venerdì 6 dicembre 2013

Imparate da Bake Off la nuova estetica tv

Bake Off Italia, con Benedetta Parodi (Magnolia per Realtime/Discovery Italia).
La tv possiede una sua estetica e una sua liturgia, in continua evoluzione. La televisione italiana ha avuto per lungo tempo una estrema attenzione a questi aspetti specifici del linguaggio. Un esempio per tutti, di quasi mezzo secolo fa, è la Notte della luna: la lunghissima cronaca dello sbarco degli astronauti americani venne costruita con una sapientissima liturgia: dalla sigla, allo studio, alla scenografia, ai sottofondi musicali (oggi li chiameremmo sound design) delle 28 ore di ininterrotta diretta.
L'uomo sulla luna (Rai, 1969).
Se confrontate la notte della luna realizzata dalla Rai e la corrispondente diretta della CBS (per parlare dell'eccellenza) quella italiana ha molte più idee e intuizioni "televisive". C'è perfino, a due ore dall'inizio, un fake: gli attori che dovevano leggere testi poetici sulla luna si ribellano angosciati dal destino degli astronauti, con tanto di (finto) panico in studio. E poi, tra le varie civetterie, le telefonate in diretta con le cabine "a vista" per il pubblico, gli altri tre studi collegati, l'uso di due eidophor (i primi videoproiettori) di cui uno a colori, il tocco di follia della tappezzeria scozzese inventata da Tullio Zitkowsky ecc. Ma anche in regia c'è un team d'eccezione: Fabiano Fabiani, Ezio Zefferi e Aldo Falivena.
Cosa diavolo c'entra adesso la notte della Luna? C'entra, c'entra. Perché la perdita progressiva della liturgia televisiva è una delle peggiori conseguenze della lottizzazione della Rai: in questo trentennio i gruppi dirigenti sono stati selezionati sempre di più tra personale giornalistico e parapolitico senza gavetta televisiva e al di là delle effettive provenienze hanno avuto in comune una scarsa conoscenza e, peggio ancora, una scarsa considerazione degli aspetti "tecnici" del mezzo.
Le camere usate per Bake Off  non sono le tradizionali telecamere
da studio, sempre più in disuso nei programmi della nuova tv.
Oggi il testimonial dell'estetica e della liturgia tv (a parte qualche programma di eccellenza come Sanremo, Fazio, Pechino Express o qualche formato di talent importato dall'estero) è passato alle tv "native digitali" e a Sky. Se ponete questo problema a qualche dirigente di pedigree extratelevisivo spesso (anche se non sempre) sentirete rispondere: "ma tanto di queste cose vi accorgete solo voi addetti ai lavori".
Questa risposta naturalmente è vera. E allo stesso tempo è falsa.
 Facciamo un esempio: Bake Off. Il programma funziona. Ma la mise en scène ha la sua importanza: le luci, la palette dei colori, le ottiche, la "pasta" delle riprese, la ridotta profondità di campo, il montaggio. Sì, perché i programmi migliori che escono dalle tv di tutto il mondo ormai sono programmi "montati", con molta post-produzione. Basta con la mistica della diretta tipica delle tv latine. La diretta serve se sta succedendo qualcosa di clamoroso, altrimenti molto meglio un programma curato nei ritmi, nella fotografia, nelle sottolineature musicali, nella grafica e nella regia.
Vedendo certi talk, certi telegiornali o certi programmi di daytime sembra invece di vedere un quotidiano o un settimanale mandati in stampa senza l'uso di impaginatori e art director. Ma la gente se ne accorge? Se ne accorge se può confrontare due stili, due proposte, due tipi di televisione. Se ne accorge di sicuro il pubblico giovane e centrale. Quello che i pubblicitari inseguono. Pensateci, ragazzi.

giovedì 5 dicembre 2013

Mission e Drive In: chi è l'ipocrita?

Il miliziano di Robert Capa (Life).
Per uno scherzo del destino (o dei palinsesti tv, che è lo stesso) sono andati in onda nello stesso giorno, su Raiuno e su Canale 5, due programmi che hanno dato molto da fare all'ipocrisia nazionale.
Su Raiuno è andato in onda Mission, un'idea non banale subissata da una inenarrabile campagna di accuse, distinguo, minacce di finire sulla graticola, da parte di un plotone che aveva al centro i 5Stelle e ai lati, moralisti un tanto al chilo e, probabilmente, organizzazioni umanitarie "concorrenti".
Al Bano in Mission (RaiUno).

Immagino che la pressione convergente di tutta l'ipocrisia nazionale - che quando si tratta di tv è presente a ranghi compatti- abbia convinto i realizzatori del programma ad espungere qualunque concessione alla metrica televisiva: nella narrazione, nelle immagini, perfino nelle musiche. Ma la domanda è: sarà giusto chiedere alla tv di non utilizzare la propria retorica per raccontare una storia, un problema, un mondo? Chiedereste al Corriere della sera o alla Repubblica di impaginare la prima pagina come l'Osservatore Romano se ospitano un'intervista al Papa? O di non scegliere le foto giuste per proporre un contenuto che non può non avere un aspetto emozionale? Perché la tv deve sempre pagare prezzi che agli altri mezzi non vengono richiesti? Seguendo questa logica neanche il miliziano di Robert Capa avrebbe avuto cittadinanza in tv.
Epoca su Drive In, con un intervento di
Umberto Eco (1985).
E veniamo all'altra faccia della medaglia, il documentario sui 30 anni di Drive In curato da Luca Martera (anche se dietro mi pare di vedere la manina, mi sbaglierò, dello stesso Antonio Ricci). Il doc di Martera è fondamentale per capire, soprattutto nella prima parte e soprattutto per chi non c'era o non era nato, cosa fosse Drive In. [Per due anni ho lavorato a Drive In come delegato di produzione e quindi ero lì, prendete queste considerazioni con beneficio d'inventario].
L'idea di indicare in Drive In la summa dell'ideologia berlusconiana è un po' ridicola e superficiale: mi ritrovo totalmente nella risposta che al quesito specifico ha dato Carlo Freccero.
La tv che aveva in mente Berlusconi non era Drive In, era una Raiuno con più lustrini e più detersivi. L'aria che si respirava a Drive In era di tutt'altro genere. E non solo perché dietro la scrivania di Ricci troneggiasse un grande ritratto di Palmiro Togliatti. Quella poteva essere una civetteria di pura marca riccesca. Ma perché il gruppo di lavoro (compresi Staino, Ellekappa, Disegni e Caviglia ecc., per non parlare dei testi satirici scritti da Vaime per Gianfranco D'Angelo) era totalmente estraneo a quel mondo. Per essere onesti, la tattica di Ricci era furbacchiona: alludere, sfottere, lanciare il sasso e nascondere la mano. E delegare la mise en scène a un reparto con cui non veniva quasi a interagire: la regia. Ricci non usciva dal suo ufficio. Gli autori scrivevano tutto, un copione completo di ogni virgola. Beppe Recchia doveva metterlo in scena.
Antonio Ricci.
Le fast food poppute erano un gioco sul filo dell'ambiguità, che Recchia interpretava secondo lo stile di casa e che Ricci, invece, infarciva di sottotesti ironici, totalmente collidenti con quel milieu. Che, ai tempi, era davvero prevalente. Ricci insiste fino alla noia (è diventata quasi una fissazione) sul fatto che le copertine dell'Espresso e del Panorama ancora non berlusconizzato dell'epoca fossero piene di donne nude (ed è vero, sui voli transcontinentali i due settimanali italiani erano spariti dalla mazzetta delle letture offerte ai viaggiatori). Ma anche la tv pubblica era molto libera: ricordo un incredibile Speciale del TG1 su Cicciolina, un'intervista total naked che durava quanto un'inchiesta sui cassintegrati di oggi. Ma non è questo il punto, e secondo me Ricci esagera un po' con questa reiterata autodifesa e con lo zelo con cui esibisce citazioni "di sinistra". Il punto è che le cose prendono un significato a seconda di come finisce la storia. Troppo facile indicare Drive In (il dito) al posto della società italiana (la luna). Uno dei peggiori lasciti del ventennio berlusconiano è quello di averci consegnato ad un neo-puritanesimo ipocrita, soi-disant politically correct, che pretende di convincerci che la pruderie sia di sinistra.
A proposito: l'unica cosa che Ricci non ha fatto raccontare a Martera nel suo rapporto della difesa è un episodio che avvenne dopo la chiusura di Matrioska, nata da una costola di Drive In. Come racconta il documentario, in seguito alla registrazione a sfottò del coro di Comunione e liberazione (che non andò mai in onda) il programma, visionato da Roberto Giovalli e poi portato ad Arcore, fu bloccato. Cosa avvenne dopo? A Ricci fu ritirato il pass e gli fu fisicamente impedito di entrare in studio (era uno studio esterno, lo Studio One, alla periferia di MIlano). La vigilanza ebbe l'ordine di non farlo entrare. Ma Ricci tenne duro e vinse. Il programma ripartì con un altro titolo, Araba fenice. Un titolo che solo l'ex vicepreside Professor Ricci avrebbe potuto inventare.
La colpa di Antonio Ricci non è Drive In: la colpa di Ricci è di non aver tentato strade nuove negli ultimi dieci anni.







mercoledì 4 dicembre 2013

Che c'è di strano se Checco Zalone ha successo?


Checco Zalone e Robert Dancs in Sole a catinelle, regia di Gennaro Nunziante.
Con colpevole ritardo ho visto il nuovo film di Checco Zalone (Sole a catinelle, oltre i 50 milioni al box office).
Insomma, ci avete fatto (non solo a me, a un sacco di altra gente) due palle così sul fatto che fosse un film banale, "com'è possibile che abbia fatto tutti quei soldi", addirittura "berlusconiano". Mi ritrovo un film in cui si ride (perché si ride), senza troppe cadute di gusto, con doppie letture disseminate qua e là, con intuizioni fulminanti (il discorso becero del protagonista che finisce con "la pancia del Paese", il finale con l'eutana-zia, ecc.). E non è neppure girato e montato alla sgangherata come i mitici Vanzina di un tempo. Le canzoni sono irresistibili, piace ai bambini, è un prodotto family perfettamente riuscito.
Marco Paolini (al centro) tra gli altri protagonisti del film.
Per inciso, è il primo film popolare che parla davvero della crisi, creando identificazione nello spettatore medio che va al cinema con tutta la famiglia e si ritrova, come il protagonista, senza i soldi per portare il figlio in vacanza. Identificazione nella commedia: e quindi rassicurazione, effetto prozac. Non è mica un crimine. Chissà perché avrà avuto tanto successo. Mah. Indovinala grillo.
Ai tempi di Totò i critici cinematografici passavano la mano ai loro vice (che a quel tempo firmavano appunto "Vice") pur di non recensire i suoi film. Così, per non sporcarsi le mani. Oppure si limitavano ad un "ed ecco l'ennesimo film di Totò". E adesso? Parlarne male adesso, di Luca Medici e magari rivalutarlo tra vent'anni? O invece portarsi avanti, con un po' di lungimiranza? D'altra parte, se Zalone e Fabio Volo non sono cinema e narrativa ma televisione forse siamo davvero nel Ventunesimo secolo.