lunedì 31 ottobre 2011

Cenerentola e il big bang della tv dei format


E’ vero che Cenerentola è un topos che funziona sempre, ma il 26% al giorno d’oggi è un dato da far perdere la testa. Soprattutto se confrontato con alcuni flop recenti delle ammiraglie. Tutto sembra confermare (vedi anche il dato di Don Matteo) che da noi ancora più che all’estero la crisi sta ridisegnando la domanda del pubblico televisivo: nella tv della crisi o combatti o rassicuri.

Ti scelgono se sei un combattente, e quindi vieni considerato “dalla parte di buoni” –almeno da quella parte di pubblico, sempre più maggioritaria, che ha al centro della sua agenda mentale la fine dell’era berlusconiana- e allora il “genere” conta poco, purché rientri nel nuovo “macrogenere”: e allora non importa che sia un talk o un programma comico, l’importante è che sia “visibile” – quindi preferibilmente in prime time- e chiaro nei suoi obiettivi, una sorta di surrogato mediatico della manifestazione di piazza (che nella precedente epoca storica aveva anche un fortissimo elemento rassicurante e quasi consolatorio).
Oppure se rassicuri: rassicuri il pubblico più anziano e tradizionale con ricette immediatamente comprensibili e fruibili, una sorta di prozac televisivo; o rassicuri una parte fondamentale di pubblico femminile,  quello degli SMS (i programmi di culto mariano, dove per Maria si intende la De Filippi, o lo stesso GF, di cui quel pubblico apprezza in qualche modo la continuità e la “verità” della produzione di nuovi personaggi e quindi nuove piccole success stories).


Tutto ciò che sta in mezzo, e prima di tutto la palude dei “format” medi -quelli che languiscono per mesi o anni sugli scaffali dei principali  produttori internazionali e poi vengono scodellati quando il direttore di rete non sa come riempire una serata- tende a fare flop. Il “format medio” di intrattenimento viene  vissuto come inattuale. Ecco; inattuale è la parola. Non parlano di noi, non servono né a fuggire né a lottare e quindi sono inutili.
Non è che sul mercato internazionale non ci siano segni in qualche modo coincidenti (nei mercati la parola d’ordine è “feelin’ good”): Tv Formats, che è abbastanza informato, scrive: “It’s a tough world out there” e sottolinea che “consumers are flocking to their Tv sets for feel-good shows that can whisk them away”. Ma la nostra situazione, come tutti sappiamo, è un po’ particolare. Vogliamo rilassarci ma siamo anche discretamente incazzati. E poi siamo un popolo che è sempre vissuto dell’effetto bandwagon, in alcuni momenti storici ondeggia all’unisono, come una gigantesca ola.
C’è da dire anche che in questi ultimi anni il mercato mondiale sforna in continuazione  varianti di meccanismi ormai usurati, che hanno un loro ruolo in palinsesti fortemente strutturati come quelli del Nord Europa o degli Stati Uniti (dove durano comunque un’ora o poco meno e non sostituiscono l’interminabile “messa cantata” che il pubblico generalista italiano è ritornato a chiedere in prima serata: una messa cantata che magari non ha i lustrini di una volta ma deve contenere emozioni forti, senso d’appartenenza, e un vero e proprio lavacro spirituale).

I bambini che cantano, il grande entertainer che fa il suo monologo (Fiorello funzionerà, eccome se funzionerà) , il giornalista senza macchia che mette alla berlina i cattivi (Santoro funzionerà, anche parcellizzato), il comico che sbeffeggia i potenti (Crozza), l’inchiesta dura e cruda senza troppe sfumature (Report e Presadiretta),  ma anche Zelig perché “anche se vanno su mediaset sono buoni e family” e quindi trasversali, oppure tutta la nera, da Chi l’ha visto a Quarto grado, perché questi programmi in diverso modo si rivolgono a un pubblico (anziano) che si rassicura quando vede “il male in faccia” e non dietro la porta.
Per gli altri ci sono solo strapuntini:
per il talent fatto con pochi soldi e qualche incertezza sul target di riferimento;
per il talk politico condotto anche bene ma ”sulla rete di Fede” – e quindi il pubblico politicizzato, anche quello che legge il Foglio, o snobba;
o per l’insistenza  su sottogeneri (come la danza) che il pubblico considera già presidiati (come se qualcuno volesse farvi la pedicure due volte a settimana).


Tutto ciò che destabilizza, che non ha un centro preciso (anche una fiction innovativa come quella di De Maria che però non era né un melò né un crime antimafia) perde, infastidisce, risulta trasparente al “grande pubblico televisivo”. O a quello che ne rimane: che vedrà più televisione di quanta ne vedeva due anni fa, ma conterà sempre meno per i pubblicitari. Per tutti gli altri? Per tutti gli altri c’è il digitale terrestre, c’è Sky, c’è la Rete. 

E un sacco di belle serie americane sugli americani senza soldi.

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