venerdì 13 luglio 2012

Se la Rai fosse HBO, anche solo un po'


Il logo di HBO Entertainment.
Qualche giorno fa Luciano Traversa (Lord Lucas) mi ha tirato per i capelli -impresa oggettivamente ardua- assieme ad altri tweetatori, in una polemica (fin troppo accalorata) su un bell’articolo, largamente condivisibile, di Guia Soncini. La motivazione dell’articolo era il libro, uscito da poco negli Stati Uniti, sulla Must-See Tv, cioé su quella tv degli anni novanta che era “impossibile non seguire” se volevi restare tra i contemporanei. Mentre oggi gli ascolti relativi dei singoli programmi sono molto più bassi (visione differita, internet, moltiplicazione dei canali, vi risparmio la solita lista della spesa). Traversa faceva alcune critiche sui dati (ad esempio su quanto siano diminuiti gli ascolti medi delle prime serate di intrattenimento in Italia) che onestamente non condivido. Le cifre si fanno sulle medie e quelle medie mi sembravano piuttosto precise.
The Newsroom,  di Aaron Sorkin.
 Ma il punto vero era un altro: secondo Soncini (e quest’ultima è questione fondamentale che riguarda anche noi e qualunque telespettatore in tutto il mondo) quelle serie tv americane che il mondo del cinema hollywoodiano invidia, perché sono più adulte, scritte meglio e più coraggiose rispetto a quello che si vede nelle sale hanno la loro genesi nell’esistenza della pay tv. Per essere più esatti, dal premium cable: cioé di quei canali tv che sono disponibili nelle case americane pagando una (significativa) differenza rispetto al cavo di base. Prima fra tutte la HBO. (Per capirci, HBO ha prodotto negli anni cosette tipo Sex and the City, Six Feet Under, i Sopranos, Carnivale, In Treatment, True Blood, Hung, Boardwalk Empire, rompendo tutte le convenzioni della tv americana).
Sue Eagle (HBO).
Al di là delle cifre singole sugli ascolti di questo e di quello, non c’è alcun dubbio che serie che talvolta non arrivano al milione di spettatori (in America! Rispetto all’Italia è come dire 2-300 mila spettatori) non si ripagano affatto, o meglio non si ripagherebbero affatto sulla tv free: non raccoglierebbero pubblicità sufficiente per essere economicamente vantaggiose. Ma se quelle serie servono a dare identità e “contenuto premium” a un canale come HBO (e se fanno felici i suoi abbonati, che le guardino o che non le guardino) l’equilibro è ristabilito. Naturalmente questo è un discorso generale, comunque devi fare degli ascolti medi convincenti con la media della programmazione, Game of Thrones è stata fondamentale quest‘anno per il futuro di HBO, ecc. ecc. Ma l'orizzonte rimane questo.
Quindi la HBO fa da volano per il resto della programmazione: siccome la pubblicità (in America molto più che in Italia) non insegue i grandi numeri in sé ma solo in quanto rappresentativi di un pubblico interessato a spendere (e quindi, nella realtà americana, mediamente giovane, grandi città ecc.) anche i network, cioé anche le tv free, sono costretti ad inseguire, in qualche modo, quel modello “alto”. Il pubblico più anziano e meno culturalmente attrezzato dovrà adeguarsi, perché, per questi buoni motivi, non c’è nessun Don Matteo in onda. Naturalmente la composizione demografica del pubblico americano è profondamente diversa dalla nostra, come dicevano quelli “non è un Paese per vecchi”, ecc. 
Il libro di Warren Littlefield,  ex capo della NBC.
Tutto ciò spiega lo stile e la libertà creativa, rispetto al mainstream, che le serie prodotte da HBO possono vantare. Con tutti i rischi di elitarismo che ciò comporta. Citando Freccero, “troppa libertà creativa può far male”. Il paradosso del guru nostrano è dimostrabile con il seguente aneddoto, tratto da un’intervista ad Aaron Sorkin uscita su Vanity Fair americano: rivedendo la sceneggiatura di The Newsroom, la nuova serie di Sorkin che ora è in onda e sulla quale sono già stati versati fiumi d’inchiostro, la presidente di HBO Entertainment, Sue Neagle ha mandato tempo fa all’autore un appunto criticando un passaggio della quarta puntata. Per sottolineare il climax drammatico della storia Sorkin aveva segnalato in sceneggiatura la necessità di metterci sopra una canzone famosa e non un pezzo della colonna musicale della serie. Serviva a “far crescere l’emozione”. La capa di HBO ha obiettato, con malcelato disprezzo: “E’ come fanno alla fine di Grey’s Anatomy!”. Al che Sorkin avrebbe ribattuto: “Non ho mai visto Grey’s Anatomy [va in onda su ABC, uno dei tre network storici], ma sono sicuro che non sia una cosa che hanno inventato loro”. Sue Neagle ha chiuso il discorso con un “E’ solo un’osservazione, tanto per farti sapere che HBO si deve distinguere nettamente dalla tv free”.
Quanto questo modello resisterà all’avanzata della visione differita, nei nuovi modelli di fruizione, di Hulu, Netflix, Apple, Google ecc. staremo a vedere. Ma senza dubbio HBO (così come BBC e Channel 4 in Inghilterra) svolge, a modo suo, quel ruolo da apripista ed elevatrice dello standard che anche in Italia, dovrebbe essere uno degli obiettivi (se non la ragion d’essere) di una presenza pubblica nel mondo della tv. A meno che non pensiamo che alla fine il problema della Rai non si risolva nel decidere da che parte sta il direttore del Tg1.

(P.S.: Con Guia Soncini sono d'accordo su tutto tranne che su Downton Abbey, di cui mi dichiaro fan).

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