sabato 17 marzo 2012

Non perdere Freccero


Chi conosce Carlo Freccero conosce anche le sue sfuriate telefoniche, che scattano smisurate e tracimano fino al gargantuesco solo in un caso: quando ritiene di aver subito un'ingiustizia. Perché a quel punto Carlo reagisce come un pittore a cui  un individuo improvvido, o peggio malevolo abbia strappato la tela già mezza dipinta. Freccero si arrabbia solo per la televisione. E' una reazione sproporzionata che si può comprendere solo come un atto d'amore.
Capitò perfino ai tempi della Fininvest: un giorno Galliani gli comunicò seccamente che gli avrebbero portato via Emilio Fede (sì, proprio Emilio Fede). A quei tempi Freccero era direttore di Italia Uno e il Tg di Fede si chiamava Studio Aperto. Fede con tutto il suo Tg fu trasferito su Retequattro, ma l'ira di Freccero (cui Galliani aveva inconsapevolmente tolto un fondamentale tassello freak della sua splendida costruzione dadaista) fu talmente violenta che Galliani se la legò al dito forever. E poco dopo Freccero fu sostituito.
Perdere Freccero per una sfuriata telefonica (trasformata magari in un insidioso trappolone) vorrebbe dire perdere il più grande creativo tv su piazza (ricordiamoci che anche la sua Rai4 è un indubbio successo editoriale) per una voce dal sen fuggita, in una conversazione, diciamolo pure, del tutto privata.  Nescit vox missa reverti. Ma una parola sbagliata è assai meno grave degli atti sbagliati che possono essere ascritti a tanti manager della televisione.
Altro discorso è questa storia per cui si registra senza dirlo. E per essere chiaro, mi riferisco ai giornalisti di Libero ma anche ai tanti programmi del meritorio giustizialismo televisivo. "Tu tappa la lucina rossa della telecamera e continua a girare". Va bene se devi far parlare un camorrista, ma se diventa la regola vorrei vivere in un altro Paese.

mercoledì 14 marzo 2012

La lezione degli Angela


Piero e Alberto Angela
Ho messo su tanti programmi di divulgazione scientifica (dalla Macchina del tempo a Gaia, fino all'attuale Cosmo con Barbara Serra) ma ho sempre continuato a pensare che Angela fosse imbattibile. (Non la pensavano così i conduttori dei miei vari programmi, dopo un anno di messa in onda me li ritrovavo sempre su qualche giornale a polemizzare per  distinguersi da Piero Angela, della serie "io sono il nuovo e tu il vecchio" ecc.).
Ho cominciato a seguire, da fan, Piero Angela quando conduceva il Tg delle 13.30, un esperimento di fine anni '60 che raccolse il meglio della Rai di allora. Con lui c'era Andrea Barbato e altri grandi professionisti, dopo di loro nello stesso studio arrivava Renzo Arbore e iniziava l'Altra domenica. Tanto per capire la qualità media (anche linguistica, "televisiva", della Rai di quegli anni). Io ero un ragazzino di terza media e per me erano dei miti.
In seguito Angela scelse la strada della divulgazione. Per un classico caso di contrappesi aziendali non fu scelto lui ma Tito Stagno (molto più ammanicato)  per condurre la Notte della luna del 1969. Poi Stagno tornò allo sport e Angela divenne Piero Angela.
Il mitico Tg Rai delle 13.30 (1969) Archivio Rcs.

In realtà la factory Angela (che non è composta solo da Piero e Alberto, con loro ci sono fior di professionisti come Lorenzo Pinna) ha un elemento di forza decisivo, conquistato - immagino - attraverso lunghe battaglie: si comporta come un gruppo di lavoro della Bbc. Cioé lavora come dovrebbe lavorare la televisione pubblica in un paese normale. Studia i temi in modo rigoroso, prepara, pianifica, realizza e mette in onda. Con largo anticipo. Ogni puntata ha una solida base scientifica (senza base seria non si fa seria divulgazione). Ogni puntata ha un vero copione, studiato e verificato. E poi ha l'esperienza, la rete di rapporti con la comunità scientifica e la library che puoi mettere in campo se sei presente costantemente e in modo qualificato per decenni. Oltre alla capacità di rinnovarsi.
Se non ci fosse stato Angela oggi non ci sarebbe nessun programma di divulgazione scientifica sulla tv generalista, in Italia. 
 Chiunque altro si sia trovato, nel bene nel male, a percorrere la strada di Angela, si è trovato di fronte ai tempi improbabili della tv italiana, ormai tarata sulla mistica della diretta e sui tempi produttivi da talk show (un giorno ho sentito un quadro amministrativo di una televisione dire, rispetto ai tempi di preparazione di un programma scientifico, "che fretta avete per il contratto? Tanto va in onda fra due mesi!"). Anche con Cosmo (di cui sono molto contento, anche se la prima puntata di quest'anno non ha fatto faville d'ascolto, ma su Raiuno c'era lo speciale del Tg1 su Dalla, penso che pian piano torneremo agli ottimi livelli della prima stagione) facciamo fatica a star dietro ai tempi di preparazione delle puntate. E questo è un punto che non vale solo per noi. In fondo i programmi di divulgazione scientifica, più o meno tradizionali, più o meno innovativi, sono dei documentari. E hanno bisogno dei tempi di preparazione di un serio documentario. Tempi che alla fine consentirebbero risparmi, ottimizzazioni e un prodotto più ricco. Perché un programma di divulgazione che non sia fatto solo di materiali comperati da qualche distributore internazionale ma sia invece costruito attorno a un lavoro di studio, di ricerca, di riprese e montaggi originali è comunque un valore che va "a library". Una cosa che rimane, come un buon libro. E quindi è un buon investimento. E perciò, tanto di cappello agli Angela.

domenica 11 marzo 2012

Maledetti Fantagenitori, sono diventato moralista


Sono cresciuto combattendo quelli che scrivevano sui giornali idiozie prima contro i fumetti ("Lettore di Diabolik uccide la moglie"), poi contro i cartoon giapponesi ("Goldrake è fascista") e ho molto amato il vecchio saggio di George Newton Gordon ("I bambini possono avere un effetto negativo sui fumetti?", in Sociologia del fumetto americano, Bompiani, 1966), per come irrideva le paranoie parentali sui comics.
Per questo mi è molto difficile scrivere qualcosa di critico su Due fantagenitori (The Fairly OddParents, creati undici anni fa da Butch Hartman per Nickelodeon e ora assoluta hit di quasi tutti i canali tv italiani per bambini). Quando però ho visto che perfino il Corriere della sera li distribuiva come dvd assieme al quotidiano mi sono chiesto: ma qualcuno a via Solferino li ha mai visti, i Fantagenitori? 
 E' vero che quando si diventa padri un po' ci si rincoglionisce, ma ecco i fatti: i Fantagenitori è una serie televisiva a cartoni animati di successo, arrivata a 9 stagioni (circa 130 puntate), il cui plot è presto detto. Timmy ha 10 anni e due genitori sempre assenti (oltre che abbastanza idioti e privi di responsabilità parentale, dei teen mal cresciuti, come la maggioranza dei genitori americani di oggi). Per cui Tommy viene abbandonato tutto il giorno con una baby sitter malefica, Vicky. Ma un giorno Timmy per magia ottiene due fantagenitori, Cosmo e Wanda, i quali lo salvano costantemente dai guai e esaudiscono qualunque suo desiderio. A meno che il desiderio non sia in contrasto con Da Rules, il Libro delle Regole: cioé quelle regole che i veri genitori non sanno inculcare ai figli. 
Il plot estremizza quel che si trova in molte altre serie animate americane di oggi. Negli anni '30 del secolo scorso e fino al baby boom compreso (anni '50)  i princìpi educativi americani tendevano ad abolire la figura parentale nelle storie destinate ai bambini (e giù ettolitri di inchiostro, da sociologi abborracciati,  sul fatto che Paperino fosse solo zio di Qui Quo e Qua ecc.). Era un modo per evitare, in una società ancora fondamentalmente puritana, qualunque riferimento al rapporto sessuale.
Oggi, con una famiglia media americana che di solito è perfettamente sfasciata, la soluzione editoriale è di ammettere e amplificare la realtà di genitori assolutamente poco credibili anche agli occhi di un figlio piccolo, privi non solo di carisma parentale ma anche di reale rapporto affettivo con il figlio. Mal comune mezzo gaudio, non sei l'unico a non avere una vera famiglia, ecc.
Per capirci, Homer Simpson è un inetto egoista ma a suo modo ama i figli, e comunque c'è Marge a risolvere i problemi e a rappresentare -assieme a Lisa-  l'elemento normativo.  Ma i Simpson sono una serie nata nel 1987. 
Total Drama: Revenge of the Island (Teletoon, 2007)
Oggi invece, quando la famiglia bene o male esiste e tenta, perlomeno, di assumere l'ingrato compito normativo che ogni genitore dovrebbe avere, la visione prolungata di queste serie, proposte a più ore del giorno rende la fatica dei genitori ancora maggiore. Diciamo che non fa una buona pubblicità al mestiere di padre e madre.
Programmata senza sosta è anche A Tutto Reality- La vendetta dell'isola (Total Drama: The Revenge of the Island), parodia iperrealista di una specie di Isola dei famosi dove tutto avviene esattamente come nel format originale, soltanto amplificato, e dove i "tipi umani" sembrano usciti da un casting italiano del Grande Fratello. Solo che il target originale è teens e in Italia la programmano sui canali per bambini piccoli. Mio figlio che ha quattro anni e mezzo e non ha mai visto un vero reality in vita sua sa tutto sulle regole per non essere nominati. La domanda è: devo trasformarmi in un genitore oscurantista o peggio iper-politically correct che abbassa ulteriormente il tempo concesso a mio figlio davanti alla tv (adesso è circa un'ora al giorno)? Devo lasciare che veda di tutto, tanto è già culturalmente corazzato, vive nel quartiere Mazzini e i suoi compagni di asilo (pubblico) non sanno neanche il romanesco? Non ditemi che devo passare più tempo con lui perché è esattamente quello che già faccio, divertendomi pure. Anche se purtroppo non gli piacciono più i trenini di Thomas & Friends.

venerdì 9 marzo 2012

I Giacobini dell'archivio Rai




Oggi le cronache comunicano, tra una puntata e l’altra della telenovela sull’asta delle frequenze tv, il ritrovamento dei Giacobini di Federico Zardi.
Spiego per i non brizzolati: i Giacobini è stato uno storico sceneggiato Rai, storico anche perché Palmiro Togliatti l’aveva lodato per non aver trattato i rivoluzionari francesi da stronzi assetati di sangue. I master dei Giacobini sono spariti da tempo dagli Archivi Rai. Barbara Scaramucci – alla quale prima o poi bisognerà fare un monumento perché se non ci fosse stata lei a metter su le Teche Rai adesso non troveremmo neanche il tg del rapimento Moro- ha ottenuto la registrazione (amatoriale) dell’audio della trasmissione da un appassionato. L’audio, non il video, perché ai tempi quello che si poteva fare da casa era registrare l’audio, magari con un Geloso (il registratore a bobine più diffuso ed economico del tempo), collegando l’ingresso audio del Geloso ai cavi rosso e nero che andavano dall’amplificatore interno agli altoparlanti del proprio televisore. (Esisteva anche un apposito accessorio Geloso, un cavetto che finiva con due pinze a coccodrillo, il che significa che un sacco di gente registrava l’audio dei programmi più amati per poterseli conservare).

Un registratore Geloso (1963)
Il problema è che molte altre cose mancano dai repertori Rai, ma nessuno ha mai spiegato bene la vicenda. Fino a metà anni ’60 si registrava solo col Kinescope, nel gergo Rai vidigrafo (in pratica, una macchina da presa 16mm puntata contro un normale televisore). Poi si è cominciato a produrre gli sceneggiati e i varietà non in diretta su Ampex da due pollici. Ma una bobina da due pollici costava come un mese di stipendio  di un tecnico, quindi si cercava di riciclare il più possibile i nastri. Nel caso dei Giacobini non escludo qualche ragione politica, d’altronde non è l’unico Ampex che manca all’appello nelle teche. Ma il punto centrale è un altro: nella cultura televisiva della Rai primigenia, nel suo dna, c’è l’idea (che viene dalla radiofonia) per cui il programma svanisce, evapora nel momento stesso in cui va in onda. E’ l’altra faccia della mistica della diretta. Si conserveranno solo le commedie, i concerti, gli sceneggiati (ma non tutti, appunto) proprio perché non sono “televisione” ma cultura alta. Ricordiamoci sempre che i dirigenti migliori della Rai sono stati per un quarto di secolo o ingegneri di Torino o intellettuali umanisti, in ogni caso gente che riteneva l’intrattenimento televisivo un’inevitabile incombenza da gestire nel modo più dignitoso e meno dannoso possibile per la collettività, ma sostanzialmente un sacco di cazzate.
Quando i repertori sono stati conservati, molto spesso era per ragioni legali (ci sono solo tre puntate di Lascia o raddoppia nelle Teche Rai, pochissimo di Campanile Sera, neanche una puntata di Settevoci e l’elenco potrebbe continuare all’infinito). 

Un vidigrafo
La Scaramucci (una vera giacobina) ha fatto in questi anni un lavoro enorme non solo per organizzare e rendere fruibile su Internet la "library" ma anche per farne capire il valore culturale. E oggi le Teche sono un’altra cosa. (Inutile dire intanto che alla BBC hanno conservato anche l’ultimo sternuto del 1939). Ma è nato un nuovo problema: dei programmi di intrattenimento dell’ultimo tentennio spesso la Rai non detiene completamente i diritti. Neanche quelli dei programmi prodotti internamente (la presentazione sì ma quel cantante  no, Celentano no ma Pippo Baudo sì, quel format no perché è dell’Endemol, quell’altro è scaduto ecc.). In alcuni casi è inevitabile; in altri si riaffaccia l’antica malattia della tv pubblica, quella cioé di considerare ciò che viene prodotto per le masse come “circenses” non degni di memoria.  E neanche di valore di mercato. Per cui se si perde l’ultimo film di Pierino qualcuno piangerà al Festival di Venezia, se si perde un’intera serie di un programma Rai la risposta è pazienza. 

martedì 6 marzo 2012

Panariello (r)esiste


Il logo dell'one man show di Panariello (Canale 5)

Quindi la crisi spinge in alto l’offerta generalista: Panariello con la sua prima puntata, che esibiva una sontuosa scenografia e testi un po’ meno sontuosi, ha superato il 27%. E soprattutto ha fatto il pieno sul pubblico giovane, toccando il 38% in Toscana (43% tra i 25-54)  e il 31% (36% sui 25-54) in Campania. Curiosamente la Lombardia è più bassa (24%, 27% sui 25-54). Gli unici a ritrarsi sono gli inguaribili mitteleuropei del Friuli-Venezia Giulia, cui naturalmente mi onoro di appartenere (13%, 20% sui 25-54). In ogni caso un successo, per quanto abbastanza replicante rispetto a RaiUno (l’one man show di Panariello sembra avere molti debiti con il suo omologo, diciamo così, fiorellesco). Vedremo le performance nelle prossime settimane, quando Panariello si troverà di fronte avversari più agguerriti (forse). In ogni caso ecco un bell’elemento di riflessione in più per i capi dei network: il pubblico torna alle ammiraglie quando le stesse si mettono in gran spolvero. Un bell’impegno, in questi tempi di vacche magre. Ma chi riuscirà a sfruttare questa domanda di cocooning televisivo l’avrà vinta.

sabato 3 marzo 2012

Apple alle Grandi Manovre, obiettivo Tv


Una simulazione della prossima Tv Apple

Apple alle Grandi Manovre. La tv di Apple (che si chiami iTv o meno) è ai blocchi di partenza, forse sarà lanciata in tempo per il Natale prossimo. Nel frattempo, sul mercato più importante, quello statunitense, Apple sta combattendo la battaglia decisiva: quella dei contenuti. E a occhio, non ha intenzione di fare prigionieri. Ho la vaga impressione che presto le tv che fino a ieri si sdilinquivano a lodare le capacità imprenditoriali e il genio di Jobs & epigoni cominceranno a sparare ad alzo zero. (A meno che Apple con compri tutto e tutti e chiusa lì, d’altronde oggi vale più del Belgio. Oggi Hitler non invaderebbe l’Austria, invaderebbe l’Apple).
Tim Cook, CEO Apple
Comunque: le ultime notizie sono che Apple ha fatto questa simpatica propostina ai capi dei grandi network (con in mente l’alternativa al cable, che negli Usa gestisce il flusso della televisione gratuita e a pagamento in gran parte delle case): voi mi date tutti i diritti, io trasformo i vostri canali in Apps. Naturalmente stabiliamo noi i prezzi e vogliamo anche entrare nelle decisioni sui contenuti. (Questa è più o meno la ricostruzione fatta dal New York Post, per carità è sempre il Post ma non credo che sia tanto lontana dal vero). Pare che mesi fa i capi della CBS abbiano letteralmente sfan**lato  i negoziatori di Cupertino. Apple comunque è andata anche dalle compagnie che gestiscono il cable proponendo loro di sostituire i loro antiquati set top box (gli scatolotti, insomma) con apparecchi Apple, l’iTv di oggi (lo scatolottino bianco collegato alla rete di casa) e, probabilmente, il prossimo tv Apple. Per ora gli operatori del cable non hanno mostrato grande entusiasmo preferendo, come dice il Post,  “tenere Apple ad una distanza di sicurezza dal lucroso mercato delle pay-tv, che negli Stati Uniti vale 150 miliardi di dollari”.

Ma Apple non ha fatto un plissé e prosegue come un carro armato sulla sua strada. Chi legge spesso questo blog si domanderà perché continuo a dedicare post a questa vicenda: secondo me è una vicenda chiave per capire come evolverà il mercato della tv.
Il grande atout di Apple, ciò che al di là di ogni altra considerazione -di mercato, di brand, di ecosistema con gli altri device come iPad e iPhone, ecc. - potrebbe determinare il successo del suo prossimo televisore è e resta Siri: cioé il programma che consente di dialogare in modo discorsivo con il televisore per fargli cambiare canale. E quindi la semplicità, quella cosa che unita all’eleganza da calligrafo di Jobs ha fatto il successo di Apple.
Con un iPhone e un programma open-source Todd Treece ha applicato Siri a un normale televisore

Per capire come potrebbe funzionare Siri su un televisore c’è una simulazione divertente fatta da Todd Treece hackerando Siri tramite la piattaforma Arduino e SiriProxy, con Siri che risponde dopo aver cambiato canale: “ma davvero vuoi vedere questa schifezza?”. Così dopo il Grande Fratello (nel senso di Orwell) avremo la Grande Zia. 

giovedì 1 marzo 2012

L'Auditel, TvBlog e il rumore rosa


Tv Blog ha aperto un dibattito inter-blogger (quanto sono bravi questi di Tv Blog, qualche critico tv dovrebbe imparare da loro) sull'Auditel e la qualità televisiva e Malaparte mi ha chiesto se ho qualcosa da dire.
 In realtà quello che penso dell'Auditel l'ho già scritto tempo fa e per il resto se Carlo Freccero mi avesse passato un foglietto con il suo intervento avrei potuto tranquillamente controfirmare.  Carlo dice quello che pensano tutti, ma detto da lui ha un altro suono. Uno si domanda: perché? Nella risposta a questa domanda, in realtà, c'è la chiave di tutto.
Ma prima, come nelle migliori serie tv, un bel flashback (con reverse: uuuossshh!).
I primi dirigenti Rai che ho conosciuto - non per lavoro, ma per rapporti culturali o giornalistici o sono per averli visti a qualche convegno, sto parlando della notte dei tempi - erano fondamentalmente, forse non tutti ma per la gran parte, degli intellettuali. Magari era gente che era stata messa lì dalla Democrazia cristiana, più tardi anche dal Partito socialista e qualcuno anche dal Pci (nella "Terza rete", come la chiamavano). Ma in quanto intellettuali

Gente che aveva la casa piena di libri, che aveva avuto un passato culturalmente interessante, magari erano cattolici conservatori, o cattolici di sinistra che poi erano diventati comunisti, oppure liberali diventati repubblicani o socialisti di prima che erano diventati socialisti di dopo, oppure gente uscita dal famoso "corso" da cui vennero fuori Umberto Eco e tanti altri. Si dividevano in due tipi umani: quelli che facevano televisione turandosi il naso (guardate cosa mi tocca fare) e quelli che si divertivano a farlo (tipo Guglielmi, ma non solo lui). Entrambi i tipi umani si ponevano ogni giorno la questione del pubblico. Se la ponevano e però la - come dire? - masticavano filtrandola con una serie di parametri culturali che impedivano loro, geneticamente, il crollo non tanto verso il trash quanto verso l'inutilità, verso il grado zero della comunicazione, verso il "rumore rosa". 
Carlo Freccero
Il rumore rosa (pink noise) è quel rumore disturbante che proviene dal televisore quando è acceso senza essere sintonizzato su nessun canale. Quel rumore in realtà è prezioso per i tecnici che devono regolare il suono, perché contiene in sé tutte le frequenze udibili. Molti programmi di oggi mi ricordano, appunto, il rumore rosa.  Ecco, quel tipo di dirigenti tv non l'avrebbero consentito. Così come persone come Carlo Freccero, che nella sua carriera è riuscito a inserire nei suoi palinsesti Emilio Fede, la D'Eusanio e Gian Franco Funari senza che ciò facesse della sua rete (parlo di Italia Uno ma anche di RaiDue) una rete del "rumore rosa". Riuscendo sempre, cioé, a produrre quella scintilla, quello sgurz che distingue il pensiero dalla banalità. 

 Può darsi, come diciamo spesso, che un giorno non ci sarà più bisogno di palinsesti. Ma comunque ci sarà bisogno di brand. Perché la televisione non è un programma ma un brand: ogni televisione è una chiave di lettura. Quando Channel Four trasmette un reality non trasmette quel reality ma quel reality all'interno di uno storytelling più complessivo (so che a Carlo piace tanto dire storytelling, quindi mi associo). Che non dà soltanto luce a quel programma ma propone anche ai suoi telespettatori una chiave per leggerlo. D'altronde, se vedi il reality dopo aver visto Black Mirror non è come se vedessi il reality dopo aver visto Centovetrine. Per quanto sia un prodotto industriale la televisione ha un bisogno disperato di brand. Cioé di idee. Viste da molta gente.