sabato 1 settembre 2012

Monti e Pinocchi, da Disney a D'Alò




Pinocchio di Enzo D'Alò, dai disegni di concetto di Lorenzo Mattotti.

Non ho ancora visto il Pinocchio di D’Alò (figlio dello straordinario lavoro fatto da Mattotti, uno dei pochi che da noi possa essere legittimamente considerato un grande artista e un grande narratore). Ma quel poco che ho visto mi ha dato una folgorazione: per la prima volta qualcuno mi raccontava con i cartoon la storia di Pinocchio.
Pinocchio disneyano (1940).
(c) Disney
Ovviamente Pinocchio è soggetto principe per una trasposizione cinematografica. Sul Pinocchio di Walt Disney e dei suoi animatori sono stati scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro, in che è ovvio trattandosi di un indiscutibile capolavoro. Ma il Pinocchio disneyano sta al Pinocchio di Collodi come i cavoli a merenda. E non solo per l’ambientazione che è mitteleuropea invece che toscana; ma soprattutto perché si poggia su riferimenti culturali opposti a quelli dell’Italia unitaria. La chiave del Pinocchio collodiano è lo scontro attorno al mito del Paese dei Balocchi, che è la trasposizione in chiave infantile/pedagogica del mito della Cuccagna, contro il quale devono aver faticato  non poco le élites risorgimentali.
Son stato nel paese di Cuccagna/ o quante belle usanze son fra loro!/ quello che più ci dorme ci guadagna” (Zenatti, 1581)
Pinocchio di Comencini (1971).
Il mito del Paese di Cuccagna dimostrava nel nostro paese la resistenza della cultura contadina nella “dolce illusione” della liberazione dalla necessità, nel vagheggiamento di un mondo in cui “si mangiasse senza lavorare, dove l’abbondanza dei prodotti fosse ottenuta senza fatica”.  Come ricordava Alberto Asor Rosa “il tessuto sociale contro il quale si staglia la vicenda del burattino è un tessuto sociale di penuria e di privazioni; e la storia stessa di Pinocchio è la storia di un bambino povero, continuamente sbalestrato fra l’ispirazione fantastica (del tutto irragionevole) ad un mondo in cui vivere liberato dalle dure necessità quotidiane, e l’aspra constatazione che anche la semplice sopravvivenza costa noia, fatica e dolore”.
Insomma, mentre per l’America della metà dell’ottocento il valore era la frontiera (che è anche proiezione fantastica di bisogni e desideri) per l’Italia postunitaria il convincimento da conculcare doveva essere  quello che “senza un incremento strenuo di questo valore (il sacrificio)  non si sarebbe creata una mentalità e delle abitudini da nazione moderna; che anzi, fra le non molte ‘risorse’ di cui si poteva disporre, il sacrificio, - cioè il rafforzamento altamente soggettivo e volontaristico della tempra morale e intellettuale, - fosse una delle più importanti”. Insomma, stiamo ai discorsi di Monti, e sono passati 150 anni.
Lorenzo Mattotti.
Il Pinocchio di Walt Disney, quello che poi creò Disneyland, poteva  battersi contro il Paese dei Balocchi? No, doveva creare un mondo in cui i cattivi fossero simpatici e l’iniziativa individuale (non i gendarmi) trovasse la soluzione ai problemi di ognuno.
Intendiamoci, il Pinocchio di Collodi è molto più complesso rispetto a quello che potrebbe sembrare, di primo acchito, un pedante romanzo di formazione all’etica pubblica. Collodi/Lorenzini deve accontentare i suoi editori e i genitori borghesi dei suoi lettori, ma dentro ha una vena anarchica, beffarda e sostanzialmente fino-pinocchiesca.  E’ un toscanaccio dei migliori.
Pinocchio di Chiostri (1901)
Ma quante riduzioni cinematografiche e televisive sono riuscite a rappresentare l’ambivalente anima del romanzo? Le stesse illustrazioni di Chiostri, quelle del Pinocchio classico, ce lo descrivono alto, allampanato, segaligno e irrimediabilmente burattino. Un popolano scansafatiche che va istruito, più che alla mobilità sociale, all’immobilismo sociale.  Forse soltanto la mini-serie di Comencini del 1971 riusciva a stare un po’ dalla parte di Pinocchio e non della Fata dai capelli turchini, una poderosa scassacazzi. (Tanto che Disney, come ideologa della situazione, l’aveva retrocessa a favore del Grillo parlante, una specie di commercialista del bon ton vestito da consulente finanziario in bolletta). Lascio perdere, per carità di patria, il Pinocchio di Benigni, pieno di buone occasioni mancate. Ci sarebbe stato bisogno di un autore Pinocchiaccio come Monicelli per raccontarlo con freschezza e libertà.
Ecco, almeno a giudicare dalle animazioni Mattotti-style e da quei magnifici sfondi di Toscana favoleggiata, D’Alò stavolta potrebbe averci preso. Potrebbe avere restituito Pinocchio alla sua dimensione favolistica. Corrusca e, insieme, ilare. Dico potrebbe perché non sono a Venezia e il film non l’ho visto, tranne qualche clip come questa. Che sia bellissimo me l’ha assicurato Mollica, ma si sa -parlando di romanzi ottocenteschi per la gioventù- nel nostro immaginario Mollica è Garrone, il generoso ragazzone di De Amicis che difende tutti, anche se si traveste da personaggio disneyano. Stavolta però spero proprio che Garrone/Mollica abbia ragione.



Nessun commento:

Posta un commento