martedì 17 gennaio 2012

Sciagure e servizio pubblico (inteso come Rai)

Come si deve comportare il servizio pubblico televisivo (insomma, la Rai) in situazioni di cordoglio nazionale? Sia chiaro, non sono un moralista. Spesso i rigurgiti di moralismo sono interessati e “a comando”. Ma storicamente il comportamento della Rai nelle situazioni di tragedie collettive è sempre stato ondivago (lo so, il termine stona). Non c’è mai stata una regola, dipendeva sempre dalla governance, dai direttori, dall’aria che si respirava nel Paese. Ci sono stati momenti in cui un lutto determinava l’immediato spegnimento dei programmi di intrattenimento, altri momenti in cui si andava avanti imperterriti, altre situazioni in cui un fervorino iniziale del conduttore risolveva il problema. La regola non c’è perché in realtà non c’è un’idea chiara di cosa dev’essere il servizio pubblico. Non mi riferisco alla retorica pubblica ma a una riserva mentale nella testa dei dirigenti. Dobbiamo pensare alla pubblicità? Dobbiamo pensare a non stressare troppo il Paese? Dobbiamo dare l’idea che le cose comunque vanno avanti? Dobbiamo far sentire la parrtecipazione a un lutto? Non è una risposta facile, soprattutto se non sono chiare le premesse.
Nel 1963, quando John Kennedy venne colpito a morte a Dallas, la Rai sospese le sue trasmissioni in segno di lutto. Fu una decisione bizzarra. Nello stesso momento i network americani andavano in onda senza sosta (e tagliando la pubblicità) per informare il pubblico. Ma erano i tempi del monopolio, si respirava ancora una certa aria di sagrestia e la soluzione dev’essere sembrata semplice e chiara (d’altra parte, avvenne alle nove di sera ora italiana, non esisteva il satellite e due ore dopo comunque il Programma nazionale avrebbe concluso le sue trasmissioni).
Walter Cronkite annuncia in diretta la morte di Kennedy alla CBS

Cinquant’anni dopo la Rai non solo non è monopolio ma non è neanche maggioranza assoluta, nel senso che tutte le televisioni private, free e a pagamento, messe insieme coprono due terzi dell’audience. E quindi? E quindi forse la strada di dedicare la serata del canale principale all’informazione sarebbe stata più consona al servizio pubblico. Ma, scusa, si dirà: i canali sono tre. Anzi sono 12, considerando tutto il bouquet del digitale terrestre. Già, sono 12. E tra quei 12 il canale news non ha neanche i soldi e la struttura per mandare subito una fly all’Isola del Giglio.

Quando poi sono passate più di 48 ore dalla notizia ecco che la macchina si sveglia: i programmi di infotainment si mobilitano, i talk si riorganizzano e arriviamo ad una copertura melassosa e continua, con quel retrogusto un po’ ipocrita che talvolta spunta nella mestizia esibita. Cos’è successo? Nessuno seguiva le notizie? Qualcuno sia è accorto che l’argomento interessa? Che “funziona”? Ecco, è proprio questo ciò che forse stride in un servizio pubblico: andare a rimorchio e non, come dicono alla BBC, “setting the standard”.

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