Nel 1963, quando John Kennedy venne colpito a morte a Dallas, la Rai sospese le sue trasmissioni in segno di lutto. Fu una decisione bizzarra. Nello stesso momento i network americani andavano in onda senza sosta (e tagliando la pubblicità) per informare il pubblico. Ma erano i tempi del monopolio, si respirava ancora una certa aria di sagrestia e la soluzione dev’essere sembrata semplice e chiara (d’altra parte, avvenne alle nove di sera ora italiana, non esisteva il satellite e due ore dopo comunque il Programma nazionale avrebbe concluso le sue trasmissioni).
Walter Cronkite annuncia in diretta la morte di Kennedy alla CBS |
Cinquant’anni dopo la Rai non solo non è monopolio ma non è neanche maggioranza assoluta, nel senso che tutte le televisioni private, free e a pagamento, messe insieme coprono due terzi dell’audience. E quindi? E quindi forse la strada di dedicare la serata del canale principale all’informazione sarebbe stata più consona al servizio pubblico. Ma, scusa, si dirà: i canali sono tre. Anzi sono 12, considerando tutto il bouquet del digitale terrestre. Già, sono 12. E tra quei 12 il canale news non ha neanche i soldi e la struttura per mandare subito una fly all’Isola del Giglio.
Quando poi sono passate più di 48 ore dalla notizia ecco che la macchina si sveglia: i programmi di infotainment si mobilitano, i talk si riorganizzano e arriviamo ad una copertura melassosa e continua, con quel retrogusto un po’ ipocrita che talvolta spunta nella mestizia esibita. Cos’è successo? Nessuno seguiva le notizie? Qualcuno sia è accorto che l’argomento interessa? Che “funziona”? Ecco, è proprio questo ciò che forse stride in un servizio pubblico: andare a rimorchio e non, come dicono alla BBC, “setting the standard”.
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