giovedì 23 maggio 2013

Topolino 3000, un lascito culturale


Topolino n.3000. © Disney
E’ appena uscito il numero 3000 di Topolino (per i filologi, Topolino libretto. Prima del 1949 Topolino era un giornalino formato tabloid). Il numero 3000 è un piccolo gioiellino, quasi un coffee-table book in formato Reader’s Digest. Per le sceneggiature e i disegni Valentina De Poli ha scomodato tutto il gotha del fumetto disneyano di più generazioni, da Tito Faraci e Francesco Artibani a guru della matita come Giorgio Cavazzano (il più chic di tutta la storia di Topolino) a Silvia Ziche, e poi Casty, Andrea Freccero e Massimo De Vita. 
La storia d’apertura, firmata appunto da Faraci (sceneggiatura) e Cavazzano (disegni) vale da sola l’acquisto, ed è un crudelissimo colpo al cuore per chiunque sia cresciuto leggendo Topolino.
Sono tutte storie italiane,appunto: perché Topolino e Paperino, da tempo, sono quasi soltanto italiani. Nel senso che l’Accademia Disney, e il know-how della lunga tradizione del fumetto disneyano, è sopravvissuta pressoché solo in Italia ( e un po’ nel paesi dell’Europa del nord). Le storie italiane vengono tradotte “in tutto il mondo” (dove questo worldwide non comprende più, da tempo, gli Stati Uniti, patria disneyana dove il comic è scomparso come abitudine di lettura di massa).
Giogio Cavazzano.

Un tempo questo gap tra Italia e Stati Uniti veniva spigato in termini di arretratezza (nel senso che la tv, i videogiochi e internet erano arrivati negli Usa prima che in Italia, quindi le abitudini di consumo e di impiego del tempo libero si erano trasformate molto prima oltreoceano). Quindi noi leggeremmo ancora Topolino (molto meno di prima, stando ai dati di diffusione) soltanto perché la rivoluzione digitale da noi è arrivata dopo. Ma questa –per fortuna- è una spiegazione semplicistica. In realtà le storie disneyane scritte e disegnate in Italia hanno tuttora una loro vitalità perché provengono da un ceppo letterario più robusto rispetto a quello della madrepatria. In California il fumetto disneyano venne sempre considerato dalla casa madre di Burbank come uno dei tanti prodotti “ancillari”, che si trovavano in fondo alle relazioni di bilancio, e le gemme che nacquero (da Floyd Gottfredson al più grande di tutti, Carl Barks) furono casi isolati ed irripetibili, totalmente decentrati rispetto alla filosofia e alla pratica quotidiana della major di Buena Vista Avenue. Mentre in Italia la rivista Topolino rinacque nel dopoguerra in Via Corridoni e poi in via Bianca di Savoia, a Milano, in quattro stanze della Mondadori che dividevano il palazzo con le redazioni giornalistiche di Epoca prima e di Panorama poi, e con le redazioni letterarie da cui uscivano i romanzi e i saggi che hanno riempito le librerie italiane per cinquant’anni. Era la Mondadori di Enzo Biagi e di Vittorio Sereni, di Lamberto Sechi e di Oreste del Buono, quella casa editrice sospesa “tra Quasimodo e Topolino”, come si disse allora. 
I numeri 1, 500, 1000, 1500, 2000 e 2500 del settimanale Topolino.
Quella contaminazione giornalistica e letteraria (avvenuta in gran parte inconsapevolmente) ha generato il Topolino di Mario Gentilini (che fu raccomandato ad Arnoldo Mondadori da Cesare Zavattini) e poi quello di Gaudenzio Capelli, di Elisa Penna, di Massimo Marconi e di tanti altri che provenivano da quel robusto ceppo. Poi la Disney italiana ha preso la sua strada (ed è stato meglio così, perché la Mondadori considerava ormai la franchise disney come una commodity) ma ha mantenuto il know-how originale, costruendo l’Accademia Disney, la scuola di fumetto più importante del mondo.  E’ per questo che, anche di fronte alla rivoluzione digitale, le idee nuove per il publishing Disney, cartaceo ed elettronico, potranno arrivare più facilmente dall’Italia che da qualche altro Paese. In bocca al lupo per il numero 4000.

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