lunedì 15 luglio 2013

Traductor traditor, perché noi italiani siamo così bravi


The Simpsons, di Matt Groening.
Sabato scorso è morto Tonino Accolla. Giornali e social network ci hanno messo un po' più di un giorno intero per scoprire (andando su Wikipedia, naturalmente) che Accolla non era soltanto il doppiatore di Homer Simpson (e di cento altri personaggi del cinema) ma anche il responsabile dell'adattamento italiano della serie ideata da Matt Groening.

Accolla è il simbolo di una capacità tutta italiana, che quando viene messa alla prova risplende di creatività: quella del traductor traditor. Come Accolla spiegò in un'intervista "se io leggo ‘eat my short’ e metto ‘ciucciati il calzino’, in italiano ha un altro senso rispetto a ‘mangiati le mutande’, oppure se ‘why do you lil’, non vuol dire assolutamente nulla per noi e dico ‘brutto bacarospo’, la cosa cambia completamente".
Tonino Accolla.
Accolla aveva tutte le ragioni nel rivendicare il suo apporto creativo- non sempre riconosciuto-  alla saga dei Simpson. D'altronde, Tonino Accolla è lo stesso che letteralmente inventò la risata di Eddie Murphy (e provate a ritrovare la stessa risata nell'originale: non c'è).
Ogni traduttore è un traditore, come ci spiegano gli antichi. Ma è un tradimento molto difficile a farsi, uno skill nel quale noi italiani abbiamo sempre eccelso. Se ci chiedessimo ogni tanto il perché capiremmo qualcosa di più sulle nostre caratteristiche originali.
Negli anni '40, un professorino di Carmagnola, che veniva dalle esperienze della goliardia torinese, fianco a fianco con Norberto Bobbio, venne assunto per tradurre in italiano i fumetti Disney che arrivavano da oltreoceano.
Guido Martina (al centro), una rara foto ritrovata
da Franco Ressa e pubblicata da Luca Boschi.
Si chiamava Guido Martina, aveva lavorato con Nizza e Morbelli (quelli dei Quattro moschettieri radiofonici), aveva già dalla sua qualche esperienza di documentarista e qualche lavoro sui giornalini satirici. Fu lui a inventare nomi come "Paperon de' Paperoni" (Ungle Scrooge), "Banda Bassotti" (Beagle Boys), "Archimede Pitagorico" (Gyro Gearloose). E fu sempre lui a scrivere centinaia di storie pseudo-disneiane, pubblicate nei decenni dal settimanale Topolino, in cui Donald Duck e Uncle Scrooge combattevano all'arma bianca una battaglia di sopravvivenza, così diversa dal clima delle storie originali di Carl Barks ma anche così vicina alla sensibilità italiana del dopoguerra. (E Paperon de' Paperoni è un nome molto più bello di Scrooge Mc Duck).
Quando Alberto Sordi si trovò di fronte al compito di doppiare Oliver Hardy ne I diavoli volanti (Flying Deuces, 1939)  la colonna internazionale ancora non esisteva, per cui se doppiavi dovevi buttare via tutto, musiche comprese. In sala d'incisione Sordi si ritrovò Shine on Harvest Moon, cantata da Ollio-Oliver con voce flautata. La canzone fu subito sostituita con un adattamento di A Zonzo, la canzone scritta da Riccardo Morbelli per Ernesto Bonino. Ma Sordi che canta A Zonzo è molto più divertente di Hardy che intona Shine on the Harvest Moon, così come l'interpretazione comica di Sordi è molto più potente della voce originale di Oliver Hardy.
Oliver Hardy canta Shine on the Harvest Moon.

Quando a noi italiani viene proposta un'idea (verrebbe voglia di dire un format) già sviluppata, potente, affermata nel mondo, perdiamo ogni timidezza e ritrosia e riusciamo finalmente ad osare: com'è stato per il western all'italiana di Sergio Leone e di tanti altri, o con i disney all'italiana nati a Milano e poi diffusi in tutto il mondo. Evidentemente non crediamo abbastanza in noi stessi. Ci serve una legittimazione che venga dall'esterno. Quando si discute di format, di televisione o di cinema italiano dovremmo riflettere un po' su questo nostro storico pregio/difetto.

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