domenica 27 ottobre 2013

Regista e puparo: come hanno fatto Gravity

La scena clou di Gravity, di Alfonso Cuaròn. Per realizzarla sono stati impiegati 15.000 core.
Dalle nostre parti si tende sempre a snobbare gli effetti speciali. "Un film di effetti speciali" è una specie di anatema. Equivale al sintetico "è un'americanata" dei nostri nonni.
In realtà il set classico, per buona parte del prodotto cinematografico internazionale che conta al box office, è ormai sempre più intrecciato con il set virtuale. I film non si girano più in pellicola ma con l'Alexa, il set non è mai completo, c'è sempre una set extension, una parte che verrà aggiunta dopo, ecc. Lo stesso concetto di post-produzione (giro un film e poi qualcuno mette gli effetti) è un po' superato. Oggi si gira avendo già il set virtuale pronto, sincronizzato con il set reale, la color correction si sperimenta già sul set e anche il motion tracking.
Camera robotizzata e Lightbox di LED per le riprese di Gravity.
Gravity ha fatto un passo avanti. Da quel che ho capito hanno dovuto strappare il film dalle mani di Alfonso Cuaròn che sarebbe rimasto a perfezionare i trucchi per un altro anno. E già un anno in più ci aveva messo rispetto alla schedule. Ma in Gravity gli effetti sono nati, in pratica, prima del set. E per realizzarli è stata impiegata una potenza di calcolo estrema, con un massimo di 15.000 core.

Quando vedete Clooney e la Bullock volteggiare nello spazio (o sbattere terrificanti craniate contro un'ala di una stazione spaziale) in realtà né George né Laura sono in altro posto che su una sedia, piazzata in una specie di canestro che la fa rollare e beccheggiare. Attorno a loro una gigantesca camera robotizzata che esegue movimenti velocissimi sui tre assi, trackati sulle immagini del background di sintesi già realizzato. Poi la faccia dei due attori viene inserita in compositing (hanno usato Nuke) dentro gli scafandri. Ma il colpo di genio è il cosiddetto Lighbox: in pratica, tre pareti di led che proiettano sui volti degli attori l'immagine della realtà (virtuale) che avranno intorno, in modo da dipingere sulle loro facce le luci e i contrasti del mondo sintetico che li circonda.
Qui di reale c'è solo il volto della Bullock: il resto è computer.
Cambia il mestiere del regista. Non c'è più una rappresentazione, magari su un green screen che verrà poi sostituito con un fondale animato. C'è una direzione di attori che è anche un puppeteering. Sei al tempo stesso regista e puparo. E non puoi esserlo se non sei in grado di dialogare, contemporaneamente, con le due star e con la terza star, e cioè la Framestore di Londra, che ha realizzato e diretto quasi tutti gli effetti del film. In pratica, il film è stato realizzato prima di girarlo. Poi sono stati aggiunti gli attori.

sabato 26 ottobre 2013

Addio a Zuzzurro, lunare e consapevole


Andrea Brambilla (1946-2013).
Volevo scrivere di altre cose, ma poi è morto Zuzzurro. Chi non ha vissuto quel periodo degli anni ottanta in cui nasceva Drive In (e, in seguito, il prodotto forse più pregiato di Zuzzurro e Gaspare, Emilio) non può capire quale fosse davvero il clima. Adesso si dice "la tv berlusconiana". Macché. Berlusconi c'entrava poco e nulla. Berlusconi metteva i soldi. C'entrava molto quella temperie televisiva che era nata dai programmi delle tv locali lombarde e, assieme, dal Non stop di Enzo Trapani. E che aveva avuto la sua definitiva sanzione, appunto, con Drive In. Una comicità lombarda, fresca per stili comunicativi e per tematiche, che oggi ci sembrano datate, ma furono l'unica, formidabile istantanea degli anni ottanta del secolo scorso. Di cui Antonio Ricci non fu forse l'unico ideatore ma certamente l'interprete più intelligente.
Il cast di Emilio (1989).
 E nasceva da una metrica che era quella dei locali milanesi, una miscela irripetibile di cultura e incultura, finezze e volgarità, ingenuità e consapevolezza. Era comunque un mondo nuovo, in cui Andrea Brambilla (Zuzzurro) e Nino Formicola (Gaspare) sguazzavano come sguazzano in una situazione ambigua dei veri investigatori. Il personaggio più noto di Andrea, appunto il commissario Zuzzurro, era un melange di riferimenti a grandi loser della cultura di massa, dall'ispettore Clouseau della Pantera rosa ai Dupont e Dupond di Tintin.
Di quel mondo Brambilla e Formicola sono sempre stati l'avanguardia consapevolmente surreale: dentro la loro scrittura c'era la parte più lunare della vis comica di Boldi e di Teocoli, ma anche una ricerca originale, caparbia, non premiata sempre dal successo ma mai banale.
Quando gli anni ottanta finiranno per davvero- speriamo presto- e se ne potrà cominciare a parlare con distacco storico, allora sarà più facile spiegare a tutti che Andrea Brambilla è stato un grande artista.

lunedì 21 ottobre 2013

Perché i tycoon del web investono sul giornalismo?

Jeff Bezos, fondatore di Amazon.

La scorsa settimana anche il fondatore di eBay, Pierre Omidyar, ha annunciato che intende investire nell'informazione, appoggiando Glenn Greenwald, il giornalista del Guardian che aveva tirato fuori le rivelazioni sulla NSA uscite dai documenti di Snowden. Per il nuovo sito di news scottanti di Greenwald l'uomo di eBay si è detto disposto a mettere sul piatto 250 milioni di dollari. Spiccioli per un magnate del web ma tanti soldi per l'agonizzante mondo della grande informazione. In pratica, ricorda il New York Times, la stessa cifra investita due mesi fa da Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, per
Pierre Omidyar, fondatore di eBay.
 comperare il Washington Post, la bibbia americana dell'informazione, il giornale che fece scoppiare il Watergate.  In questa tendenza Bezos e Omidyar (eBay) non sono soli: anche la vedova di Steve Jobs ha annunciato l'investimento in Ozy Media, una start-up di grande giornalismo. E Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook, ha comprato il New Republic. In generale, si tratta di investimenti non genericamente su "mass media" ma sul giornalismo, che nella dizione anglosassone ha un profilo "alto": significa inchieste, rivelazioni anche scomode, approfondimenti, lavoro sul campo ecc. Non marchette, per capirci.
Perché lo fanno? E' una forma di "europeizzazione", o addirittura di italianizzazione, della realtà americana? Anche nella terra del Quarto potere il giornalismo è diventato uno strumento di altri poteri? E' una forma di vanteria, una costosa fiche per entrare "in società" dopo un decennio passato a fare miliardi portando i propri jeans su e giù per la Silicon Valley?
MacKenzie McHale (Emily Mortimer), paladina delle
hard news in Newsroom.
 O è anche qualcosa di diverso? In fondo nessuno come i tycoon di internet e dell'high-tech sa utilizzare l'enorme possibilità della rete di "customizzare" un sito di informazioni per dare ad ognuno di noi quello che cerca. Ma c'è anche l'idea, alla quale noi cinici italiani magari guardiamo con ironia, che un'informazione di qualità possa rendere il mondo migliore. Lo so che a noi questi discorsi sembrano ingenue trombonate, e infatti non capiamo Newsroom: perché nel Paese della libera intrapresa, nell'America in cui "non è ancora morto di fame nessun puntando sul cattivo gusto", come diceva P.T.Barnum, le "hard news" sono ancora avvolte in un'aura sacrale che da noi non hanno mai avuto: l'idea di un contropotere che serve a bilanciare il rapporto tra governo e cittadini, tra società politica e società civile. E a mandare avanti la società. Magari è un'illusione, ma è quello che ci resta del Sogno americano.

venerdì 18 ottobre 2013

Newsroom, Santoro e la trappola per topi

Jeff Daniels in The Newsroom.
Riporto qui il post che ho pubblicato sull'Huffington Post. 

Sarò l'ultimo a stupirmi del fatto che ieri Santoro, con il porno-soft di Michelle Bonev ("Lesbo ad Arcore 1", cui immagino seguirà "Lesbo ad Arcore 2" e infine "Lesbo ad Arcore, the Reunion", con la riapparizione del mitico stalliere sotto forma di ectoplasma) abbia raccolto quasi 3 milioni di telespettatori, mentre la prima puntata del bellissimo e superpremiato The Newsroom abbia portato a casa un misero 2%. (Anche, ma non solo, a causa di un doppiaggio , parafrasando il ministro Cancellieri, inusuale). D'altronde un amico mi ha ricordato che lo slogan della grande pay tv che prodotto la serie di Aaron Sorkin è "it's not tv, it's HBO". E se non è tv tradizionale negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia.
Michele Santoro ascolta il racconto di Michelle Bonev
(Servizio pubblico, La 7).
Onore al merito per Raitre che ha tentato questa operazione di svecchiamento (a Raitre non si perdona niente: quando manda in onda Chi l'ha visto? tutti a dire che non si rinnova, quando manda Fazio costa troppo, quando manda il bel drama di Sorkin è troppo alta, ecc.).
Ma il piatto forte della serata, ieri, rimaneva Santoro. Il quale però, sia detto per inciso, non è più un evento: è un soldo asset. Insomma, non fa il 20% con le succose rivelazioni di Michelle Bonev sui gusti sessuali delle frequentatrici di Arcore. Fa un solido, roccioso 12%. Insomma, è un genere televisivo di successo. E' l'equivalente tv di The Mousetrap di Agatha Christie, che tenne le scene a Londra per 50 anni. Tutti sapevano chi fosse l'assassino, ma andavano  ugualmente a gustarsi la rappresentazione. Che nel caso di Servizio pubblico e del suo showrunner (il più bravo di tutti) affonda le radici nell'antica tradizione del melò, e basa molto della sua esistenza sul villain più acclamato, Silvio 'O Malamente, attorno al quale si esercita una rodata compagnia di giro. Per questo gode di un pubblico fedele. Almeno finché 'O Malamente, come Ridge di Beautiful, non si ritirerà dalle scene. 
Il resto è informazione. Compreso Newsroom. Che barba, che noia, avrebbe detto Sandra Mondaini. 

martedì 15 ottobre 2013

Come abbattere la Rai in 10 semplici lezioni

Fabio Fazio e Renato Brunetta a Che tempo che fa.
Volete abbattere definitivamente la Rai e non sapete come fare? Ecco un vademecum di semplice attuazione, già in uso presso diverse forze politiche e poteri vari.
1) Agitate con molta veemenza il tema dei compensi "alle star". Emettete gridolini di stupefazione, connessi a smorfie di scandalizzato disgusto, ogniqualvolta vi vengono comunicati i compensi (veri o presunti) dei conduttori televisivi della Rai. Evitate però accuratamente di citare i compensi dei loro omologhi Mediaset (e in qualche caso, anche della 7 e di Sky).
2) Paragonate i compensi delle suddette "star" non a quelli degli attori del cinema e dei calciatori (categorie, come si sa, intoccabili) ma a quelle di un precario (tipo quelli che usate nei vostri giornali a 10 euro a pezzo). Creerete così una efficace ventata di antipatia con l'obiettivo di minare la credibilità degli asset di una rete.
3) Riferite i compensi, medi, alti e altissimi, alle ore di messa in onda e non ai mesi di lavoro. Ad esempio: prendi tutti quei soldi per 3 ore alla settimana? (Anche se per realizzare quelle tre ore sono stati necessari mesi di impegno continuo).
Maurizio Crozza.

4) Fingete di non sapere che ogni polemica sui compensi alla Rai serve sostanzialmente per "calmierare il mercato " (trad. it.: far risparmiare soldi alla concorrenza).
5) Evitate di spiegare che in passato i personaggi televisivi tendevano comunque ad andare sulla Rai perché, a parità di compenso o anche a compenso inferiore, l'investimento della tv pubblica sulle altre voci accresceva il valore del prodotto (scenografie più belle, più tempo per provare i programmi, più cura di tutti gli aspetti della produzione). Tutte cose che con la crisi non si possono fare.
6) Date addosso, sempre, alle "produzioni esterne". Chiamandole "appalti", e dando l'idea che dietro c'è sempre la magagna. Non dite mai che le altre tv pubbliche europee, BBC in primis, danno all'esterno metà dei loro programmi e così risparmiano, mettono in sana competizione i gruppi creativi interni ed esterni e fanno lavorare i giovani.
7) Dite "basta al teatrino della politica", ma nel frattempo sgomitate per gli spazi nei tg e nei talk show, dando così l'idea che la politica sia un interminabile caleidoscopio di chiacchiere per riempire i palinsesti tv a poco prezzo.
8) Se pensate che Crozza costi troppo, non dite "fatelo costare meno". Dite: anatema. Qualcuno vi sarà grato.
9) Ripetete che Fazio costa troppo, ma non svelate che il vostro sogno è che il servizio pubblico serva solo a mettere in campo la squadra primavera. Quando un giocatore diventerà bravo, passerà alla serie A (che a quel punto starà da un'altra parte). E comunque, non esagerate con la sperimentazione: meglio che la Rai non si rinnovi troppo.
10) Con l'altra mano, raccomandate un amico.

giovedì 10 ottobre 2013

Radio Belva e la crisi del trash in tv

Radio Belva di Cruciani e Parenzo, su Retequattro.
Noi televisivi siamo presuntuosi e pigri. Quando ci siamo fatti un'idea del pubblico, facciamo fatica a cambiarla. Il pubblico televisivo, invece, non sarà migliorato ma si è certamente scaltrito. Certe operazioni sono carta conosciuta, le decodifica al volo. Non dimentichiamoci che siamo un popolo di CT della Nazionale e di Direttori di televisioni. Salite su un autobus e lo scoprirete.
Bambola Ramona e Fabio Canino
a Cronache Marziane (2004).
Sto parlando di Radio Belva. Se nel 2004 avessi messo assieme Sgarbi, Borghezio, Nannarella, la Parietti, un nazista e Paolo Villaggio, qualcuno avrebbe criticato, molti avrebbero seguito e qualcun altro avrebbe gridato al cult, al camp ecc. Ne so qualcosa perché ho fatto Cronache Marziane, quindi qui nessuno è verginello. (Anche se là si tentava qualche sottotesto, c'era più freschezza e Canino aveva una sua innata eleganza). Il punto è che oggi, anche se da qualche trovata sprizza
comunque una corrosiva intelligenza (come il fatto di mandare Emilio Fede in un circolo di Sel) questo tipo di prodotto viene sostanzialmente rifiutato dal pubblico televisivo. Sia dal pubblico popolare che da quello "colto". Non stanno più al gioco, ragazzi. E' successo anche alla breve esperienza di Parenzo su Raitre quest'estate. Il clima è cambiato. L'antipolitica magari se la prendono (il 3-4% di Paragone non è affatto un pessimo risultato- e può ancora salire). Col trash (anche divertente, in vari tratti) sono diventati selettivi. Gli italiani conoscono i meccanismi televisivi anche meglio di noi, perché guardano la tv più di noi. Sgarbi che urla "ti piscio in testa" non stupisce e non incuriosisce, dà solo fastidio. Conoscono la ricetta e non hanno tanta voglia di buttarla in caciara. Sono incazzati e impauriti. Hanno altre cose per la testa.
Tocca rivedere il ricettario, ragazzi.

martedì 8 ottobre 2013

Morandi: quando Canale 5 sembra Raiuno

Morandi e Fiorello in duetto dall'Arena di Verona.
Ieri Morandi su Canale 5 ha raccolto il 24%, che contro Montalbano e Report è un ottimo risultato. E' fin troppo facile aggiungere che su RaiUno uno show potente come quello diretto da Cenci avrebbe portato a casa più del 30% (anche perché non ci sarebbe stato nessun Montalbano a contrastarlo).
Cosa abbiamo capito del programma di ieri (che continua stasera)?
Faccio una lista della spesa:
1) Morandi e Montalbano -o meglio, Morandi+Fiorello+Carrà+Morricone, la serie di Montalbano prodotta da Degli Esposti, e se volete anche Roberto Benigni-  appartengono alla stesso mondo: sono la proiezione dei sedimenti valoriali e dei desideri della generazione che oggi ha superato i 50 anni, o meglio della sua parte migliore, quella che può condividere valori ed esperienze non divisivi con il pubblico più giovane e conquistarlo. Sono il vero modello generalista della tv italiana: se volete, sono il meglio della Prima Repubblica. Chiunque voglia conquistare il centro (non della politica ma dell'agenda mediatica) deve partire da qui.
2) Ne è una prova il calo vistoso di un bel programma come Report. Certamente una parte dei suoi spettatori per una volta ha preferito i duetti tra Fiorello e Morandi alle inchieste di Milena Gabanelli. Non c'è niente di clamoroso, è un fatto quasi naturale.
3) Un'altra parte del pubblico, invece, ha scelto di non seguire Morandi perché "io non guardo Canale 5", ecc. Una frase che si sente spesso in fasce non indifferenti della società italiana. Una frase che non si sentiva vent'anni fa. Ma d'altronde in mezzo c'è proprio il ventennio berlusconiano, di cui Mediaset in quanto azienda è stata al tempo stesso rentier e vittima (per la conseguente perdita di centralità e di brand).
4) Gli ascolti dimostrano che in un futuro deberlusconizzato (ciò che prima o poi dovrà avvenire, per inevitabili ragioni storiche o anagrafiche) il gruppo Mediaset potrebbe ancora recuperare centralità se queste incursioni in partibus infidelium non si limitassero a due serate l'anno (come è avvenuto nel 2012 con Celentano) ma si trasformassero in una più articolata politica editoriale, com'era nella Mediaset dei tempi di Gori, Costanzo ecc.
Morandi e Carrà a Verona.
5) Ma la Rai non aveva proprio i soldi per produrre questo concerto? Poi non ci si lamenti se con Jovanotti si sono limitati a mandare in onda un dvd.

P.S.: Un certo imbarazzo, quasi un effetto vecchio Festivalbar, lo si prova comunque vedendo in televisione delle belle riprese in Hd mandate in onda, per forza di cose, in definizione standard e con una pesante compressione digitale. Il pubblico che un tempo seguiva Canale 5 oggi è abituato a fruire di un'alta definizione smagliante su Sky (e anche sul canale 501 della Rai) e questo a lungo andare dà all'immagine Mediaset un retrogusto anni Novanta. La questione dell'Hd non è esplosa solo per ragioni anagrafiche, che riguardano sia il pubblico anziano che i manager delle tv. Su chi è più giovane queste cose balzano subito all'occhio.

giovedì 3 ottobre 2013

Una mamma imperfetta merita di più

Lucia Mascino, Chiara ne Una mamma imperfetta.
Per chi ancora non l'ha vista: Una mamma imperfetta è una signora web-serie. Scritta bene, recitata bene e ben girata. E' un gioiellino. Alla FictionFest Ivan Cotroneo, che ne è a tutti gli effetti l'autore (la Produzione è di Francesca Cima, Indigo), ha presentato la seconda stagione, che è ugualmente bella. E' un prodotto in linea con quelli internazionali, ha ritmo, contemporaneità, è divertente, parla di cose vere e ci fa sopra una commedia low-cost. Chapeau. Dopo essere andata sul web per tutta la primavera, grazie al corriere.it, adesso Una mamma imperfetta è in onda su Raidue nello slot che gli addetti ai lavori chiamano "access": per capirci, i minuti che precedono l'inizio vero e proprio del programma di prime time. Il problema è che in quella fascia Una mamma imperfetta fa il 4%. Come tutti i programmi (o i promo lunghi) che l'hanno preceduta nelle stagioni passate.
Ivan Cotroneo.
[Per essere precisi: un 4% fatto dell'8% dell'Emilia e dell'1% della Sicilia, così come Pechino Express fa il 12% in Emilia e il 4% in Sicilia. Mentre Made in Sud fa il 22% in Campania e il 4% in Lombardia, totale quasi 6%]. In pratica, c'è un pubblico potenziale, colto, urbano, un pubblico "Sky", per capirci come target, per programmi come Una mamma imperfetta e Pechino Express che non affluisce quanto potrebbe. Basta fare il confronto: Mamma imperfetta: 6% tra i laureati e meno dell'1 % tra i "senza istruzione", mentre Made in Sud meno dell'1% tra i laureati e 15% tra i "senza istruzione" (nella quale categoria si comprendono i bambini piccoli, sia chiaro).
Evidentemente, in quella fascia così bombardata dalla contro-programmazione (è la "fascia di rispetto" nella quale, ad esempio, nessun canale Mediaset può inserire un programma che possa dar fastidio a Striscia la notizia; è la fascia in cui va in onda il finale di Affari tuoi, ecc.) gli ascolti di reti come Raidue -e non solo- sono anelastici. Qualunque cosa "breve" ci metti fa il 4%. Un ascolto è anelastico quando nessuno, se non il tuo zoccolo duro, passa a vedere che c'è in onda da te in quella fascia. Anche un pubblico potenzialmente interessato al tuo prodotto non ti intercetta. E' il momento dell'assassino: se ammazzi uno in diretta non se accorge nessuno. Un po' come quando, in un mercato rionale, il fruttivendolo in fondo a destra mette le zucchine migliori a un prezzo stracciato e nessuno se ne accorge. Forse è un problema di brand (chiunque abbia avuto l'arduo compito di prendere in mano Raidue, negli ultimi anni, si è ritrovato una rete che non aveva sedimentato un'identità precisa, e nel contempo, senza l'aggio né le risorse per poter rischiare più di tanto. E' facile criticare, più difficile indicare una strada).
Costantino della Gherardesca, showrunner
di Pechino Express.
E forse è un problema più generale. Un tempo Raiuno era la rete democristiana, Raidue quella socialista e Raitre quella dei comunisti. Poi sono diventate, a parole, Raiuno quella della famiglia, Raitre quella di Raitre e Raidue, i teoria, quella dei giovani. Senza però la possibilità di rischiare e di osare oltre il politically correct, perché Raidue è parte del "servizio pubblico". Forse sarebbe il caso di studiare come hanno risolto -o perlomeno tentato di risolvere, con qualche successo- questo problema in Gran Bretagna, dove hanno creato Channel 4: canale pubblico ma che vive solo di pubblicità e può osare quello che zia BBC non potrebbe mai. L'alternativa è cercare la quadratura del cerchio: che è sempre più difficile.