Pinocchio di Enzo D'Alò, dai disegni di concetto di Lorenzo Mattotti. |
Non ho ancora visto il Pinocchio
di D’Alò (figlio dello
straordinario lavoro fatto da Mattotti,
uno dei pochi che da noi possa essere legittimamente considerato un grande
artista e un grande narratore). Ma quel poco che ho visto mi ha dato una
folgorazione: per la prima volta qualcuno mi raccontava con i cartoon la storia di Pinocchio.
Pinocchio disneyano (1940). (c) Disney |
Ovviamente Pinocchio
è soggetto principe per una trasposizione cinematografica. Sul Pinocchio di Walt Disney e dei suoi animatori sono
stati scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro, in che è ovvio trattandosi di
un indiscutibile capolavoro. Ma il
Pinocchio disneyano sta al Pinocchio di Collodi come i cavoli a merenda. E non
solo per l’ambientazione che è mitteleuropea invece che toscana; ma soprattutto
perché si poggia su riferimenti culturali opposti a quelli dell’Italia
unitaria. La chiave del Pinocchio collodiano è lo scontro attorno al mito del Paese dei Balocchi, che è la
trasposizione in chiave infantile/pedagogica del mito della Cuccagna, contro il
quale devono aver faticato non
poco le élites risorgimentali.
Son stato nel paese di Cuccagna/ o quante belle usanze son fra loro!/
quello che più ci dorme ci guadagna” (Zenatti, 1581)
Pinocchio di Comencini (1971). |
Il mito del Paese di Cuccagna dimostrava nel nostro paese la resistenza della cultura contadina nella “dolce illusione”
della liberazione dalla necessità, nel vagheggiamento di un mondo in cui “si mangiasse
senza lavorare, dove l’abbondanza dei prodotti fosse ottenuta senza fatica”. Come ricordava Alberto Asor Rosa “il
tessuto sociale contro il quale si staglia la vicenda del burattino è un
tessuto sociale di penuria e di privazioni; e la storia stessa di Pinocchio è
la storia di un bambino povero, continuamente sbalestrato fra l’ispirazione fantastica
(del tutto irragionevole) ad un mondo in cui vivere liberato dalle dure
necessità quotidiane, e l’aspra constatazione che anche la semplice
sopravvivenza costa noia, fatica e dolore”.
Insomma, mentre per l’America della metà dell’ottocento il
valore era la frontiera (che è anche
proiezione fantastica di bisogni e desideri) per l’Italia postunitaria il
convincimento da conculcare doveva essere
quello che “senza un incremento strenuo di questo valore (il sacrificio)
non si sarebbe creata una mentalità
e delle abitudini da nazione moderna; che anzi, fra le non molte ‘risorse’ di
cui si poteva disporre, il sacrificio,
- cioè il rafforzamento altamente soggettivo e volontaristico della tempra
morale e intellettuale, - fosse una delle più importanti”. Insomma, stiamo ai
discorsi di Monti, e sono passati
150 anni.
Lorenzo Mattotti. |
Il Pinocchio di Walt Disney, quello che poi creò Disneyland,
poteva battersi contro il Paese
dei Balocchi? No, doveva creare un mondo in cui i cattivi fossero simpatici e
l’iniziativa individuale (non i gendarmi) trovasse la soluzione ai problemi di
ognuno.
Intendiamoci, il Pinocchio di Collodi è molto più complesso
rispetto a quello che potrebbe sembrare, di primo acchito, un pedante romanzo
di formazione all’etica pubblica. Collodi/Lorenzini deve accontentare i suoi
editori e i genitori borghesi dei suoi lettori, ma dentro ha una vena
anarchica, beffarda e sostanzialmente fino-pinocchiesca. E’ un toscanaccio dei migliori.
Pinocchio di Chiostri (1901) |
Ma quante riduzioni cinematografiche e televisive sono
riuscite a rappresentare l’ambivalente anima del romanzo? Le stesse illustrazioni di
Chiostri, quelle del Pinocchio classico, ce lo descrivono alto, allampanato,
segaligno e irrimediabilmente burattino. Un popolano scansafatiche che va
istruito, più che alla mobilità sociale, all’immobilismo sociale. Forse soltanto la mini-serie di
Comencini del 1971 riusciva a stare un po’ dalla parte di Pinocchio e non della
Fata dai capelli turchini, una poderosa scassacazzi. (Tanto che Disney, come ideologa della
situazione, l’aveva retrocessa a favore del Grillo parlante, una specie di
commercialista del bon ton vestito da consulente finanziario in bolletta).
Lascio perdere, per carità di patria, il Pinocchio di Benigni, pieno di buone
occasioni mancate. Ci sarebbe stato bisogno di un autore Pinocchiaccio come
Monicelli per raccontarlo con freschezza e libertà.
Ecco, almeno a giudicare dalle animazioni Mattotti-style e
da quei magnifici sfondi di Toscana favoleggiata, D’Alò stavolta potrebbe
averci preso. Potrebbe avere restituito Pinocchio alla sua dimensione
favolistica. Corrusca e, insieme, ilare. Dico potrebbe perché non sono a Venezia e il film non l’ho visto,
tranne qualche clip come questa. Che sia bellissimo me l’ha assicurato Mollica,
ma si sa -parlando di romanzi ottocenteschi per la gioventù- nel nostro immaginario
Mollica è Garrone, il generoso ragazzone di De Amicis che difende tutti, anche
se si traveste da personaggio disneyano. Stavolta però spero proprio che
Garrone/Mollica abbia ragione.
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