Un programma di infotainment del pomeriggio su RaiUno. |
I programmi di infotainment del pomeriggio sono sempre stati - non solo in Italia - il "colonnino destro" dei canali generalisti. Il pubblico che accende la tv a quell'ora (sempre più anziano e tendenzialmente femminile) chiede l'equivalente tv delle riviste "lette dal parrucchiere".
L'edizione 2013-2014 de La vita in diretta e il difficile equilibrio tra ascolti e mission del servizio pubblico. |
Ogniqualvolta una nuova dirigenza Rai viene chiamata a sistemare i conti e a "dare una svolta in direzione del servizio pubblico" scopre a proprie spese che il primo obiettivo, per quanto sembri incredibile, è molto più raggiungibile del secondo. È successo con la tv dei professori, con la tv di Prodi e anche con la tv post Monti.
Ma qui c'è un equivoco di fondo: l'idea che "servizio pubblico" significhi fare una tv "politically correct", che non dà fastidio a nessuno, composta, pulitina, acqua e sapone, una tv "filo di perle". Una tv di cui, sostanzialmente, non frega niente a chicchessia. Come le ragazze carine e dimesse che un tempo facevano tappezzeria alle feste.
Questa storia del politically correct fa parte di una koinè sempre più diffusa nel nostra Paese (in America il tema aveva sbomballato una quindicina di anni fa), ed è quella che anima, ad esempio, gli afflati etici del Presidente della Camera. Verso la quale si è sempre combattuti (almeno, così capita a me) tra un'istintiva simpatia e un certo imbarazzo per gli accenti spesso moralistici di alcuni suoi interventi.
Il che magari non significa fare un programma più "carino": in certi casi può significare fare un programma più cattivo, meno corrivo con i potenti, indisponibile alle marchette ma comunque curioso di tutti gli aspetti della vita. Per non dover dire, qualche mese dopo, "e va bene, rimettete il colonnino destro".
Ma qui c'è un equivoco di fondo: l'idea che "servizio pubblico" significhi fare una tv "politically correct", che non dà fastidio a nessuno, composta, pulitina, acqua e sapone, una tv "filo di perle". Una tv di cui, sostanzialmente, non frega niente a chicchessia. Come le ragazze carine e dimesse che un tempo facevano tappezzeria alle feste.
Questa storia del politically correct fa parte di una koinè sempre più diffusa nel nostra Paese (in America il tema aveva sbomballato una quindicina di anni fa), ed è quella che anima, ad esempio, gli afflati etici del Presidente della Camera. Verso la quale si è sempre combattuti (almeno, così capita a me) tra un'istintiva simpatia e un certo imbarazzo per gli accenti spesso moralistici di alcuni suoi interventi.
Pomeriggio 5, condotto da Barbara D'Urso su Canale 5. |
Comunque: se il problema è Belen, o il matrimonio della Marini, ci si può legittimamente chiedere "ma la tv pubblica deve occuparsi di queste cose?". La risposta, però, non è semplice come sembra. Quando ci si limita ad un po' ipocrita "no" si finisce per assomigliare a quelle mamme che, se il pupo non mangia, gli ribattono "guarda che in Africa i bambini muoiono di fame".
Ovviamente il fatto che il pupo italiano mangi o no non cambierà nulla nelle disponibilità alimentari dei bambini dell'Africa. Allo stesso modo, che lo vogliamo o no, a quell'ora del giorno il pubblico vorrà comunque sapere (dal servizio pubblico, o da Mediaset, o da chi c'è c'è) dei processi di cronaca nera e dei matrimoni vip, com'era d'altronde già ai tempi del feuilleton e dei Misteri di Parigi, o dei rotocalchi di massa nella seconda metà del ventesimo secolo.
E allora? Allora il problema non è se di questi temi (temi che interessano il pubblico che occupa la tv in quelle fasce orarie) si debba parlare o no, ma di come se ne debba parlare. Imponendo uno stile, un formato, una tridimensionalità ai problemi e alle storie personali. Non escludendo ma includendo. Con un linguaggio fresco, fatto più di buona televisione che di freddezza da telegiornale.
Intendiamoci: abbiamo assistito tante volte in passato a cadute di gusto, di stile, ad una cinica rincorsa al sentimentalismo, alla truculenza, ai mezzucci più bassi per "fare ascolto" (che, tra l'altro, non sempre funzionano). Ed è giusto che una tv pubblica fornisca uno standard più dignitoso.
Ovviamente il fatto che il pupo italiano mangi o no non cambierà nulla nelle disponibilità alimentari dei bambini dell'Africa. Allo stesso modo, che lo vogliamo o no, a quell'ora del giorno il pubblico vorrà comunque sapere (dal servizio pubblico, o da Mediaset, o da chi c'è c'è) dei processi di cronaca nera e dei matrimoni vip, com'era d'altronde già ai tempi del feuilleton e dei Misteri di Parigi, o dei rotocalchi di massa nella seconda metà del ventesimo secolo.
E allora? Allora il problema non è se di questi temi (temi che interessano il pubblico che occupa la tv in quelle fasce orarie) si debba parlare o no, ma di come se ne debba parlare. Imponendo uno stile, un formato, una tridimensionalità ai problemi e alle storie personali. Non escludendo ma includendo. Con un linguaggio fresco, fatto più di buona televisione che di freddezza da telegiornale.
Intendiamoci: abbiamo assistito tante volte in passato a cadute di gusto, di stile, ad una cinica rincorsa al sentimentalismo, alla truculenza, ai mezzucci più bassi per "fare ascolto" (che, tra l'altro, non sempre funzionano). Ed è giusto che una tv pubblica fornisca uno standard più dignitoso.
Il che magari non significa fare un programma più "carino": in certi casi può significare fare un programma più cattivo, meno corrivo con i potenti, indisponibile alle marchette ma comunque curioso di tutti gli aspetti della vita. Per non dover dire, qualche mese dopo, "e va bene, rimettete il colonnino destro".
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