise di maggior successo in questo momento a livello mondiale (con un colossale fatturato in merchandising) ed è la manna dal cielo per Cartooon Network, di proprietà Turner/TimeWarner. In Italia è anche la vera hit di Boing, e lo sta programmando anche Italia Uno. Il game show ispirato a Ben 10 è già in onda in 8 paesi, Italia compresa, Bandai e giocattolai vari ci campano ecc.
Ben 10 decenne (2005) e Ben 10 versione quindicenne (2008)
Ho provato a guardarci dentro. Non foss’altro perché mio figlio mi chiede in continuazione di inventargli storie nuove di Ben 10, il che si presentava come un esercizio di fronte al quale il Premio Solinas è una passeggiata. La cosa strana è che ho scoperto quasi subito che mi veniva facile inventare nuove storie di Ben 10 (distinguendo tra il Ben 10 decenne, quello quindicenne di Alien Force e di Ultimate Alien, e sapendo riconoscere, alla bisogna, Ben 10.000, Ben TenThousand, il suo barbuto alter-ego che viene dal futuro).
Per i non addetti ai lavori (o alle storie): Ben Tennyson è un normale ragazzino di 10 anni (e nelle serie successive, di 15) che durante una vacanza con il nonno Max ottiene un orologio speciale (l’Omnitrix, che poi diventerà Ultimatrix, felicità dei giocattolai di tutto il mondo) grazie al quale riesce a trasformarsi istantaneamente in una serie di mostruosi alieni (a loro modo, buoni). Se ne servirà, naturalmente, per combattere gli alieni cattivi. Ritrasformato in teen, Ben ha tutti i problemi (compresa una insopportabile arroganza) tipici dei suoi coetanei di oggi. E forse anche di ieri.
Dopo qualche lettura più approfondita ho capito perché mi veniva facile entrare nei suoi meccanismi narrativi (che non sono neanche tanto banali):  Ben 10 è figlio diretto dei comic-books degli anni Settanta.
Joe Casey  (uno dei quattro del gruppo Man of Action, che hanno sviluppato il personaggio e il concept della serie per CN) ha lavorato vari anni per la Marvel, ha scritto sceneggiature per Superman, X Men, Avengers, Fantastic Four, Flash ecc. Joe Kelly, l’altro socio del gruppo, ha fatto anche lui la gavetta alla Marvel e poi è passato alla DC Comics (quella di Superman) ed è un figlio dello Stan-hattan Project, il corso per sceneggiatori di comics messo su quindici anni fa dalla NYU (in omaggio a Stan Lee, il mitico inventore di Spiderman, Hulk, Thor ecc.).
Casey poi è uno che, pur pieno di soldi grazie ai diritti di Ben 10, contina a inventare fumetti acclamati dalla critica e pochissimo dal pubblico (e ha scritto Automatic Kafka, disegnato da Ashley Wood, nel 2002). Se il giro è questo, è l’ennesima conferma che i comic books, spazzati via dalla televisione (e rinati come graphic novel, per una nicchia che regge da vent’anni) continuano a costituire la riserva creativa di Hollywood e della tv.
Il DNA è quello, il linguaggio è frutto della contaminazione con gli Anime e i Manga. Curiosa nemesi. Il mondo dei supereroi è l’unica koiné semi-generalista che riesce ancora a tenere assieme le famiglie. Sì, lascerò che mio figlio continui a guardare Ben 10. Sempre meglio dei Fantagenitori.

sabato 24 dicembre 2011

Auguri da Glenville. Arrivederci a martedi

Auguri di Buone feste da Glenville. Per Natale un cartoon dei Fleischer del 1936 che è un piccolo gioiello. In pubblico dominio, naturalmente.

venerdì 23 dicembre 2011

Louis CK è arrivato a un milione



Produttori, distributori, artisti, questa notizia è per voi. Se avete letto il post di qualche giorno fa sapete chi è Louis CK e perché tutti i giornali e i blog sui media in giro per il mondo stanno parlando di lui: CK è il comico americano che, vistosi rifiutata la ripresa televisiva del suo spettacolo dall’HBO ha deciso di metterla in vendita online sul suo sito a 5 dollari a botta. In 5 giorni CK aveva raggiunto la considerevole cifra di 500mila dollari in acquisti (download e streaming) pagati con Paypal.
La notizia di oggi è che quei 500mila dollari sono già diventati un milione.  In dodici giorni. Senza l’intermediazione di iTunes o di Netflix. Qui sotto il  conto di Paypal che Louis ha orgogliosamente pubblicato come qualunque venditore di vinili usati su Ebay. Con la differenza che il “balance” è di +$ 1.006.997,17. More to come, come dicono.

Rai, scioperi, Monti & Passera

Il set di "Parla con me" negli stabilimenti "Studios" sulla Tiburtina, Roma
A differenza di qualche commentatore che si basa sui luoghi comuni ho grande rispetto per la gente che lavora dentro la Rai. E anche delle ragioni dello sciopero di ieri. E quindi, poiché si ricomincia a parlare
a) di privatizzazione della Rai (ricorrente mantra in cui i primi a non crederci sono quelli che lo intonano);
b) di riforma della governance (in soldoni, nominare un amministratore delegato, una specie di supercommissario);
oltre a chiedere ai supertecnici di fare qualcosa perché un’azienda pubblica sul mercato non sia più considerata come un “ente pubblico” (vi immaginate i comici assunti per concorso? O magari nominati ope legis?) e le siano restituiti  almeno i soldi del canone, mi permetto un modesto consiglio ai nostri governanti. Un consiglio che nessuno darà loro, per varie e comprensibili ragioni.
Siccome le chiacchiere sulla Rai sono una specie di sport nazionale vorrei essere il più chiaro possibile (e userò il maiuscolo, che detesto): CHIEDETE LA CONTABILITA’ INDUSTRIALE.
CHIEDETE LA CONTABILITA’ INDUSTRIALE. Non vorrei sembrare come Jack Nicholson in Shining.  Cerco solo di spiegare perché questo discorso è importante.
"Il mattino ha l'oro in bocca" nella versione originale

Quando la Rai decide di fare un programma, che chiameremo programma X, lavora spesso su un’idea (format?) proposta da qualche autore o da una società esterna. Lasciamo perdere tutta la discussione sui format ecc., noiosissima per i non addetti ai lavori. Andiamo al sodo.
Kubrick gira "Shining" con Nicholson
Il programma X è meglio farlo in casa o farlo fare da una società esterna? "Facciamolo in casa che risparmiamo". D'accordo: a patto di esserne sicuri. Quando la Rai calcola il costo di un programma, attribuisce i costi a due diverse filiere: i costi “sopra la linea” sono a carico della Rete (RaiUno, RaiDue, RaiTre ecc.). Si tratta di conduttori, autori, regista, eventuali ospiti, ballerini, attori ecc. I costi “sotto la linea” (studi, troupe, scenografie, trucco, parrucco, montaggi, grafica ecc.) invece vanno in un "calderone" generale gestito dai centri di produzione. Facciamo conto che un programma costi 100mila euro. Più o meno 50mila saranno costi sopra la linea e 50mila sotto la linea. A RaiUno, o RaiDue, o RaiTre (Rai4 e Rai5 questi soldi se li sognano) il programma costa 50mila euro, nel senso che solo i costi "sopra la linea" vengono caricati sul budget di rete.  Alla Rai nel suo complesso costa 100mila. 
Mettiamo che arrivi una società esterna e dica: “Ehi, io lo stesso programma ve lo porto, fatto e finito, a 70mila euro. Con gli ingredienti editoriali e la supervisione editoriale che volete voi. Già infiocchettato. Chiavi in mano”. Fantastico, direte voi, la Rai ha risparmiato 30mila euro. No: alla Rete in questione, nel suo budget (più volte tagliato già solo quest’anno, vista la situazione generale) il programma da 70mila costerebbe 20mila euro in più.  Non conviene. Perché se è fatto all’esterno tutti i costi vanno caricati sul budget di Rete (e non vanno in quello che, per semplicità, definiremo il "calderone"). E’ chiaro?
La scultura di Francesco Messina (1966)
Obiezione ovvia: ma che c’entra, la Rai deve far lavorare la propria fabbrica, i propri studi, le proprie maestranze. Giustissimo. Sacrosanto. Ma se la Rai stessa, per realizzare quel programma, si rivolge a uno studio esterno, a sale di montaggio esterne, a ditte di scenografia esterne (l’esempio della Dandini è chiarissimo, il programma era realizzato in uno studio esterno), come la mettiamo? In pratica la Rai preferisce pagare una società esterna per fargli fare il “sopra la linea” (ma solo se è un format riconosciuto ecc. ecc.) e spesso un’altra società esterna per il “sotto la linea” o parte di esso. A cui aggiunge il proprio produttore, la propria struttura gestionale ecc. Quindi il varietà X avrà: un produttore esecutivo Rai, un produttore esecutivo della società esterna, un direttore di produzione Rai, un direttore di produzione della società esterna, un production manager della facility che fornisce gli studi, ecc. Ma non sarebbe più economico dire: cara Endemol, cara Magnolia, cara Vattelapesca, se tu mi fai il sopra e il sotto la linea e mi porti il prodotto finito che cifra mi fai? Mi fai risparmiare? Scommettiamo che costa tutto meno e il produttore esterno ci guadagna pure? (E diamo più stabilità all'occupazione, visto che la Rai non può assorbire da sola tutta la forza lavoro precaria che ha coinvolto in questi anni, non foss'altro per il peso di costi fissi che si porta dietro in bilancio).

Attenzione perché questo è un punto decisivo del discorso: poiché questo non avviene quasi mai, le società di produzione in Italia sono abituate a occuparsi solo del “sopra la linea”, con interminabili discussioni del tipo “l’orchestra la paga la Rai o la società esterna?”, “gli scalda-pubblico chi li contrattualizza?” ecc. Discussioni che in pratica portano via la metà del tempo (ad essere ottimisti) sia alla struttura Rai che al produttore esterno, lasciando alla cura del prodotto il tempo rubato a queste defatiganti trattative. Chi ci guadagna? Nessuno. In questo modo le società esterne non portano un loro specifico know-how, spesso sono poco più che intermediarie di manodopera, non diventano “botteghe” in grado di sviluppare un proprio stile, un'originalità, una scuola che le renda veramente competitive (magari l’unico plus è di avere i diritti di una video-cassetta olandese); e d’altra parte la fabbrica Rai si umilia a un ruolo di arcigno controller, senza poter sviluppare professionalità, creatività, know-how interni (che ci sono! Dentro la Rai c’è un sacco di gente molto brava!). Ma così, al posto di un win-win abbiamo un lose-lose.
Il set di "Question Time", prodotto dalla Mentorn per la BBC

Ma all’estero scusate come fanno? Fanno in un altro modo. La BBC ad esempio mette in competizione, su un’esigenza di palinsesto, strutture interne ed esterne. Costringendo così la struttura interna a “stare sul mercato” (sia dal punto di vista dei costi che dal punto di vista dell’innovazione sia stilistica che tecnologica) e le società esterne a produrre originalità e creatività a basso costo. E poi decide. (Per cui dalla fabbrica interna escono anche gioiellini venduti in tutto il mondo, mentre non si considera così strano che Question Time, una specie di Tribuna politica di grande ascolto, sia prodotto interamente dalla Mentorn, una società esterna). Così fa un buon editore. E d’altronde, così fa la stessa Rai con le fiction. Altrimenti il secondo mantra, quello caro ai sindacati interni (“basta con le società esterne”) diventa solo un alibi per non ammettere l’assenza di un’idea strategica su cosa dovrà essere, in un futuro non troppo lontano, il servizio pubblico.

mercoledì 21 dicembre 2011

Camera Café e il pubblico della prima serata

Quando, dieci anni fa, Simonetta Martone mi chiamò da Cannes per dirmi che c’era un format francese fighissimo che avrebbe voluto subito opzionare e che si chiamava Caméra Café, con grande lungimiranza le spiegai che in Italia “quelle robe lì non funzionano”. Non avevo pensato a quei due geni di Luca e Paolo (che pure avevano cominciato con me a Ciro, ma nel frattempo avevano già trovato una loro strada grazie a Caschetto). E invece Magnolia (e Fatma Ruffini) ci pensarono e fu un grande successo.
Anche se lo share di Camera Café si è drasticamente abbassato da quando Italia Uno lo ha messo in prime time, continuo a pensare che sia un bellissimo programma, un gioiellino che non ha paragoni nel panorama italiano. E allora perché fa fatica in prima serata?
Della difficoltà di portare certi format di seconda serata in prime time abbiamo già parlato in un altro post (riferendoci a un programma che viaggia a una distanza siderale da quello di cui parliamo oggi).  In tutto il mondo alle 9 di sera ci sono programmi senza pubblico, moderni e veloci, da noi (e in altri paesi latini) portarli in prima serata è ancora durissimo. E’ abitudine? E’ la composizione demografica del pubblico? Vogliono la messa cantata? Gli italiani sono peggio di dieci anni fa? Vogliono essere rassicurati? Pretendono qualcosa di più family? Non gli sembra una pietanza ma uno stuzzichino?

Mi sono andato a controllare i dati:  Camera Café ha fatto il 6 per cento, ma tra i 15-24 ha superato il 18%! E sugli 8-14 ha fatto il 15! Tra i ragazzi è stato un successone. Il problema è che a quell’ora i ragazzi davanti alla tv sono poco più del 10% degli ascoltatori. E poi. E poi ha raccolto poco tra i laureati: che è una sindrome tipica di Italia Uno. Anche quando un programma sembra fatto apposta per loro. Qui il discorso sarebbe lungo (Sky, Internet, ecc. ecc., o semplicemente il fatto che alle nove di sera escono).  L’altro dato interessante è che Camera Café ha fatto il pieno sul target “basso economico e alto sociale” (13%) e pochissimo sul target “alto economico e basso sociale”(2%).  Per capirci, il Grande Fratello lunedi scorso ha avuto una performance opposta (molto più alto su “alto economico e basso sociale” che su “basso economico e alto sociale”). Se volessimo essere politicamente scorretti potremmo riassumere con “Camera Café non piace ai coatti”. Neanche ai coatti danarosi. E ovviamente non è visto dagli anziani. Forse il pubblico d’elezione di Camera Café, quello che dieci anni fa era la crema del pubblico di Italia Uno, è stato risucchiato in parte dal satellite. A questo punto uno deve decidere: punto tutto sui bori o cerco di recuperare quel pubblico così importante, quello che ha fatto la fortuna di “Mai dire gol” e di tanti programmi storici di Italia Uno? Lo rimetto in seconda serata anche se ho i soldi solo per fare programmi in prime time? Non è una risposta semplice.  E’ dura fare il Direttore di rete.

martedì 20 dicembre 2011

7500 visualizzazioni, grazie

Glenville è a 7500 visualizzazioni. Grazie a tutti. Sto cercando di postare anche dei video ma vorrei evitare di dipendere da Youtube, quindi dovremo rivedere un po' la piattaforma. Ripeto a tutti  l'invito a intervenire non solo sul link di Facebook ma anche direttamente sul blog, finora molte cose interessanti che scrivete sono irraggiungibili per chi non segue anche la mia bacheca fb.

Facebook e il diritto all'oblìo

"Domani è un altro giorno" (Via col vento). Sicuri?

Quando vivevamo nella Galassia Gutenberg una delle battute più ovvie era “i giornali il giorno dopo servono per incartare il pesce”. Come dire: quello che è stato scritto oggi domani sarà dimenticato. Poi è arrivata la televisione, e anche lì valeva la regola “tanto domani se lo dimenticano”. Poi sono arrivati i videoregistratori, ma era roba per maniaci o per l’Eco della stampa. Poi è arrivata Internet, con quei server che non buttano mai via niente, ma uno deve avere la pazienza di consultare tutta la ricerca di Google. Poi Youtube, ch ti incatena a vita a qualche apparizione tv più o meno imbarazzante. Adesso è arrivata Timeline (Il tuo diario) di Zuck e soci.  In pratica, da quello che ho capito, fra tre giorni tutte le bacheche di fb saranno trasformate manu militari dai server in una specie di MySpace in cui tutta la storia facebookara di ognuno sarà a disposizione.
Personalmente tutta la questione della privacy, vissuta in modo un po’ isterico dalla cultura politically correct, mi ha sempre annoiato (tanto quando le istituzioni vogliono veramente sapere una cosa se ne sbattono delle regolette e dei garanti vari). Ma qui la questione è un po’ diversa: è quella che si chiama del “diritto all’oblìo”.  Se io considero pubbliche le cose che dico e faccio in questo momento, non significa che mi faccia piacere che ognuno abbia l’istantanea possibilità di scorrere tutta la mia linea temporale. (E qui non parlo di un personaggio pubblico ma di noi privati cittadini). L’animale che siamo è settato per ricordare ma anche per dimenticare, ricordare troppo non fa bene e non fa vivere bene. Diranno Zuck e soci: anche con Timeline potrete decidere da soli cosa va ricordato e cosa no, cosa deve rimanere e cosa no. D’accordo ma qui è come la storia delle clausole scritte in piccolo dagli assicuratori: come ha scritto oggi David John Walker su Social Barrel “il fatto che Facebook cambi continuamente le sue politiche di privacy crea confusione nell’esperienza dell’utilizzatore ogniqualvolta viene lanciata una nuova feature” . In altre parole: non è che uno può perdere le giornate a controllare cos’era pubblico e cosa no, quali fossero messaggi privati e quali statement fossero pubblici, chi può leggere cosa ecc. Alla fine mandi tutti in mona e te ne freghi.  Quindi, nei fatti, mentre i giornali il giorno dopo servivano per incartare il pesce, facebook dell’anno dopo incarta te. Basta saperlo. (E comunque: cosa cavolo metterò nella copertina del mio Diario?).
UPDATE (9/1/2012): Elisabetta Curzel mi segnala questo articolo, appena uscito su New Scientist, che vi consiglio.

lunedì 19 dicembre 2011

I fornitori di hard disk riducono il periodo di garanzia


Probabilmente in seguito all’alluvione in Thailandia, di cui abbiamo parlato in un precedente post,  i grandi fornitori di hard disk (Western Digital e Seagate) hanno deciso di ridurre drasticamente i periodi di garanzia del loro hardware: alcune serie Seagate (tra le più diffuse), come Barracuda e Barracuda Green passano da 5 anni a un anno di garanzia, Western Digital riduce da tre a due anni la garanzia sui Caviar Blue e Caviar Green Scorpio Blue. Dicono che lo fanno “per investire di più in ricerca e sviluppo”. Dite che lo fate per non alzare troppo i prezzi vista la scarsità di scorte. Ma quanto gli costava allora sostituire  gli hard disk difettosi? Quanti hard disk si rompono prima di uno-due anni di funzionamento? Non è un argomento da nerd. Oggi gran parte della nostra memoria digitale (documenti, testi, foto, video, musica) è custodita dentro hard disk tradizionali. Certo c’è il cloud (ma se qualcuno ha già capito come funziona davvero iCloud per chi vive in Italia gli offro da bere), certo ci sono gli ancora costosissimi SSD, ma per tutti gli altri, a meno che non facciano un costante backup, c’è sempre di più il rischio di perdere tutto. E di dover anche ricomperare gli hard disk a prezzi più alti rispetto al passato. Una domanda: ma l’Unione Europea non aveva stabilito delle direttive per le richieste di riparazioni di beni acquistati entro la UE? 

sabato 17 dicembre 2011

Kalispera o Kalinikta? Le grandi tv e i tagli ai palinsesti

Alfonso Signorini: il suo Kalispera è stato portato in prime time


Non ho visto Kalispéra (solo qualche clip sul sito Mediaset il giorno dopo) e in ogni caso detesto gli addetti ai lavori che giudicano i programmi altrui, il mestiere dei critici conviene lasciarlo a chi lo fa di mestiere. Però, visto che in questo blog ci occupiamo di tendenze, credo sia giusto segnalare come il risultato di Kalispéra in prima serata confermi alcune ipotesi di cui abbiamo già parlato in altri post, e apra nuove questioni. E cioé
Accadde una notte (1934)
1. Kalispéra, come struttura, non è certo peggiore di altri talk leggeri realizzati in questi anni da Mediaset. Il mix di ospiti non era neanche male per un programma di intrattenimento. Ma rappresenta un’Italia e un mood che sono oggi lontani dal “comune sentire” della maggioranza degli italiani, ha il saporello di un mondo che non c'è più: la conduzione di Signorini (che non è un ingenuo e nemmeno uno sprovveduto, televisivamente, anzi) richiama plasticamente quel mondo (che è anche quello dell’ultima versione del GF, in cui Signorini ha il compito di vivacizzatore e di “coro greco”, compito che esercita con un curioso mix di moralismo e di trasgressione light non sempre vincente).
2. La stessa puntata di Kalispéra, se fosse andata in onda un anno fa su Canale 5, sarebbe andata benissimo. Anche perché sarebbe andata in onda in seconda serata. E qui si apre una questione enorme, forse la questione delle questioni per la tv generalista oggi: Rai e Mediaset (per ora ancora di più Mediaset, ma diamo tempo al tempo), di fronte alla crisi (e quindi alla crisi di redditività dei palinsesti televisivi) rispondono tagliando i costi e mettendo in prima serata (e “stirando” a tre ore e più) programmi che fino a ieri sarebbero andati in onda solo in seconda serata. Sembra quindi la quadratura del cerchio: se piacevano in seconda serata piaceranno anche in prima, risparmiamo un sacco di soldi e con 4-5 interviste abbiamo risolto il prime time.  Non funziona. E non funzionerà.
Ginger e Fred, miti nell'America della Depressione

Proprio perché siamo dentro la più grande crisi economica che si ricordi dal 1929. E in questa crisi ci potrebbe anche essere un ritorno alla tv generalista da parte di un pezzo di pubblico che poteva contare su altre e più costose alternative (e che sente anche un bisogno di “comunità”, l’ansia di condividere frustrazioni e possibili rassicurazioni). Beh, state attenti cari capi delle televisioni: è come se si affacciasse alla porta della vecchia trattoria sotto casa la clientela che si era abituata col sushi. Tornano sulla nostalgia: ma quando si accorgono che la vecchia tv generalista è stata sostituita da scampoli e programmi a basso budget, quando vedono che il vecchio oste non garantisce più quegli ingredienti e quei piatti gradevoli e rassicuranti a cui un tempo erano abituati, quando constatano che Fiorello passa quattro volte l’anno e il resto è pasta al burro sbattono la porta e riacchiapparli sarà ancora più difficile. Lo so che tocca risparmiare. Ma ricordatevi che in piena crisi del ’29 si sono affermati Mickey Mouse, Popeye, Fred Astaire e Ginger Rogers, Clark Gable e Frank Capra. O investite o morite. Dite ai vostri controller che devono tagliare da altre parti.

venerdì 16 dicembre 2011

Perché Louis C.K. ci parla del futuro


Louis C.K. è un tipo con le palle. Se non sapete chi è io invece lo so (grazie a una segnalazione di Guia Soncini): Louis C.K. è un comico americano da stand up molto bravo, che ha iniziato facendo l’autore per David Letterman e poi è riuscito a metter su una serie tutta sua, Louie.
Louis C.K. è uno che non si perde d’animo. Louis la sua black comedy Louie la produce, la interpreta, la scrive, la gira con una sola Red, la dirige, la monta col suo MacBookPro e la manda in onda su Fx. (Quello vero, non quello italiano che hanno chiuso).
Louis C.K., che è mezzo messicano, di nonno ebreo ungherese ed è nato a Washington D.C., quindi è pronto a tutto, quando HBO gli ha rifiutato la proposta di uno special con il suo nuovo spettacolo teatrale, Live at the Beacon Theater, ha mandato affanculo i fighetti della pay e si è prodotto lo show da solo.  E invece di andare a bussare alla porta dei vari network ha messo su un sito a prova di bomba (30.000$ di spesa), ha girato il suo spettacolo con sei camere (170.000$ di produzione) e poi l’ha messo in rete a pagamento.
Niente iTunes, niente Amazon, niente Netflix: lo spettacolo di Louis C.K. si può comperare solo sul suo sito. Al prezzo di 5 dollari. Con Paypal. Paghi e lo vedi (in streaming o in download). Niente codici di area, niente criptaggi, puoi perfino scaricare dal sito la copertina per farti un dvd e regalarlo a un amico. Louis chiede solo una cosa: per favore non mettetelo su Torrent.  Almeno sforzatevi di non farlo. Se qualcuno ha letto su Glenville il post di due settimane fa, beh sono contento che nel frattempo qualcuno abbia avuto il fegato per provarci. 
Com’è andata a Louis C.K.? Il video è sul sito dal 10 dicembre, a ieri (14 dicembre) aveva già avuto 110.000 download, per un totale superiore a 500.000 dollari. “Tolti i soldi da dare a Paypal mi rimane un profitto di circa 200.000 dollari”, spiega Louis in una letterina che ha mandato a tutti quelli che hanno pagato per il suo video (anche a me). “E’ meno di quello che mi avrebbe pagato una grande società anche solo per la mia prestazione artistica, ma vi avrebbero caricato almeno 20 dollari. Invece così avete pagato solo 5 dollari e ve lo potete rivedere anche in vacanza”, spiega C.K. “Grazie ancora per avermi dato 5 dollari. Mi ci sono comprato tre Coche”. Mi piacciono i tipi così.

mercoledì 14 dicembre 2011

Mediaset, il "target commerciale" e TvBlog

Marika Fruscio a "Uomini e donne"

A bilancio dei risultati d’ascolto della garanzia autunnale Mediaset ha rivendicato il fatto che, anche se non è arrivata prima sul totale degli ascoltatori, è comunque leader sul “target commerciale”. Esiste il “target commerciale”? Ha ragione TvBlog a parlare di “favola del target commerciale”? O ha ragione Mediaset a rilevarlo?
Poiché ogni discussione che si svolga nel nostro Paese non può prescindere dalla questione Berlusconi, proviamo a spostare il problema in un ipotetico paese normale.
In questo ipotetico paese normale, dove c’è un servizio pubblico e alcuni broadcaster privati, il servizio pubblico, finanziato da un canone (pagato da tutti), sottolinea tutti i giorni i propri risultati in termini di milioni di telespettatori, indifferenziati e considerati non come consumatori ma come cittadini. A cui in cambio del canone offrirà un servizio che sia utile al progresso della collettività. (E qui mi fermo sennò ci vorrebbe un megabyte di testo per approfondire).

C'è posta per te
I broadcaster commerciali invece cercheranno di convincere tutti i giorni i propri clienti, cioé le aziende che investono comprando spazi pubblicitari, che i loro soldi sono ben spesi: grazie ai suoi programmi il network offrirà ai propri clienti la platea interessata ai loro prodotti. Se pubblicizzo un’automobile vorrei parlare a qualcuno che abbia intenzione o possibilità di comperare un’automobile e così via. Fin qui ci siamo? Ok.
In questo “paese normale” ai broadcaster privati non interessa quanti milioni di telespettatori indifferenziati raccoglieranno, ma quale efficacia di bersaglio pubblicitario riusciranno a garantire ai propri clienti. Pare brutto? Non piace la pubblicità? C’è sempre la Corea del Nord come modello alternativo. Ma non mi sembra un’opportunità.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti (poi parlare di paese normale in questo momento storico fa un po’ ridere ma visto che non possiamo fare esempi riferiti ad altre galassie accontentiamoci). Negli Usa i network quando pubblicizzano i dati d’ascolto considerano quasi unicamente quelle che chiamano le “key demographics”, che nel loro caso tranciano il pubblico già a 49 anni. Nel modello americano (che non gode in questo momento di una fantastica immagine) o fai i soldi da giovane o ti fotti. A 49 i giochi sono già fatti. Quindi il pubblico tradizionalmente da catturare è quello con un po’ di soldi e che sta sopra i 20 e sotto i 50. Poi sei finito.
Lost (Disney/ABC, 2004-2010)

Se volete capire la ragione reale per cui le serie tv americane sono tanto osannate dai critici di tutto il mondo la spiegazione è molto semplice: perché l’indicazione che hanno avuto da più di un decennio è quello di fregarsene altamente del pubblico anziano e più indifeso e di conquistare quel target centrale che altrimenti guarderebbe (a pagamento) l’HBO. Per cui mentre il cinema americano (che invece deve correre dietro al pubblico di ragazzini che comperano i videogiochi) è in gran parte una serie di spottoni per i videogiochi stessi, le tematiche più mature si ritrovano invece in quelli che una volta erano considerati i  “telefilm”.
(D’altronde anche la Rai degli anni ’50-’60 cos’era se non una televisione che si rivolgeva principalmente a un target in grado di parlare italiano e di comperarsi un televisore, quando mezza Italia non aveva ancora il bagno in casa? E’ così che ha costretto il resto del Paese a correrle dietro e imparare una lingua nazionale).
Le gemelle Kessler a Studio Uno (1965)
Parliamo adesso di un paese anormale: l’Italia di oggi. Che non è solo il paese di Berlusconi. E’ anche un paese per vecchi, dove uno su 5 ha più di 65 anni, un paese alla frutta che se si salverà sarà per merito della seconda generazione degli immigrati e non certo per i figli e nipoti dei rentier che campano perché i loro nonni gli hanno lasciato la casa in proprietà. In questo paese per vecchi i soldi da spendere non li hai a 30 anni (è già tanto se a 30 hai un lavoro) ma a 50. Quindi il “target commerciale” si sposta fino a poco prima dell’età della pensione (e a quella che era l’età della pensione prima della mannaia di Monti).
Quindi da questo punto di vista Mediaset ha tutto il diritto di “vendersi” i dati di quello che considera il suo “target commerciale” (primi tra i 15 e i 64 anni). Ma. Sì perché ovviamente ci sono non uno ma due “ma” grossi quanto una casa:
1) il target oggi non può essere definito solo in base a criteri demografici. Lo dicono in coro gli esperti di marketing. Non è solo un fatto di età, bisogna vedere chi sei, in che comunità sei inserito, in che rapporto con il mondo, con i consumi ecc. Diciamo che oggi il target è in qualche modo “culturale”. E comunque il target di Mediaset oggi non centra del tutto il target centrale per i pubblicitari: pubblico affluente (per quanto si possa essere affluenti oggi), medi e grandi centri, maschile e femminile, in grado di influenzare le abitudini di vita e di spesa di un’area più ampia della popolazione. 
Fiorello e Baudo a #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend (2011)
Lo zoccolo del pubblico di Mediaset oggi è sicuramente più giovane di quello dei “telemorenti”: ma è una nicchiona, importantissima, abbastanza femminile, abbastanza giovane, talvolta estranea allo "spirito del tempo", non abbastanza centrale per essere un baricentro della vita economica, sociale e politica di questo Paese. Perché una parte importante di quello che era il suo target è stato eroso negli anni da Sky.

Luca Di Tolla e Erica Saraniti al Grande Fratello
2) In questo paese “anormale”, in cui il mercato è sempre stato un di cui di equilibri politici e  culturali più complessi, non basta essere bravi commercianti. Gira gira è –quasi- altrettanto importante conquistare una centralità nella vita del Pese stesso. Ciò che né la Mediaset di oggi né la presenza berlusconiana dentro al Rai è in grado di attuare: basta vedere la parabola di Minzolini, espulso come un corpo estraneo da un’azienda che ha sempre visto il suo principale telegiornale come un notiziario governativo quanto si vuole ma ecumenico, qualcosa che deve unire e non dividere (leggi Fiorello), qualcosa che comunque deve parlare a tutto il Paese e non solo ad una parte. Quindi ha ragione Mediaset quando parla di “target commerciale”? Quanto è più propinquo l'uomo a uno suo desiderio più lo desidera, e non lo avendo, maggiore dolore sente. (Machiavelli).
UPDATE: Sull'argomento interviene anche il sito di LINK riproponendo un interessante articolo di Domenico Ioppolo, che consiglio di leggere.

lunedì 12 dicembre 2011

Il mestiere dell'Auditel


Proviamo a ragionare dell’unico tema che fa girare le palle al sistema televisivo italiano: l’Auditel. In queste settimane gli amici di TvBlog hanno lanciato un dibattito non banale su queste questioni. Però proviamo, per favore, a farlo in modo non ideologico.  Ogni volta che, parlando di Auditel, qualcuno mi fa le faccine (come dire “ma davvero ci credi? Allora sei un pollo”) mi viene in mente la vecchia battuta di Giorgio Amendola, il quale ricordava come, nel dopoguerra, prima di ogni elezione si verificasse un curioso fenomeno: non si trovava nessuno che dichiarasse di votare democristiano. Poi la DC regolarmente vinceva le elezioni e nelle sezioni di partito qualcuno spiegava il risultato ipotizzando brogli e congiure.

Provo a schematizzare quello che penso io (e non è detto che si debba essere d’accordo con me, naturalmente).
Per quanto possa farci dispiacere, l’Auditel nel suo complesso è un sistema abbastanza attendibile per capire chi guarda cosa in televisione. Non è attendibile per dare i voti, ma questa scusatemi è un’altra storia.
Potrebbe essere ancora più attendibile? Qui arriva la questione dei meter, o meglio, dei people meter. Ecco, questa è una questione complicata (e la linea, secondo me sbagliata,  di Auditel è sempre stata quella di parlarne il meno possibile: ingenerando così sospetti e dietrologie).
Riassumiamo (ma esperti come Daniela D’Uva di queste cose ne sanno molto più di me e potrebbero a ragione contraddirmi): i meter sono sicuramente più attendibili delle interviste telefoniche fatte per sapere che partito voteresti. Prima di tutto perché sono piazzati in 5200 famiglie e nessuno (forse Berlusconi, ma ogni tanto, e Procter & Gamble, più spesso) ha in Italia i soldi per fare sondaggi con una base di più di 1000 interviste. Quindi la mia personale opinione è che con i sondaggi politici ci potete nella migliore delle ipotesi incartare il pesce, mentre con l’Auditel non è consentito snobbareSe non altro perché il campione è molto più largo.
Ma come funzionano i people meters? Il people meter è uno scatolotto inventato dalla Nielsen (che è proprietaria anche dell’Abg Italia, la società che fornisce i dati al consorzio Auditel, ed è più o meno lo stesso device che Nielsen utilizza in tutto il mondo). I meter Auditel sono piazzati in 5200 famiglie di tutta Italia, scelte con metodo statistico per essere “rappresentative della popolazione italiana”. E’ chiaro che non è facilissimo convincere un professore universitario a mettersi in casa lo scatolotto qui a fianco raffigurato, per cui quando serve ai fini statistici la famiglia di un intellettuale, beh la andranno a pescare da un’altra parte. Ma è altrettanto vero che non è con i professori universitari che si fanno i soldi in tv. Così come è evidente che non sempre tutti i dati affluiscono effettivamente ai server dell’Agb alle 2 di ogni notte (con l’efficienza della rete fonia e dati italiana poi). Per cui ipotizzo che si introducano degli algoritmi (niente di scandaloso ma sarebbe interessante saperlo).
Lo scatolotto italiano (Pancini o chi per lui mi smentisca se sbaglio) prevede che ogni membro della famiglia prema il  telecomandino per dire “ehi, ci sono anch’io e sto guardando” e prema un bottone anche per segnalare se ci sono ospiti (cioé spettatori non membri della famiglia) e quanti. Si deve supporre (ma non ho evidenze, ovviamente, solo chiacchiere con amici di amici che hanno avuto lo scatolotto in passato) che un po’ di tifoseria si eserciti (se ti piace un certo programma o vuoi sostenere un conduttore, anche per nobili ragioni, magari qualche ospite in più salta fuori, ma ripeto è solo un’ipotesi). Anche se secondo me questo non sposta di tantissimo il risultato. Quello che mi lascia più perplesso è il conteggio del numero delle persone (davvero tutti cliccano ogni giorno o dopo un po’ si stufano di denunciare la propria presenza davanti alla tv? Non lo so, ma mi piacerebbe saperlo).

E poi il modo in cui si calcolano o non si calcolano gli ascolti dei programmi in time-shifting, per capirci “in registrata” (da un registratore analogico o digitale privato o da quello di Sky, ad esempio). Per non parlare di quelli che guardano i programmi su internet il giorno dopo (per ora siamo a qualche decina di migliaia ma aumenteranno). Non è che Nielsen non se ne stia occupando, del cross-platform, ma ancora non mi è chiaro come possono venire integrati i dati delle diverse “piattaforme”. L’altro problema infine è il calcolo delle “nanoshare”

Possibile che non ci siano sistemi più moderni? La Nielsen di meter  a dire il vero ne ha sviluppati più di uno, come potete leggere qui. Il meter TVM5, a differenza del TVM4 che viene ancora utilizzato in Italia (e in molti altri Paesi, in verità) riconosce da solo le persone presenti davanti alla tv e si accorge anche di quando se ne vanno. Non devono più "loggarsi" con un telecomando. Perché da noi non viene ancora usato? Immagino ci siano problemi tecnici, ma sarebbe interessante capirne di più.
L'occhio del meter TVM5

Dicono però i capi delle televisioni: se il risultato (ipotesi tutta da dimostrare) fosse che l’ascolto è più frammentato di quello che sembra (cioé che meno gente vede i canali generalisti e più gente si sparpaglia sul digitale, sul satellite e su internet) l’effetto potrebbe anche essere il crollo definitivo della produzione televisiva in Italia. Perché solo i grandi canali hanno i soldi (sempre meno) per produrre qualcosa che non sia un corso di ripittura della casa o il viaggio in moto al Grand Canyon. Checché ne pensate, in Italia non si spendono tanti soldi in pubblicità. Non siamo tra i primi 30 paesi del mondo come spesa pro capite per la comunicazione d’impresa. E ovviamente gli investimenti sono vistosamente calati nel 2011 (il 2012 è una totale incognita). Se ci togliete altri soldi, dicono le grandi televisioni, ripiegheremo sempre di più sugli acquisti di roba straniera. E' proprio così? Comunque, in che bella situazione ci siamo cacciati.

sabato 10 dicembre 2011

Oltre 6000

Glenville ha superato le 6000 visualizzazioni, grazie ancora. Sto lavorando alla sezione Attic, dedicata ai professionisti della comunicazione e agli studenti. Su questi temi usciranno nuovi post in questi giorni. Suggerimenti e consigli sono ovviamente graditi.

Se vi serve un hard disk, compratelo subito

Se vi serve un hard disk fiondatevi a comperarlo. E non perché i prezzi siano scesi: anzi, sono quasi raddoppiati rispetto a sei mesi fa. Ma perché continueranno ad aumentare.

E’ tutta colpa della rovinosa alluvione che ha colpito la Thailandia un mese e mezzo fa. Centinaia di morti e le maggiori fabbriche di hard disk del pianeta (Western Digital, Toshiba, Seagate) inondate sotto due metri d’acqua. La produzione non potrà rimettersi al passo prima di sei mesi, la penuria di hard disk e dei componenti per costruirli potrebbe far sentire i suoi effetti per tutto il 2012, secondo alcuni esperti. E’ una catastrofe per tutta l’industria dell’hardware. Si prevede che nei prossimi mesi la fornitura di hard disk non riuscirà a coprire più dei 2/3 della domanda. I grandi produttori di pc stanno aumentando i prezzi di listino, soprattutto per i pc portatili, che usano dischi da 2,5” realizzati in gran parte in Thailandia. E per un’industria già in crisi (una crisi inziata prima dell’attuale crisi mondiale, e causata dalla saturazione del mercato) è un colpo davvero pesante.

La penuria di HDD sta spingendo la diffusione dei dischi a stato solido (SSD), molto più veloci, più efficenti anche dal punto di vista del costo energetico, più affidabili. E per ora molto più cari. Ma il loro boom (non sono costruiti in Thailandia) ne sta facendo scendere il prezzo attorno a un euro per Gigabyte, com’era 6 anni fa per gli hard disk tradizionali.
 
In realtà noi oggi neanche ci ricordiamo che nel 1995 fa un Terabyte (1.000.000.000.000 di byte) era un’irraggiungibile unità di misura da CERN o da NASA. Il prezzo medio di un hard disk era di 1 dollaro per megabyte (1 Megabyte = 1.000.000 di byte). Nel 2000 era sceso a 40 dollari per Gigabyte (un Gigabyte è 1.000.000.000 di byte), nel 2005 era crollato a 1 dollaro per Gigabyte. E nel 2010 eravamo sprofondati a 7 centesimi per Giga. Un disco da 1 Terabyte costava a dir tanto 60 Euro. Bene, adesso stiamo rapidamente risalendo. Paradossi tragici della globalizzazione. (D’altronde senza la globalizzazione il Terabyte sarebbe ancora un’unità di misura da mainframe aziendale).