domenica 29 settembre 2013

Chi non ricorda OdB è scemo



Oreste del Buono (1923-2003).
Esattamente 10 anni fa moriva Oreste del Buono. E la cosa che mi fa più incazzare è che molti di voi non sanno chi fosse. Perché Oreste del Buono (OdB per gli amici, quindi per moltissimi, a turno, tra quelli che lo conoscevano) è stato, oltre che un meraviglioso rompiballe, uno degli intellettuali più importanti per l'Italia degli anni sessanta, settanta e anche ottanta del secolo scorso. OdB è stato una potentissima e soave forza modernizzatrice e sprovincializzatrice della cultura italiana. Lo è stato nei confronti non solo dell'America, ma in generale di ciò che di vivo ribolliva nella cultura di massa: dai comics al crime, al calcio, alla pubblicità.
Oreste del Buono e Pier Paolo Pasolini in tv.
Ha diretto Linus, ha diretto i Gialli Mondadori, ha diretto quasi tutto, sempre andandosene, dopo un po', sbattendo la porta. Riusciva a dirigere un' importante testata della Mondadori la mattina e un'altra di Rizzoli il pomeriggio, sempre insoddisfatto degli interlocutori ma a suo modo paziente verso le meschinità e le rozzezze altrui. Ma quando sbottava, sbatteva la porta. Aveva una pazienza ad orologeria. E così è andato avanti per tanti anni: a scrivere (bei) libri, a sbottare e a sbattere la porta. Tutti sono diventati suoi amici, molti sono poi diventati suoi nemici, e alla fine tutti quelli che lo conoscevano l'hanno pianto.
Il numero in edicola di Linus
con il ricordo di OdB.
Un giorno, mentre mi accompagnava in macchina non so dove (ero appena stato a visitare le sue redazioni, Linus e le sue girl dai Rizzoli e i Gialli Mondadori sopra le carpe di Segrate) ci trovammo a parlare di un film grandioso e misconosciuto di Spielberg: 1941. (Se vi capita, recuperatelo, scaricatelo, comperatelo: è uno dei flop più meravigliosamente geniali mai concepiti). 1941 narra a suo modo la paura americana di uno sbarco giapponese sulla costa occidentale, durante la seconda guerra mondiale. A un certo punto OdB mi disse: "Vedi, è come se noi italiani avessimo fatto un film comico sulla Resistenza. Noi non lo potremmo fare. Loro l'hanno fatto". E' per questo che quel vecchio comunista di OdB amava tanto l'America.

Non so se infrango qualche diritto, ma mi sembra giusto riproporvi la più formidabile tavola rotonda che io abbia mai letto: quella sui fumetti e Charlie Brown tra Umberto Eco, Oreste del Buono e Elio Vittorini.  Era l'apertura del primo numero di Linus, nel 1965. Quasi cinquant'anni fa. Quella lettura cambiò la mia vita, e facevo la quinta elementare. "Charlie Brown sono io", raccontava OdB a Eco. Com'eravamo moderni, Oreste.

Charlie Brown e i fumetti
Umberto Eco intervista Elio Vittorini e Oreste Del Buono


(da Linus, n.1, maggio 1965, pp.1-2)

Eco
Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente fri­vola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai conosciuto Charlie Brown?

Vittorini
Io mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occu­pavo anche ai tempi di “Politecni­co” e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti ame­ricani parlandone non soltanto sot­to il profilo sociologico, come suc­cede di solito, ma anche sotto il profilo storico

Eco
Di che cosa avete parlato a quel­l'epoca?

Del Buono
Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.

Vittorini
Sì, avevamo anche cercato di ser­virci dei fumetti come mezzo di di­vulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno “spirito di fumetto” c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il Politecnico dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubbli­cazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su Poli­tecnico ne riportammo due o tre.

Eco
E Charlie Brown?

Vittorini
Charlie Brown è venuto per un ac­cidente. Io mi facevo mandare dal­l'America, da amici che ho lì, i sup­plementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giu­sta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mon­dadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato “forze di libera­zione". Incuriosito, me lo sono fat­to dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.

                                                                                                   
Eco
Il primo numero di Linus, direttore Giovanni Gandini.

Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?

Vittorini
Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza anda­re nel difficile. io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.

EcoAllora secondo te è più artista Schulz?

Vlttorini
Certamente. Salinger, resta, se vo­gliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, ri­mane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio “hard-boiled”, soddisfa meglio cer­te esigenze di impegno). Salinger è un “patetico” che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il “ signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo ma­turo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.

Eco
E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?

Del Buono
Io sono un convertito a Charlie Brown, All'inizio non mi piaceva affatto, Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avven­turoso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo pun­to è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono as­solutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Char­lie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua, Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto co­me diagnosi, prognosi ed esorci­smo.

Vittorini
E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quel­lo che dice Del Buono: lui denun­cia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Char­lie Brown. Il primo contatto in ef­fetti non soddisfa; una singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella quan­tità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' co­me le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e una variabile l'altra, si ha allora un "continuo” che approfondisce non solo numericamente il signifi­cato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.

Eco
Questo mi pare importante perché molte volte quando si cerca di spie­gare a qualcuno, che non è abitua­to ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti, questo qual­cuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di ro­manzo, una pagina letteraria. Leg­ge un brano isolato, due o tre pa­gine e non vi trova effettivamente nulla, Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente, bi­sogna tener conto proprio della lo­ro tecnica di distribuzione e di consumo, così come certe epiche po­polari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio attraverso il ripe­tersi delle avventure. È quindi im­possibile giudicare il fumetto con i criteri che si applicano alla lette­ratura normale. Questo non signi­fica che il fumetto non possa esse­re un prodotto letterario: solo che esso va giudicato in un “sistema” di lettura (e quindi anche di crea­zione) diverso.

Vittorini
Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di “scatto di totalità”. Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità espressi­va, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non ab­biamo che la vignetta, una vecchis­sima conoscenza giornalistica, co­stituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un corpo solo quel­lo che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplica­zione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento della successione tem­porale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbia­no la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l'insieme riducendo le figure a non ave­re che dei compiti stereotipi, di de­scrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pitto­grafici. È questo terzo elemento che fa della strip un'unità espressi­va, perché rende puramente para­digmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'inter­no del proprio decorso) l'elabora­zione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire prege­vole lo riuscirà solo a livello di mas­sima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è pre­caria, può essere banalissima o co­munque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rappor­ti, gli oggetti in essa trattati ritor­nino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momen­to e aspetto su aspetto, perché noi si possa entrare nel merito qualita­tivo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato "scatto di totalità", cioè si è for­mato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il sen­so di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...

Eco
E qui viene fuori allora una conclu­sione abbastanza strana: mentre abitualmente i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, gior­no per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono riu­sciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni matti­no: proprio perché sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo cosi acquistano senso.

Del Buono
Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me, da ragazzo, erano stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi insom­ma, visti tutt'insieme nella riedizio­ne odierna entrano in crisi, proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo im­peratore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare, Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari dra­ghi sdentati, eccetera, è una ripe­tizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in luce dalla raccolta delle strisce, una mo­notonia casuale, non una ripresa si­gnificativa.

Eco
La forza di Charlie Brown è che ri­pete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo, qualche elemento fondamentale. Come cer­to jazz ripete con ostinazione una certa frase musicale.
Potremo quindi concludere dicen­do: il buon fumetto è quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra povertà d'invenzione.

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